Milk PDF 
Gianmarco Zanrè   

“Se un proiettile dovesse entrarmi nel cervello, lasciate che quello stesso proiettile sfondi ogni porta chiusa”. Con queste parole si congeda Harvey Milk, politico di spicco della San Francisco attivista e liberale della seconda metà degli anni Settanta, simbolo non solo del quartiere di Castro, una delle prime realtà consolidate di una cultura urbana e sociale omosessuale, ma della stessa comunità gay americana, se non addirittura mondiale, precursore di tempi ed emancipazione che in molti paesi (Europa compresa) non si vissero prima di due decenni.

L’apertura pare essere l’anima dell’ultima pellicola di Van Sant, che torna al cinema mainstream dopo le ultime fatiche ad uso e consumo quasi esclusivo di un pubblico abituato a Festival e sale d’essai: un’apertura che non coinvolge solo ed esclusivamente il protagonista Harvey Milk e l’omosessualità, ma che tocca politica, storia, realtà di quartiere e capacità di confronto con i propri avversari e detrattori. Giunti al termine della pellicola, una delle prime osservazioni portate alla luce dalla visione è data, infatti, dalla grande pietà umana riservata alla parte di racconto che coinvolge l’assassino di Harvey Milk, un Dan White ottimamente interpretato da un ritrovato Josh Brolin, che poco ha da invidiare ai suoi colleghi trasformisti – su tutti Sean Penn ed Emile Hirsch –, autore di un’interpretazione di grande impatto, benché estremamente contenuta e sotto le righe. Il binomio White/Milk pare essere il binario principale del viaggio splendidamente fotografato da Gus Van Sant e approfondito dalla sceneggiatura di Dustin Lance Black, che trova appunto i suoi momenti migliori nei confronti tra i due antagonisti, più volte così vicini da apparire ad un passo da una storica svolta e, più comunemente, lontani ed incapaci di trovare un dialogo solido e costruttivo, per responsabilità imputabili ad entrambi. Una svolta e un’apertura, per citare di nuovo lo stesso Milk, che giungeranno, inevitabilmente e inconfutabilmente, con la vittoria schiacciante ottenuta dai liberali e dal movimento gay nel momento dello storico rifiuto della "Proposition 6" e con lo stesso duplice omicidio del sindaco Moscone e di Harvey Milk, avvenuto il 27 novembre 1978. Il dubbio che lo stesso White, nell’insana follia del suo gesto, abbia contribuito a rendere Milk non solo un simbolo locale, ma un esempio da seguire in tutto il mondo nei decenni a venire, è più che suggerito e presente nei conflitti interiori di un uomo roso dai sensi di colpa e d’inadeguatezza verso la sua gente, la sua famiglia e, prima di ogni altro, verso se stesso.

