Il cinema di Guido Chiesa nella sua riproduzione mnemonica di un passato, non agevolmente removibile dalle nostre coscienze, rivela un'intelligenza di sguardo che si traduce in un film gradevole e amabile, in cui evita gli eccessi e le sbavature dell'affresco d'epoca, per quanto questi difetti siano a tratti avvertibili, quale inevitabile pegno da pagarsi nell'affrontare simili ricostruzioni.
La scelta narrativa di rappresentare la nascita di Radio Alice, attraverso il codice filmico della comica muta, dimostra un'ironia e una freschezza di linguaggio adatte a ricondurre su un piano più umano vicende, che per quanto abbiano rappresentato un felice momento creativo, frutti maturi del periodo storico, avrebbero dato adito a disquisizioni e rappresentazioni retoriche. Il regista decide di legare alle vicende della radio libera le esistenze placidamente blande di due giovani nullatenenti, conquistati dalle lusinghe del denaro sicuro e dal sogno della fuga, riportandoci l'esperienza di due simpatiche canaglie, che impareranno a conoscere meglio se stessi e la realtà del loro tempo.
Il film rappresenta, dunque, un percorso di formazione e crescita collettiva, in cui pare avvertirsi un desiderio di narrazione corale, ove le esistenze dei vari protagonisti sono legate a quelle dei fautori della radio libera. Essa rappresenta il vero e proprio medium in grado di unire e legare a sé disparate realtà sociali, incapaci di trovare un apparente punto di contatto, se non attraverso l'ascolto delle sue trasmissioni. Queste sembrano costituire, addirittura, una vera e propria ragione di vita per il carabiniere di leva, che, nel suo comico tentativo di decifrazione dei presunti messaggi sovversivi delle stesse, ricerca un'attenzione e considerazione quasi paterna da parte del tenente Lippolis (Valerio Mastrandrea), indifferente alle tensioni sociali così temute dai suoi superiori e teso ad un onesto avanzamento di carriera, mediante la messa a segno di un arresto per rapina. Il contatto invece messo in atto da Sgualo (Tommaso Ramenghi) e Pelo (Marco Luisi) è più immediato, diretto, sospinto da una sana curiosità verso questi loro coetanei propugnatori di una nuova visione della realtà sociale e politica che li circonda. Dimensione finora ignorata dai due giovani, o meglio vista con distaccata ironia, tanto da non volerla comprendere, finendo col trovarcisi inevitabilmente in conflitto.
I due protagonisti riproducono un aspetto ancor più marginale della realtà periferica bolognese, rivelatrice delle incoerenze e delle contraddizioni del pensiero intellettuale, incapace di prendere veramente contatto con la realtà del proprio tempo, fino al collasso sociale. Significativo in proposito è il personaggio, apparentemente marginale, del balordo di quartiere, processato a seguito di un pestaggio, il quale appare come il più oscuro e incomprensibile dei protagonisti; chiuso nel suo silenzio ostinato ed indecifrabile, egli riconosce fieramente la propria inabilità sociale e stoicamente ne accetta le conseguenze repressive, nella convinzione di trarre dalla rieducazione carceraria un insegnamento di vita che pare mancare ai più e anche al personaggio di Marta (Claudia Pandolfi), la quale a suo tempo avrà occasione di comprendere il proprio ruolo.
Il film di Chiesa pare però perdersi nella seconda parte, fino all'implosione delle tensioni sociali che comportano uno scorrere rapido e inarrestabile delle vicende e delle esistenze finora incontrate, le quali si troveranno sospese di fronte ad un futuro storico che noi conosciamo, ma che nel contesto cinematografico ci viene lasciato intuire, quale libertà finale d'immaginazione nei confronti di un contesto drammatico, che Chiesa non intende spiegare ma solo mostrare, seppur correndo qualche rischio nell'indicare una ragione o un motivo, dietro al caos intellettivo di quel preciso momento di tensione sociale.
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