Peccato. Peccato perché il film è molto bello, l'argomento interessante, i personaggi ben delineati, i dialoghi ben scritti, la scenografia magistralmente ricostruita, la fotografia sublime.
Ma Tavernier, innamorato della sua pellicola, non ha avuto il coraggio di rinunciare a niente, nemmeno a una virgola della sua storia e ha realizzato un film eccessivamente lungo (quasi tre ore) che risulta, da un certo punto in avanti, noioso, dispersivo, addirittura inutile.
Una storia vera (o quasi), quella raccontata dal regista in base alle testimonianze di amici come gli sceneggiatori Jean Aurenche, Pierre Bost e Jean Comos (co-sceneggiatore, quest'ultimo, del film di Tavernier) e del regista Jean Devaivre, il quale, però, ha sollevato un polverone giudiziario, all'uscita del film, dicendosi defraudato e distorto nelle sue memorie che, successivamente, ha raccolto in un libro.
Una storia in cui intervengono nomi e personaggi assai noti di un certo periodo del cinema francese: Charles Spaak, Clouzot, Simenon e persino un vecchio e scorbutico Michel Simon ripreso di spalle, mentre ripete innumerevoli volte la stessa scena. La Storia del cinema che si intreccia alla Storia di una guerra atroce combattuta anche a suon di film. Ma a molti, in Francia, questa commistione non è piaciuta e il caro Tavernier è stato accusato di revisionismo da giornali come "Le Monde" e "Liberation": proprio quelli che, invece, avrebbero dovuto maggiormente comprenderlo.
"Sono attacchi di una bassezza inaudita - replica il regista - Mi accusano di aver girato questo film per attaccare la Nouvelle Vague. Io che l'ho amata profondamente, ho adorato Godard, Chabrol, mi sono battuto per loro." Eppure in Laissez-passer aleggia un certo clima di nostalgia verso quella vecchia scuola cinematografica francese, fatta di 'maestri' e assistenti, contro la quale la Nouvelle Vague volle rompere definitivamente per creare un diverso sistema di fare cinema. Il pubblico italiano, tuttavia, non si porrà questo problema, perché, di fatto, risulta una questione sconosciuta. Sarà una storia di sopravvivenza e d'amore che andrà a vedere in sala. D'amore per il cinema tutto: senza distinzione di generi. Una vicenda che racconta, seppur con troppa dovizia di particolari, le scelte che le persone erano costrette a fare per cercare di restare al mondo, pur non scendendo a troppi compromessi (o non scendendoci affatto, nel caso dello sceneggiatore Aurenche).
Qualcuno ha replicato che molti scelsero di non accettare affatto quella situazione, finendo in campi di concentramento e morendo atrocemente. Certo. Ma il mondo non è fatto di soli eroi e, forse, eroe è anche chi, comunque, decide di mantenere una facciata collaborazionista per riuscire a militare contro il nemico in maniera insospettabile. E la scena di Devaivre che, d'istinto, decide di fotografare i documenti di cui non conosce l'importanza, ma che, sicuramente, potranno servire a salvare qualcuno, è una delle scene più belle e di maggior tensione dell'intero film. Molto di più del tragicomico (e inutile) interrogatorio con gli inglesi.
Molto bella, infine, la lunga corsa in bicicletta di Devaivre per rivedere la sua famiglia: centinaia di chilometri pedalando di giorno e di notte con una lampada attaccata al cappello. Una di quelle avventure che hanno vissuto davvero i nostri nonni e che, nonostante il dolore e le ingiustizie delle guerre, restituiscono a chi se le sente raccontare (o, meglio ancora, a chi le vede proiettate su uno schermo) il valore delle cose semplici e delle imprese impossibili che le situazioni limite inducono a compiere a normali esseri umani. Proprio come noi.
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