Three Kings: Mosè nel deserto del reale PDF 
di Marco Toscano   

La corsa del soldato si arresta bruscamente quando, ad una qualche distanza da lui (impossibile definirla con precisione) la figura di un uomo comincia a distinguersi dal pietroso paesaggio circostante. Sembra richiedere aiuto, ma il deserto è ingannatore e il dubbio è sempre lo stesso, l'attimo di indecisione fatale cantato da Fabrizio De Andrè. Non la soluzione: Troy ha paura, in modo affatto spettacolare quello muore. Troy Barlow non aveva mai sparato a un uomo e il suo atto dà modo all'amico Conrad di assistere ad uno spettacolo insolito, inatteso: "dannazione, non credevo di vedere morti in questa guerra", esclama. Troy e Conrad sono militari dell'esercito americano, impegnati in Iraq in occasione dell'operazione "Desert Storm", eppure sperimentano il conflitto, le sue conseguenze, il suo momento fondante solo ora. Quando la guerra è già finita. Così essi, di colpo, si trovano catapultati nel "deserto del reale".

Il richiamo al testo di Slavoj Zizek non può essere casuale, per più di un motivo. "È ormai un luogo comune che stia prendendo piede un nuovo tipo di guerra: una guerra ad alta tecnologia, in cui le missioni vengono compiute tramite bombardamenti di precisione senza alcun intervento diretto delle forze di terra". Quando Zizek continua col parlare di "astrazione inscritta direttamente nella situazione reale" e di guerra "immateriale", spogliata della propria sostanza (come beviamo birra senz'alcool e caffè senza caffeina), è esattamente da contesti come quello descritto nel film che egli parte per la propria analisi. Un percorso insidioso, tortuoso e accidentato come quello compiuto su una jeep per attraversare il deserto. Ma necessario, se si vuole arrivare alla fine della sterminata distesa di nulla, se si vuole evitare di farsi seppellire vivi dalla sabbia spessa dell'ignoranza. Un cammino da affrontare con gli occhi bene aperti, anche se le violente tempeste di sabbia consiglierebbero di abbassarli, nasconderli, voltando lo sguardo. Ciò che l'autore prospetta alla fine del deserto delle nostre esistenze quotidiane (il nulla auspicato da chiunque abbia interesse a soffiare su quella sabbia, creando mulinelli di polvere perché si depositi sulle coscienze, annientandole) non è una terra promessa, una distesa verdeggiante e fertile di nuovi inizi come la California di Furore, ma un altro deserto. Non certo più ospitale di quello appena superato. Tutt'altro. Ma di sicuro più "visibile": non perché inondato di sole (giacché la troppa luce finisce per riflettere, accecando), bensì di una pioggia incessante che, bagnando la sabbia, le impedisca di levarsi a negare lo sguardo ora possibile, di occhi eroici e asciutti, sulle rovine del mondo.

È proprio un'esperienza del genere quella a cui sono destinati i soldati protagonisti di Three Kings: l'irruzione del Reale nella "realtà" della loro guerra virtuale, e lo sforzo per imparare a convivere con morti veri, sofferenze autentiche difficili da accettare. Un processo di maturazione, questo, non privo di contraddizioni: "Il Reale che ritorna ha la forma di un'(altra) apparenza proprio perché è Reale, cioè per via del suo carattere traumatico/eccessivo, siamo incapaci di integrarlo nella nostra realtà". Si tratta del momento lacaniano di "attraversare la fantasia", fase conclusiva in un processo psicanalitico che segna (all'opposto di costituirne il superamento in un'accettazione serena della realtà) il trionfo dell'immaginario, l'estremo rifugiarsi in esso. Ecco il meccanismo per cui Conrad, nel ricordare l'uccisione del "beduino" da parte di Troy, procederà ad una "spettacolarizzazione" dell'episodio (la testa dell'uomo che salta), proprio per ricondurre il ritorno agghiacciante del Reale nella dimensione dell'immaginazione, dell'impossibile. Solo così, al primo impatto, può assorbirne la tragicità senza porsi domande.