Un percorso oscuro e terribile, quello di White, che lo stesso Milk pare presagire, incidendo su nastro un testamento spirituale che sarà punto di partenza e stimolo per la realizzazione personale e di ideali del suo intero entourage, giovani perduti giunti a San Francisco da ogni parte degli States (e non solo) e destinati, nel piccolo delle loro esistenze, o nel grande dei successi e della fama, a cambiare il mondo con una scelta semplice e libera: scoprire la propria natura e viverla in armonia, senza colpa, timore o vergogna. In fondo, nell’eloquio e nel sorriso del politico e dell'uomo Milk, così come nella sua capacità di perseverare, anche di fronte alle ripetute sconfitte elettorali dei suoi primi anni a Castro, pare dimorare tutta quella genuina energia che la sessualità esprime e libera in ogni essere umano, a prescindere da gusti ed orientamento. Il cinema di Van Sant, soffuso ed elegante, ben si presta a raccontare una vicenda che lo stesso regista ha sempre avuto a cuore, e che ha il grande merito di portare di nuovo alla ribalta la storia di un personaggio ancora troppo poco conosciuto al di fuori dei confini statunitensi, ma non per questo meno importante di tanti altri grandi “rivoluzionari” del ventennio Sessanta/Settanta, da Jfk a Martin Luther King, da Malcolm X a John Lennon. Dal punto di vista prettamente stilistico la pellicola si presenta in una confezione elegante, e come di consueto, ormai, per Van Sant, scomposta a livello temporale – con il suddetto testamento spirituale di Milk a fare da cornice allo scorrere lineare della vicenda –, ed intelligentemente arricchita da inserti recuperati da filmati d’epoca, compreso quello emotivamente più coinvolgente, tratto dalle immagini riprese la notte della veglia funebre in ricordo di Milk. La stessa direzione degli attori appare ottima, e distribuita nello sforzo creativo su tutto il cast principale, facendo ricredere gli spettatori a proposito della campagna pubblicitaria, che pare considerare fondamentale il solo apporto di Sean Penn, che pure rende straordinariamente, per somiglianza e mimica, l’interpretazione di Harvey Milk. Se un appunto va ricercato, rispetto al cast, è legato al difetto principale di una pur solida sceneggiatura, che allo stesso modo può essere ricondotta al cinema recente di Van Sant: l’apparente volontà, o incapacità, di dare uno spessore umano al racconto, non tanto nelle intenzioni, o nelle emozioni suscitate, quanto nella sensazione che si stia assistendo, per l’appunto, ad un’opera di fiction.

Il compito primario e fondamentale del cinema è e resta l’intrattenimento, ma di fronte ad opere come Milk la sensazione di una certa incompiutezza, rispetto ad un’eccessiva perizia nella realizzazione, tende a ridimensionare il risultato finale, facendo indubbiamente pesare il nome dell’autore. Una sorta di “effetto Changeling”, per citare un’altra pellicola ottimamente realizzata eppure dal sapore d’un incompiuta prodotta oltreoceano negli ultimi mesi. Un passo avanti, per Van Sant, rispetto all’asettico ed asfittico Paranoid Park, ma un prodotto ancora lontano dalle vette di Drugstore Cowboy ed Elephant, opere simbolo dei due estremi, emozionale e tecnico, del cineasta di Portland. La notte degli Oscar, finalmente sempre più spesso aperta al cinema d’autore, riconoscerà probabilmente Milk, che finirà a contendersi e dividersi il bottino che conta con Il curioso caso di Benjamin Hutton. Ma non pensi, chi si accosta per la prima volta all’opera di Gus Van Sant, di aver conosciuto, con questa sua ultima pur convincente fatica, il vertice creativo di uno degli autori più importanti del cinema statunitense degli ultimi vent’anni. Al contrario, ci si concentri, curiosamente, proprio su quel lato non perfetto, sull’emotività e la scoperta, sul sorriso di Harvey Milk/Sean Penn e sull’apertura, capace di fornire ad ogni singolo spettatore una visione, personale ed universale, grazie alla vita, alla morte e al messaggio di un vero e proprio profeta dell’emancipazione, mentale prima di tutto. Se, accanto ad essa, poi, vi si troverà anche il sesso, ben venga. In fondo, quello non fa mai male. Chiudo citando un indimenticabile brano di David Bowie, quel Changes che fu parte integrante e fondamentale dei primi anni del successo della popolare icona rock inglese. Nel suo verso chiave, la canzone recita: “Time can change me, but i can’t trace time”. Pare che, con la sola forza della fiducia in un’apertura, Harvey Milk sia riuscito a smentire David Bowie. E non solo.

Il tempo ci cambia, ma pare ormai evidente che, dal piccolo al grande, dalle nostre personali esistenze al più globale, politico, mediatico successo, noi possiamo almeno tentare di segnare il tempo. Aspettando il “nostro proiettile” senza smettere di credere che nuove porte verranno aperte.

TITOLO ORIGINALE: Milk; REGIA: Gus Van Sant; SCENEGGIATURA: Dustin Lance Black; FOTOGRAFIA: Harris Savides; MONTAGGIO: Elliot Graham; MUSICA: Danny Elfman; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2008; DURATA: 128 min.

 


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