La filmografia di Steven Soderbergh appare fondamentalmente scissa in due filoni principali. Da un lato blockbuster spettacolari, naturalmente All-Stars: da Out of Sight al godibile Ocean's Eleven, da Solaris - imbarazzante remake nientemeno che del capolavoro di Tarkovskij - all'inevitabile sequel Ocean's Twelve. Dall'altro piccoli film indipendenti, con tempi di lavorazione ridotti al minimo, stilisticamente più complessi, tematicamente impegnati, tramite i quali rilanciare la propria immagine di autore. Riproponendo così la questione, quasi insolvibile, se Soderbergh sia in effetti un "autore", senza con ciò voler scindere in alcun modo una simile "etichetta" (probabilmente superflua, in quanto tale) da un cinema prettamente di genere. Giacché i suoi lavori, anche quelli non immediatamente riconducibili alle logiche di mercato e a una mera intercettazione degli istinti basilari del pubblico, lasciano immancabilmente lo sgradevole dubbio se si sia assistito a una coraggiosa sperimentazione o piuttosto a una cinica provocazione, a una deriva originale oppure a un'operazione pianificata a tavolino. Genio schizofrenico o (peraltro abile) manipolatore delle attese dello spettatore, in un gioco perverso in cui lo spiazzamento si fa parametro fine a se stesso, sterile viatico direttamente proporzionale all'eventuale apprezzamento? D'altronde, le perplessità sulla sincerità delle scelte e della poetica di Soderbergh nascono con il cinema stesso del regista di Atlanta, con quel suo primo lungometraggio (Sesso, bugie e videotape, 1989) che riecheggiava proprio Egoyan - il sesso nella civiltà delle immagini, l'invasione delle macchine nell'immaginario erotico contemporaneo, l'inaridirsi e la mutazione dei sentimenti nell'era della riproduzione tecnica - e si fregiava della Palma d'Oro a Cannes e dell'entusiastica accoglienza da parte del presidente di giuria Wim Wenders.
Bubble, girato in digitale in appena tre settimane e con un cast di attori non professionisti reclutati direttamente sul luogo, rientra evidentemente nel secondo troncone di film individuato, primo risultato del progetto soderberghiano di sei film low-budget (che, come sua natura, il regista alternerà con alcune superproduzioni mainstream) da distribuire contemporaneamente in sala, in dvd e sulla pay-tv, al fine di ottimizzare campagna pubblicitaria e sfruttamento commerciale. È stata senz'altro questa la prima delle ragioni per cui Bubble ha attirato su di sé l'attenzione generale, per una scelta produttiva tanto ponderata quanto rivoluzionaria. Il film in sé, poi, ha ribadito quanto già constatato sul Soderbergh off-Hollywood, confermandone in pieno i limiti, quella sensazione tanto sgradevole. In una grigia cittadina dell'Ohio, Martha e Kyle sono impiegati in una piccola fabbrica di bambole, che gli operai assemblano ancora a mano, in una dimensione semi-artigianale. Martha è una grassa e triste donna di mezz'età che fa da infermiera all'anziano padre, Kyle è un triste e introverso ventenne che vive con la madre. Invischiati in una quotidianità aberrante, imperniata su un lavoro inappagante e soprattutto sulla ferrea ripetizione delle medesime, pochissime azioni - lavorare, mangiare, dormire -, essi si aggrappano a un rapporto umano consumato in un passaggio in auto o davanti al solito hamburger della mensa, nient'altro che la condivisione di una condanna, di una prigionia infinita. A violare per un attimo tale routine è l'arrivo di Rose, ragazza madre dedita al furto e all'inganno, che riuscirà ad attirare l'attenzione del giovane Kyle e che (per questo) finirà strangolata. Ma neppure l'omicidio può modificare radicalmente un panorama di morte (sociale, affettiva), e rapidamente gli eventi saranno riassorbiti nell'apatia di tutti i giorni. Ciò che di Bubble salta subito agli occhi è il simbolismo fin troppo insistito, come quello che pone i protagonisti - marionette senz'anima - in una fabbrica di bambole che altro non sono se non il loro riflesso speculare, corpi di plastica impietosamente sezionati, oggetti creati in serie da un Dio meccanico e mostruoso per poi essere ricomposti e decorati senza amore, né compassione. Indicativa di tale didascalismo è già la sequenza d'apertura, in cui una ruspa affonda nel terreno molliccio di un cimitero, come a suggerire che il film scaverà nel pantano della provincia americana, lì dove il sogno non ha mai abitato, facendone affiorare impietosamente la miseria morale, lo squallore, l'orrore. Scelte come l'utilizzo del digitale (la fotografia come sempre è dello stesso Soderbergh), o di attori prelevati dalla strada, hanno mandato in visibilio certa critica, come pure il tono dimesso e lo stile antispettacolare e "minimalista" (com'è stato definito) che sottendono a una visione amara e sconsolata dell'esistenza.
Così, per l'astuto e camaleontico Soderbergh, e per un film come Bubble, sono stati avanzati paragoni importanti, non sempre a proposito. Riguardo al tentativo di cogliere lo spirito (annientato) dell'America profonda si è chiamato in causa David Lynch e la sordida amenità di Twin Peaks, ma anche lo splendido Una storia vera, dove però la provincia americana assume una connotazione molto distante da quella soderberghiana, in una (ri)scoperta appassionante dei valori autentici degli uomini e della misteriosa bellezza del paesaggio. Per lo sguardo impassibile che segue i personaggi nella loro invincibile reiterazione si è evocato il Gus Van Sant di Elephant, mentre per la (presunta) capacità di adottare un approccio realistico ai limiti del documentarismo nei confronti di un disagio sociale sono stati scomodati addirittura i Dardenne. In realtà l'analisi di Soderbergh non raggiunge mai le profondità abissali del cinema dei fratelli belgi, e il suo stile continua a rimanere manierista, cerebrale, sempre troppo calcolato. In questo certamente più vicino a un Lars von Trier (impossibile non ripensare alla fabbrica e agli operai di Dancer in the Dark), peraltro già emulato dalla traballante camera digitale di Full Frontal.
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