Berlinale: 60 anni portati bene PDF 
Silvia Taborelli   

Berlino festeggia i 60 anni del suo festival con un programma come sempre vastissimo, che da Postdammer Platz, cuore della Berlinale, si spinge nei tanti cinema della capitale tedesca, passando per Alexander Platz e raggiungendo il quartiere più a nord di Prenzaulerberg. La Berlinale, confrontata con i  “cugini” maggiori europei – Cannes e Venezia (rispettivamente a quota 62 e 67) –, mantiene la specificità di un festival molto orientato sul pubblico e non solo verso i professionisti, comunque molto numerosi e intenti a fare business, soprattutto all’European Film Market presso il Martin-Gropius-Bau. Le attenzioni per il pubblico generico lo rendono infatti più simile al nostro TFF: anche qui un sistema di vendita di biglietti indispettisce a volte gli accreditati – soprattutto press –, ma mette il cuore in pace ai cinefili che con pazienza e organizzazione si prenotano un posto sicuro e contribuiscono ad arricchire le casse, oltre che lo spirito, del festival (più di 270.000 biglietti venduti!).

Un’edizione da raccontare pensando innanzitutto agli assenti che hanno fatto parlare di sé forse più di una loro eventuale camminata sui marciapiedi ghiacciati di Berlino. Assente più che giustificato Roman Polansky che, bloccato ancora in Svizzera dalle sue discusse e discutibili vicende giudiziarie, ha inviato sul tappeto rosso i due protagonisti Ewan McGregor e Pierce Brosnan per il suo nuovo film in concorso The Ghost Writer, vincitore del premio per la miglior regia. Per scelta, invece, rimane nell’ombra Bansky, che porta fuori concorso a Berlino, dopo l’anteprima mondiale al Sundance, Exit through the gift shop: imperdibile per gli amanti della urban culture, è il primo film a raccontare dall’interno il misterioso e notturno mondo della street art, di cui Bansky è senza dubbio uno dei protagonisti assoluti. Il film è un lavoro di confine, un collages tra realtà e finzione, un film nel film, un taglia e incolla per dare vita alle innumerevoli minidv girate dal francese Thierry Guetta, ex negoziante, perfetto esempio di degenero maniacale del video amatoriale e di una camera stylo fuori controllo. Thierry, l’uomo con la videocamera, si ritrova quasi per caso a documentare gli artisti di questo movimento partendo dal cugino Space Invaders (l’artista che ha invaso gli edifici di mezzo mondo con i suoi mosaici che richiamano le figure dei primi videogame), passando per Shepard Fairey aka Obey (reso celebre dalla reintepretazione del manifesto Hope della campagna di Obama) e arrivando appunto a Bansky, il più politico e dissacrante, che si è affermato per i lavori realizzati sul muro che divide Palestina e Israele, per le sue incursioni nei musei e per la sua tecnica di stencil (con i topi come soggetto preferito). Fare un film dalle immagini di Thierry (diventato a sua volta improvvisato artista con il nome di Mr Brainwash, firmando niente meno che l’ultima copertina di Madonna) non era impresa facile, ma il fastidio della bassa qualità delle sue immagini è superato dall’audacia del progetto e dalla sua comicità inconsapevole. Un film quindi riuscito, nonostante sia girato da un non regista su un non regista e su un movimento artistico che tende a nascondersi, per statuto sfuggente e precario. Bansky appare nel film sempre mascherato e con voce alterata, e ha fatto parlare di sé senza mostrarsi in pubblico, così come aveva fatto poche settimane fa al Sundance, dove per dimostrare di esserci aveva riempito i muri di Park City dei suoi stencil.

Nell’era del 3D, degli effetti speciali e dell’enorme successo di un film definito rivoluzionario come Avatar, a Berlino ci si lascia ammaliare anche da un film che riporta il cinema quasi al grado “zero” della tecnologia, con un’animazione tradizionale, la quasi totale assenza di parole, atmosfere da Chaplin, ritmi lenti e sognanti. Anteprima mondiale per la sezione Berlinale Special Gala, il nuovo film di Sylvain Chomet, The Illusionist, è una bel ritorno del suo soffice e colorato disegno, a sette anni dal suo precedente successo, Les Triplettes de Belleville. Con una firma d’eccezione per la sceneggiatura – Jacques Tati –, il film è un omaggio allo spettacolo più tradizionale. Ambientato nel 1959, The Illusionist ha per protagonista Tatischeff, un mago che cerca invano di conquistare il pubblico in un mondo che si affaccia sui meravigliosi anni Sessanta del rock ‘n roll. Tenero e malinconico, viaggia da Parigi a Londra, fino alla Scozia, dove in una remota isola vive un momento di successo grazie ad un simpatico ubriacone in kilt e conquista la giovane Alice, rapita dalle magie che sembrano poter esaudire tutti i suoi desideri. L’immaginario di Tati è evocato alla perfezione, e se non bastassero ombrello, soprabito, gesti e posture, a metà film compare una citazione lampante con la scena di una sala cinematografica (chiamata non a caso “Cameo”) dove si proietta Mon Oncle. Come per il geniale Wall-E, anche The Illusionist è un film quasi muto, nel quale al suono – ottimamente curato – e a minimi dialoghi in lingue differenti viene affidata la comunicazione e l’affetto tra i due protagonisti. Le magie non esistono, ma crederci ci aiuta ad essere felici: questo sembra dirci Chomet rileggendo l’originale soggetto di Tati. Il film è stato acquistato dalla Sacher di Moretti e avremo modo di vederlo in Italia già dal prossimo maggio.

Alla ricerca di sguardi sull’attualità che rivelino il lato militante e impegnato della selezione incappo invece in due delusioni. Moloch Tropical è film debole e senza giustificazioni, considerato che ha alle spalle un evidente potenzialità produttiva (a partire da ARTE). Risulta a tratti patetico, nonostante proponga sulla carta un soggetto interessante: una fiction con al centro il presidente di Haiti (figura ispirata all’ex-leader caraibico Jean-Bertrand Aristide) alle prese con le contraddizioni del potere in un paese che festeggia i 200 anni dell’indipendenza nel caos politico. Ma non reggono le interpretazioni e la storia, fin dal principio troppo patinata, e che cade gradualmente ad un livello da fiction tv. L’unica nota da riportare è il possibile riferimento alle vicende berlusconiane, visto che il protagonista, oltre che di potere, è malato di sesso. E la domanda sull'ispirazione alla figura del nostro premier è arrivata immancabilmente anche in sala a fine film: il regista ammette che, pur casuale, il riferimento a fatti e persone c’è, eccome. La seconda delusione sul fronte impegnato del festival è per Red, White and Green, un documentario che registra preziose testimonianze nelle strade iraniane prima dell’elezioni del 2009, ma che pecca eccessivamente in qualità cinematografica, con un gusto estetico amatoriale più vicino a youtube che al grande schermo.

Con i suoi 60 anni la Berlinale dimostra comunque, pur nella compostezza generale del programma, di saper amalgamare tradizione e innovazione, stando bene al passo con i tempi di un cinema sempre più contaminato, che dialoga inevitabilmente con le altri arti e il web. Tuttavia, un po’ di coraggio in più ci vorrebbe nel concorso: perchè non sdoganare animazione, documentario e film di confine in una città oggi considerata tra le più all’avanguardia del mondo?

 


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