La medesima operazione Conrad la esegue di fronte all'esplosione che dilania una mucca: "avete visto la testa com'è saltata? Come in un cartoon". Egli assurge al tipico esempio di persona di scarsa cultura (viene più volte ribadito che non ha portato a termine gli studi) sottoposta a ipertrofia di immagini raccapriccianti, desensibilizzata da un'ossessiva fruizione mediatica e, quindi, mediata (film, tv, cartoon, videogames, ecc.). Se Conrad inizialmente può dunque barricarsi dietro un'indifferenza non tanto cinica, quanto incosciente (nel suo caso, secondo i meccanismi di rimozione descritti da Susan Sontag, probabilmente reazione alla paura di subire in prima persona ciò cui si è assistito), dopo un po' è possibile notare un disagio crescente nel suo rapportarsi alle specifiche situazioni. La Sontag, ritrattando quanto sostenuto in Sulla fotografia, afferma che l'effetto di una rappresentazione di atrocità non dipende dalla quantità di immagini di tal genere proposte dai media, ma in gran parte dallo stesso contesto mediatico in cui essa si trova inscritta. Se è vero che l'attenzione riservata al mezzo televisivo è per definizione "distratta" e fa del "flusso", dell'instabilità e della conseguente necessità a sostituire la sua caratteristica essenziale, non c'è da meravigliarsi nel sorprendersi annoiati di fronte all'ennesima riproposizione di un'immagine, per quanto disturbante possa essere "in sé". In occasione di un contatto ravvicinato, non più inscatolato nello schermo, quindi non più a distanza di sicurezza da noi, non possiamo dire quale sarà il significato della nostra esperienza (sempre che ce ne sia uno), la nostra reazione. Anche Conrad rimane perplesso, avvertendo la differenza. Così l'effet de l'irréel ipotizzato da Zizek (il meccanismo di trasposizione fantasmatica che permette di accogliere un Reale altrimenti insopportabile) si ritrova trafitto dalla percezione del dolore, proprio come Brecht squarciava l'effet du réel del testo, palesandone all'opposto la finzionalità.

È però, ancora una volta, il quesito di Zizek a riproporsi: è corretto parlare di Reale che "buca" la realtà virtualizzata di una guerra non combattuta, o forse sarebbe più opportuno considerare il manifestarsi del dolore e della morte come l'apoteosi dell'immaginario? "Non è successo che la realtà sia entrata nella nostra immagine, ma che l'immagine sia entrata e abbia sconvolto la nostra realtà", afferma lo scrittore sloveno relativamente all'11/09. Non è forse quello che accade ai soldati del film? Subito dopo l'uccisione dell'uomo nel deserto, assistiamo alla presentazione dell'esercito americano: tra feste, alcool, balli forsennati e una condotta svagata, che di sicuro ha poco a che vedere con gli stereotipi dell'epica, il divertimento è totale, in un clima estremamente goliardico e sovraeccitato che potrebbe essere quello di un qualsiasi college. La guerra sembra lontanissima. La si combatte nei gavettoni, nell'arruffarsi giocoso con i commilitoni, e per tutta la prima parte del film essa continuerà ad essere solo evocata: in un rapporto sessuale (letteralmente) "distruttivo", nella competizione giornalistica, nelle discussioni sportive. Gli attrezzi per la guerra servono per foto-ricordo (elmetti, proiettili, armi), per il travestimento (occhiali a infrarossi), per il gioco (fucili reinventati per il tiro al piattello), ma mai per il loro vero scopo. Proprio l'ossessiva esibizione di quegli adorabili gadget, l'aggressività e la conflittualità evocate continuamente nelle pose e nelle lotte scherzose, le richieste di "poter sparare" (unite alle lamentele per non essere mai entrati davvero in azione), rimandano all'immaginario di quei soldati. Il quale, nutrito in patria dai disastri rappresentati al cinema o in tv ed eccitato dal ritrovarsi in un contesto di fruizione del tutto simile a quelli - privato però degli abituali contenuti (truculenti) - non nasconde la delusione per una "guerra senza la guerra", e reclama l'orrore. Così Conrad, annoiato per la mancanza delle atrocità televisive che movimentano la sua quotidiana apatia, smania per inquadrare nel proprio mirino quei nemici (ma quali nemici sta combattendo?) che nel cortile di casa sostituiva con bottiglie e barattoli. Il suo immaginario pre-vede le sequenze di distruzione viste al cinema ed egli non perde occasione per proporre l'uso delle armi ("bazooka, signore?") anche, soprattutto, quando la situazione non lo richiederebbe. È significativo forse che proprio lui, sempre pronto a ricorrere all'attrezzatura a sproposito, non riesca a trovare la maschera anti-gas in un momento di assoluta emergenza. È sicuramente indicativo che sia lui - il più pericolosamente ingenuo nel suo approccio svagato e "guerrafondaio" - l'unico dei quattro protagonisti a morire. Il Reale non ha tardato a dare corpo alle sue fantasie.

