Vacanze prolungate - Johan van der Keuken PDF 
di Matteo Vabanesi   

"É un film sulla morte", per usare le parole dell'autore. Johan Van Der Keuken nasce ad Amsterdam nel 1938. Fotografo di formazione, si diploma all'IDHEC di Parigi con un film realizzato insieme a James Blue e Derry Hall: Paris à l'aube (1960), un abitudinario risveglio della capitale transalpina. Sono quasi contemporanee le mostre fotografiche. Amsterdam, la stessa Parigi, Roubaix, Milano e Biella ospitano gli scatti del giovane Johan, mentre, ancora acerbo, si appresta a collaborare a riviste di critica cinematografica e a maturare in seno alla televisione olandese.

Una filmografia di oltre cinquanta titoli, innumerevoli interventi, una breve ma ficcante produzione teorica, retrospettive, festival, premi e mostre fotografiche parlano, a distanza di tempo, della straordinaria qualità cinematografica di uno dei massimi documentaristi degli ultimi vent'anni. L'opera dell'autore si inserisce nel solco tracciato da Bert Haanstra e, prima ancora, da Joris Ivens. Les vacances prolongeés è l'ultima prova del suo genio, un testamento visuale lirico e, se vogliamo, intimamente ideologico. Van Der Keuken muore di cancro alla prostata domenica 7 gennaio 2001 tra le braccia della sua città natale, accanto a sua moglie, la seconda, Nosha Van Der Lely, compagna e co-realizzatrice.

Motivo del film è la diagnosi del tumore e l'impossibilità accertata di rimuoverlo. La fine biologica è la spinta al viaggio, alla ricerca della vita. Nel Natale del 1998 i coniugi partono per il piccolo stato del Buthan, nella catena dell'Himalaya; poi l'Africa lungo il grande fiume Niger e il Sudamerica, Rio de Janeiro. In mezzo, gli incontri con i medici di San Francisco e New York, la terapia e gli esami, la speranza e il dolore. "Non posso vedere il volto dell'universo – amava dire Johan –. Guardo sopra le spalle della terra nella luce. E la luce, sono io… tra gli altri". Proprio il tema della luminosità è, insieme alla morte, il centro del film, ma sarebbe troppo facile porla solo come metafora di dio e della vita. "Finché posso fare delle immagini significa che sono vivo", dice Van Der Keuken. Ma la radiazione luminosa è anche il presupposto "naturale" di ogni film. Perché non considerare la realizzazione filmica il traslato dell'esistenza?

Accanto alla luce, l'ombra. Una sequenza girata nella sala da ballo illuminata e scura di una discoteca nelle favelas di Rio è l'esatta nemesi. "Finché posso fare delle immagini allora sono vivo, ma qui non c'è luce, dunque non c'è contatto – scrive l'autore a commento –, e se non c'è contatto non c'è l'immagine, dunque sono morto". Van Der Keuken ritrova d'un colpo la natura stessa del documentario insieme all'essenza del proprio io. Luce e contatto, film e vita. La commistione tra arte e biografia personale fanno del film un momento, a un tempo, estetico e morale. Documentare non significa illustrare o validare ipotesi col suffragio dei fatti, piuttosto esplorare una piccola porzione di territorio per scoprire che esistiamo proprio in relazione a quanto osservato. Filosofia, politica, etica, ideologia: tutto deriva dalla realtà d'attorno. Il film documentario è un luogo per esistere, per rivelare un insospettato sé. È, con le parole di Comolli, "un'improvvisazione all'interno di un'inquadratura, inquadratura posta come ipotesi di fondo".

Alla relazione con l'esterno si accompagna la riflessione su di sé. Il rapporto con la moglie, con il figlio, con il proprio passato: frammenti di memoria compongono un labirinto di immagini. Una serie di oggetti a figura intera su fondo scuro resistono impenetrabili. Sono densi, lontani da noi ma colmi di senso. Sono coaguli di tempo, memoria e affetto: infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia; speranza, sogno, curiosità e amore. Tutto avvolto dal nero, tutto inghiottito dal tempo, rubato alla morte e regalato alla vita. Due chicchere di porcellana, una nell'altra, contenente e contenuto, uomo e donna, Noshka e Johan. Lui ondeggia impazzito dentro a lei. Come un cuore sotto stress il movimento e il rumore diventano sempre più lenti fino a cessare. Vediamo in primo piano l'interno della tazzina: il tempo si ferma, l'immagine si svuota.

La morte di Van Der Keuken diventa vita nel documentario, la fine momento eterno. Les vacances prolongées svelano questa tensione duale nella costruzione dell'intreccio come nella trama della rappresentazione. Immagini di un quadro di Klee. Tasselli di colore circoscritti da un ordito buio. Di seguito, per analogia, un lento zoom a stringere sui pixel di uno schermo televisivo acceso. Interstizi neri, la vita stretta dalla morte, invasa dall'ombra. I punti luminosi fremono incontrollati, come i tessuti attaccati dal cancro. Ancora, il Niger, "il grande fiume della vita", dove popolazioni seminomadi vivono di pesca e commerci. A seguire, lente chiatte percorrono il Reno nei pressi di Amsterdam. Risuona l'eco tronfio delle grandi barche. L'immagine si sfilaccia, perde consistenza. Ancora uno zoom lento stringe i bagliori del sole sull'acqua. Luce e ombra. È un film drammatico. L'urgenza di raccontare un'esistenza, di entrare nella coscienza degli oggetti e del mondo, si scontra con la certezza del trapasso. Ma nel film c'è speranza. Nel film c'è la vita. "Come me – dice l'autore – anche le persone e gli animali che ho filmato muoiono, ma sopravvivono nel film, for a while".

 


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