La banda Baader Meinhof PDF 
Lidia D'Angelo   

Solo l’umanità redenta è in grado di citare il proprio passato, diceva Walter Benjamin. Può farlo solo quando lo possiede, quando, in qualche modo, una pacificazione tra il sé e i fatti si è consumata. E, allora, la storia diventa narrabile, dicibile, diventa, cioè, l’oggetto finalmente possibile di una rappresentazione. Forse è per questo, che film come Buongiorno, notte di Marco Bellocchio e La banda Baader Meinhof, ultimo lavoro di Uli Edel, hanno almeno un punto di tangenza essenziale, un vero e proprio fulcro comune attorno a cui sembra ruotare, tanto nel caso italiano quanto in quello tedesco, l’intero racconto. Due nazioni, due società, quindi due culture, attraverso un film, si trovano costrette a confrontarsi con lo stesso decennio sanguinoso; due storie, dopotutto, estremamente simili e connesse tra loro. Come parlare di terrorismo? O, meglio, come parlare di un mondo incredibilmente vicino, di cui, eredi o testimoni, siamo stati tutti partecipi? Di qui, l’atto cosciente, l’impegno e la difficoltà dell’impresa narrativa affrontata dal regista tedesco.

La banda Baader Meinhof nacque nel maggio del 1970: fondata da Andreas Baader e Ulrike Meinhof, ha rappresentato uno dei nuclei terroristi più attivi e noti di quegli anni, in Europa. L’ambizioso progetto del gruppo era quello di prendere parte ad una lotta armata, di carattere internazionale e di ispirazione marxista-leninista, fino a ribaltare completamente le sorti di un mondo ormai totalmente improntato e pervaso dal modello capitalista. Il film ripercorre le storie di tutti i protagonisti che, attorno a questa stessa progettualità politica, si sono ritrovati, seguendo le diverse generazioni che, lungo un ventennio, ci hanno investito energie e speranze. Si tratta di un gruppo di intellettuali, giornalisti, anarchici, pasionari, tra loro anche molto diversi. Edel è magistrale nel costruire perfettamente la dinamica delle relazioni di gruppo, la modificazione dei caratteri e i percorsi dei singoli personaggi, alla luce di quella comune ideologia alimentata e condotta dal gruppo sino alle sue più estreme conseguenze, fino a diventare un progetto sempre più delirante e radicale. Una dopo l’altra, metteranno in pratica le loro azioni politiche: il rapimento, nel 1977, a Colonia, del Presidente della Confindustria tedesca Schleyer e il dirottamento di un Boeing 737 della Lufthansa a Palma di Maiorca, nell’ottobre dello stesso anno. Gradualmente, per tutti, la causa comune sembra diventare più forte di qualsiasi altro valore. Più importante dei figli abbandonati alla loro vita, della libertà di movimento di cui ciascuno dei terroristi sarà privato, dell’identità personale, giorno dopo giorno calpestata e offesa. La prima generazione della banda, infatti, già due anni dopo la fondazione, nel 1972, fu quasi interamente identificata e arrestata e, in quegli anni, con la vita nel carcere, comincia per loro un graduale processo di decadimento, che si spingerà, col tempo, fino alle sue estreme conseguenze: l’annullamento totale della persona e quindi la scelta del suicidio, come unica via di fuga possibile, come la sola salvezza.

Il quadro d'insieme che ne risulta è composito. Da una parte, il regista non manca di mettere in luce tutta l’umanità dei personaggi, le loro fragilità, fuggendo tanto dal facile stereotipo del mostro, quanto da quello dell’eroe. D’altro canto, però, non si sottrae neanche alla rappresentazione della società tedesca dell’epoca che, in parallelo ai fatti di sangue che accaddero, viveva e pensava. Riesce, allo stesso tempo, a raccontarci la difficoltà incontrate dalle alte sfere politiche nel controllare ed arginare un fenomeno in continua espansione e delle amorali simpatie di una parte del popolo tedesco nei confronti della banda. Il tutto conservando uno sguardo neutro, un montaggio invisibile, una costruzione delle inquadrature assolutamente essenziale. È solo all’intreccio di tutte le componenti narrative che è affidato il compito di additare il problema, di arrivare al cuore pulsante del racconto. Cos’è successo ad una società che arriva a considerare trascurabile l’uso della violenza e della forza, tanto da rintracciare in un gruppo terrorista una concreta possibilità di cambiamento? Quali sono le responsabilità in gioco, se responsabilità ci sono state? In questa complessa scacchiera di persone, sentimenti e reazioni, il quadro è completo e comunque mai risolto. Una delle chiavi di lettura di una storia presente, forse, è rappresentata proprio da questa postura autoriale, dalla massima apertura di senso possibile. E in questo senso il regista di Buongiorno, notte e Uli Edel fanno qualcosa di simile. Bellocchio chiude il suo film con una sequenza di fuga di un Moro ancora vivo, in una dimensione totalmente irreale. Edel, invece, ci lascia un mosaico insolvibile, che, più che chiudere, apre e moltiplica gli interrogativi, i punti di domanda.

Forse una delle strade per comprendere cosa siamo stati, le colpe che abbiamo, i fatti che abbiamo vissuto, è proprio quella seguita, in questo suo ultimo film, dal regista tedesco, incentrata sulle ricostruzioni corali, su di una molteplicità proficua di punti di vista, dimenticando, per il momento, tutte le morali e le soluzioni possibili e puntando, piuttosto, sul potere di problematizzare che, in un certo cinema, ancora posseggono le immagini.

TITOLO ORIGINALE: Der Baader Meinhof Komplex; REGIA: Uli Edel; SCENEGGIATURA: Bernd Eichinger, Uli Edel; FOTOGRAFIA: Rainer Klausmann; MONTAGGIO: Alexander Berner; MUSICA: Peter Hinderthür, Florian Tessloff; PRODUZIONE: Germania; ANNO: 2008; DURATA: 149 min.

 


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