Conrad, quando non si rivolge a loro in modo dispregiativo (ad esempio chiamandoli "vermi del deserto", espressione per la quale, lo ammoniscono i superiori in una lezione di terminologia militare che ricorda quella nella redazione di Full Metal Jacket, "beduino" e "cammelliere" sono perfettamente alternativi) chiama tutti gli arabi, indistintamente, "Abdul". Tale nome sembra svolgere una funzione differente rispetto a quella assolta dal "Charlie" con cui si indicavano i vietcong in Apocalypse Now. Se infatti lì si trattava di investire un nemico "immateriale" di un tratto identificativo, qui la classificazione sotto un nome-ombrello di qualcuno con cui si è direttamente a contatto diviene il modo probabilmente inconscio con cui privarlo della sua identità (e, quindi, dignità) e ridurlo al rango generico di "nemico", negandone la complessità di essere umano. Tale comportamento sembrerebbe contraddire quel fondamentale meccanismo che Zizek riprende da Schmitt e Lacan: la necessità di "fornire/costruire un'immagine riconoscibile del nemico", schematizzando "la figura logica del Nemico, dotandola di tratti sensibili concreti che ne fanno l'obiettivo appropriato di odio e di lotta". Il ruolo del nome "Charlie" consisteva evidentemente in questo: i soldati americani si trovavano a fronteggiare un nemico sfuggente e invisibile (come evoca la celebre sequenza del cecchino di Full Metal Jacket), quasi fantasmatico (il capolavoro di Coppola è esplicito nel sostenere come gli americani in Vietnam si trovassero a combattere prima di tutto loro stessi, le proprie ossessioni, il lato oscuro della propria coscienza). Conrad ha invece sotto gli occhi una presenza concreta, ciò di cui ha bisogno per focalizzare il proprio odio. E lo rifiuta, ricorrendo all'anonimizzante "Abdul", per sfuggire a quel senso di colpa che non poteva aggredire chi combatteva nient'altro che spostamenti di foglie e fruscii intuiti nella giungla vietnamita. Ma in fondo perché Conrad ha bisogno di ricorrere a questo stratagemma? La spiegazione risiede nello stesso assioma zizekiano, il quale recita la necessità per un soldato di un'immagine di nemico riconoscibile per poterlo contrastare efficientemente. Conrad non sta combattendo in realtà nessuno in particolare, non ha un obiettivo. Ecco perché può, anzi gli è indispensabile, negare l'identità dell'altro, annacquarla in un generico "Abdul".

Esiste però una seconda interpretazione circa l'indiscriminata attribuzione di tale nome-stereotipo, che condurrebbe ad una radicale messa in discussione di quanto ipotizzato fino a questo punto. Forse l'"Abdul" di Conrad non contraddice affatto Zizek, né si differenzia poi tanto da "Charlie". Quando Lacan parla di capitonnage ("suturazione") si riferisce all'"operazione per mezzo di cui identifichiamo/costruiamo un unico soggetto che di fatto tira le fila oltre la moltitudine degli oppositori concreti". Un unico soggetto dunque, quello che Conrad, trovandosi ad affrontare tanti individui singoli, può raggiungere solo raggruppandoli sotto lo stesso nome, sotto un'identità monodimensionale che ne annulli le specificità, le differenze. I singoli arabi, peraltro, rimarrebbero comunque non conoscibili per lui: è questa la percezione iniziale di Conrad come di tutti i suoi compagni, quella destinata ad essere mutata irreversibilmente dal percorso di maturazione e autocoscienza che essi stanno per intraprendere.

Conrad è personaggio-chiave del film, probabilmente quello più complesso. Prova ne è il suo ricorrere continuo come esemplificazione di una dinamica o di un atteggiamento sintomatico tra quelli proposti da teorici quali Zizek e Sontag. Essi d'altronde avrebbero modo di rintracciare nel film di O'Russell, quindi all'interno di quello che si connota pur sempre come un prodotto d'intrattenimento, diverse altre occasioni di verifica delle loro tesi. Una di quelle più chiaramente enunciate in Three Kings è la stessa inscritta in Apocalypse Now: nell'ordine impartito a Willard di dare la caccia a Kurtz già si manifesta la fondamentale endemicità che caratterizza le guerre combattute dagli Stati Uniti, spesso posti di fronte al proprio doppio mostruoso, a quell'escrescenza cancerogena prodotta dagli eccessi del proprio sistema. Il colonnello Kurtz, come sottolinea giustamente Zizek, non è solo un soldato dell'esercito americano: egli era una macchina da guerra, un esempio perfetto di disciplina ed efficienza bellica. L'ideologia militare portata alle estreme conseguenze, ovvero alla patologia. Non è un caso che Zizek si soffermi nella sua opera ad analizzare "politicamente" Apocalypse Now: egli dedica infatti ampio spazio alla trattazione dell'ipotesi secondo cui, lungi dal costituire l'opposizione sanguinaria al capitalismo americano, il fondamentalismo arabo sia esattamente il contrario, vale a dire l'eccesso di sistema, il parossismo capitalistico.

