I mondi chiusi/aperti di Wes Anderson PDF 
Aldo Spiniello   

ImageWes Anderson è un regista che si ama o che si odia. Senza mezza misure. Perché il suo cinema è un viaggio attraverso sentieri visivi e narrativi talmente personali da lasciare irrimediabilmente a terra, fermi e distanti, tutti coloro che non riescono a stabilire un immediato contatto. In effetti, è come se ogni film di Anderson descrivesse e mettesse in azione un mondo chiuso, limitato, del tutto finito. La Rushmore e la vita dei liceali, il vecchio condominio attorno a cui ruotano le astruse vicende dei Tenenbaum, la Belafonte della folle ciurma di Steve Zissou, il treno per il Darjeeling in viaggio attraverso l’India. Persino Un colpo da dilettanti, che ha un’apertura quasi da road movie, finisce per ripiegarsi su se stesso, in scenari familiari (parola che non si usa mai a caso nel cinema di Anderson) come il motel e la casa di Bob. Si tratta di mondi, o meglio di porzioni di spazio, che costituiscono fulcri narrativi ed emotivi e che seguono le loro regole, universi caotici e colorati che trovano in se stessi le intime  ragioni di esistenza e da cui i personaggi non si allontanano mai. Mondi chiusi a livello narrativo, impermeabili all’esterno, tanto è vero che non c’è mai alcun richiamo a una dimensione sociale e politica. Tutto è costruito e riporta all’universo della narrazione. Ne I Tenenbaum le riviste, la televisione, le telecronache sportive sono finte, così come appaiono finte le sgangherate gipsy cabs: tutto è funzionale alle vicende dei protagonisti. Sono mondi artificiali, così come è artificiale il cinema tutto, che in Anderson denuncia spesso la propria finzione. In uno dei magnifici film in Ektachrome di Steve Zissou appare in campo lo stesso operatore Vikram Ray (Waris Ahluwalia): fuori campo proibito che si offre allo sguardo. Mondi che potremmo definire autarchici, così come autarchico è il quadro del cinema primitivo, che in un certo modo viene richiamato dalle tante inquadrature statiche, quei campi totali frontali di cui abbondano i film di Anderson. Rushmore si apre come fosse un sipario teatrale: una tenda si dischiude ed ecco che il palcoscenico si offre allo sguardo. Mondi come palcoscenici in cui si esaurisce il racconto e in cui i personaggi interpretano  il loro ruolo, stretti nelle loro divise (i Tenenbaum hanno sempre gli stessi vestiti), che li qualificano e l’identificano ancor prima delle loro psicologie.Image

Il cinema di Anderson si rappresenta prima ancora di narrarsi. Mondi piccoli e accoglienti come case…Eppure questi “film come case” di Anderson solo all’apparenza sono a chiusura ermetica. Perché stabiliscono, innanzitutto tra di loro, una serie di relazioni e rimandi fittissimi. È indicativo il fatto che il regista texano si affidi sostanzialmente agli stessi attori che attraversano i film passando da un personaggio all’altro e portandosi dietro una sorta di “memoria” dei loro ruoli precedenti. Uno per tutti: l’onnipresente Kumar Pallana. Il magnifico incipit de Il treno per il Darjeeling è esemplare. Un uomo corre per agguantare un treno al volo. Un carrello laterale lo segue. Ma ecco spuntare un uomo più giovane che lo supera. Lasciamo perdere il primo uomo e ci concentriamo sul secondo, che riesce a salire proprio su quel treno. Il narratore sceglie di seguire solo una delle due storie, quella di Adrien Brody, e lascia a terra un’altra storia potenziale, quella di Bill Murray. Ma se si pensa che Bill Murray è anche Steve Zissou, cioè il padre della scalcagnata ciurma della Belafonte, allora si coglie immediatamente il senso de The Darjeeling Limited, in cui l’assenza del padre è il dato da cui partire e su cui far crescere la storia e far evolvere il rapporto tra i tre fratelli. Ma nell’universo diegetico del cinema di Anderson i richiami tra un film e l’altro si sprecano: gli abissi di Steve Zissou non sono forse gli acquari reali e progettati di Rushmore? I soldatini di piombo de Un colpo da dilettanti non fanno parte forse della camera dei giochi dei tre fratelli Tenenbaum (tre fratelli come ne Il treno per il Darjeeling, come tre sono i protagonisti di Un colpo da dilettanti…”Io sono uno dei tre fratelli” dice Wes Anderson…)? Margot la drammaturga non è forse la sorella ideale di Max Fisher piccolo genio del teatro? I tanti mondi di Anderson in realtà vivono allo stato fluido e comunicano tra loro come attraverso un costante processo di osmosi. Le ormai celebri colonne sonore costituiscono un tappeto musicale quasi ininterrotto, che si snoda da un film all’altro e stabilisce un legame emotivo, una sorta di tracciabilità che rimanda a un marchio di fabbrica familiare (ancora una volta). Ma proprio quest’utilizzo della colonna sonora rivela come “i film come case” di Anderson non siano solo in comunicazione tra di loro, ma anche con qualcosa di più esterno e universale. Un immaginario profondamente pop che mescola alto e basso e riesce a comunicare senso a più di una generazione. È come se ci si trovasse di fronte all’affollatissima copertina di Sgt. Pepper’s, in cui troviamo non solo i Beatles che fanno il paio coi Rolling Stones, ma anche i rimandi al fumetto e a Salinger, il verso a Cormac McCarthy e a Bjorn Borg, i film d’esplorazione acquatica di Jacques Cousteau e i vezzi sperimentali stranianti alla Godard, una poetica profondamente truffautiana e la semplice presenza di Seymour Cassell che spalanca vertigini cassavetesiane. E poi una sorta di teatro dell’assurdo (il corto Hotel Chevalier) e la percezione occidentale di una coloratissima e sfarzosa Bollywood (Il treno per il Darjeeling), richiami al poliziesco anni Settanta (il Serpico di Max Fisher) e allo spettro del Vietnam, le derive di Un colpo da dilettanti che sembrano rimandare a Una calibro 20 per lo specialista di Cimino, gli interni rossi alla Bergman (I Tenenbaum), il puro Méliès delle immersioni di Zissou e il puro 007/Licenza di uccidere/Dottor No di Hennessey, le Adidas e Barbet Schroeder. Mondi disseminati di segni. Ma per raccontare cosa?

ImagePartiamo dall’evidenza. Il cinema di Wes Anderson parla sempre di famiglie, legittime, naturali o soltanto putative. Gruppi in cui si può individuare, non senza una certa confusione, i ruoli definiti: il padre, la madre, marito e moglie (e talvolta amante) e i figli. E, naturalmente, le relazioni affettive ed emotive all’interno di queste famiglie sono sempre precarie, tanto profonde quanto fragili, sempre sul punto di rompersi e sempre da ricucire e ricostruire, difendere e contestare. I sentimenti non seguono mai il loro percorso lineare, di causa ed effetto, sono da riconoscere e da riaffermare ad ogni istante, a costo di rischiare la schizofrenia e l’incoerenza, di sembrare addirittura falsi e ipocriti, cinici e insensibili. E la famiglia non è mai un puro dato biologico, una semplice linea di sangue, ma una vera e propria conquista la cui forma e i cui confini vanno ridisegnati e difesi giorno dopo giorno. I cuori sono folli, viaggiano per sentieri selvaggi. Eppure, a voler rintracciare il cuore del cinema di Wes Anderson, non occorre tanto concentrarsi su questa conflittualità familiare latente, sempre sul punto di esplodere, ma mai deflagrante. In questo la poetica del texano si distingue da quella sempre e comunque “familiare” dell’altro grande omonimo Paul Thomas Anderson. In realtà il nucleo profondo del cinema di Wes Anderson si concentra sulla perdita e il distacco. Non c’è un film in cui non occorra fare i conti con un lutto, un’assenza fondamentale da colmare. La madre di Max Fisher e il marito di Rossmary Cross, la moglie di Chas Tenenbaum e la morte (finta/vera) del capostipite Royal, la tragica fine di Esteban e il suicidio della madre di Ned Plimpton, il padre dei fratelli Whitman. Lutti che rappresentano veri e propri turning points nella vita dei congiunti, momenti critici che rimettono in moto forze solo all’apparenza sopite. E se da un lato la morte è una perdita irrimediabile, dall’altro offre da sé la strada per superare la crisi, le tante piccole separazioni e fratture. Perché l’elaborazione del lutto deve passare necessariamente attraverso la condivisione di un dolore, che permette di riscoprire una fratellanza e un’appartenenza dimenticate. I fratelli Whitman si liberano del loro fardello di valigie e vecchi rancori per continuare il loro viaggio, finalmente insieme. Superare il passato e andare avanti. Wes Anderson ci fa rimpiangere la nostra immaginazione infantile perduta, quell’oceano di granchi caramellati e squali giaguaro. O, quasi fosse Tarantino, un immaginario in via d’estinzione. Ma è solo un istante. Ormai siamo adulti. Un ultimo ballo, un’ultima preghiera: il rito finale di purificazione. Poi tutti, di nuovo, a vivere.

 


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