L'idea che gli Stati Uniti abbiano effettivamente costruito il proprio nemico non è nuova. O'Russell (il cui film risale al 1999) la esponeva già con molta franchezza, disseminandone di prove l'intera narrazione. I soldati iracheni ascoltano musica americana, discutono di Michael Jackson e tra il bottino delle espropriazioni vi è un vero campionario dei beni tipici del "consumismo" occidentale: televisori, telefoni, jeans, computer, frullatori, stereo, orologi Rolex, borse Louis Vuitton, con cui tentano tra l'altro di corrompere i soldati americani (a testimonianza del fatto che siamo di fronte a "oggetti del desiderio" comuni). Essi si nutrono di America. Quando Conrad chiede ai due profughi se per loro l'America sia Satana essi rispondono di no, e che, essendo barbieri, vorrebbero un salone di bellezza. A conferma del fatto che l'epoca delle grandi opposizioni ideologiche ha esaurito la propria spinta ("a loro non importa se il pelo che tagliano è americano, sunnita o sciita") e che di certo quello che gli Stati Uniti combattono non è quello che Huntington definisce uno "scontro tra civiltà", dato che siamo ormai parte di una sola civiltà e gli scontri non possono quindi che essere inscritti all'interno di essa. Quando poi il carceriere arabo di Troy rinfaccia a quest'ultimo di essere stato addestrato in tutto e per tutto dagli americani (ha ricevuto armamenti, imparato la loro lingua e persino i loro metodi di interrogatorio-tortura) tale discorso da economico si fa più ampio, coinvolgendo la sfera politica e sociale. "Qual è la nazione malata?" chiede Troy. Domanda retorica, se alle "rivelazioni" del carceriere (tali solo per Troy, l'unico forse a ignorare che gli Usa rifornirono di armi l'Iraq nella guerra contro l'Iran) fanno da contraltare quelle di Conrad. Egli afferma di essere stato addestrato a uccidere arabi, salvo poi essere smentito da Capo subito pronto a ricordargli che gli Usa hanno anche alleati tra quei Paesi. Una constatazione che, nella propria ovvietà, è rivelatrice di ciò che Zizek non manca di rimarcare esplicitamente: con il crollo delle barricate ideologiche la dottrina Truman e tutti i suoi pretesti pseudo-umanitari non riescono più ad ammantare di eroico altruismo l'esigenza da parte degli Stati Uniti di tutelare i propri interessi economici, il proprio ruolo di potenza egemone. Il percorso etico compiuto dai soldati protagonisti consisterà proprio nell'assumere consapevolezza delle aberrazioni contenute in tale atteggiamento, scegliendo finalmente di sostenere il prossimo non solo contro la propria "necessità", ma contro il proprio interesse. Un rovesciamento di prospettive che però sembra destinato ad esaurirsi negli atti dei singoli individui e che non dà l'impressione di avere la forza di elevarsi a sistema. Da esso sembra infatti immune la politica americana, fondata sull'assioma che chi non ha nulla da offrire non ha neppure diritto a ricevere.

Tale dinamica fondamentale è confermata da quello che risulta essere lo snodo centrale, l'elemento base del meccanismo narrativo del film: la contrattazione, lo scambio. Tutti i rapporti umani sono regolati da una bilancia invisibile che determina l'equivalenza delle "merci" messe sul piatto: i soldati americani promettono cibo e protezione ai nemici in cambio della loro resa, Adriana offre un passaggio al soldato appiedato in cambio di informazioni, i soldati iracheni concedono l'oro ai protagonisti in cambio del loro rimanere estranei alla vicenda della popolazione locale, i soldati americani contrattano per ben due volte coi ribelli (quando promettono di scortarli al confine in cambio dell'aiuto a recuperare Troy e quando acquistano le automobili), ma anche con il proprio stesso esercito (rinunciando all'oro in cambio della salvezza dei profughi). Tutto è permesso, tutto è regolamentato dall'elemento materiale e tutti sono agenti di negoziazione, segno ancora una volta della diffusione ad ogni livello della logica capitalistica. Se i soldati americani distribuiscono viveri dalla jeep è solo per portare a buon fine una nuova contrattazione, perché gli affamati permettano loro di fuggire, di allontanarsi da quella disperata richiesta: il soddisfarla in questo caso coincide col rifiutarla ancora una volta. Essi elargiscono il tanto decantato "aiuto umanitario" senza esercitare il minimo controllo sul destinatario di quei viveri (donne e bambini sono sistematicamente aggrediti e derubati). Immediatamente prima un soldato iracheno aveva centrato con un siluro un camion-cisterna ricolmo di latte destinato alla popolazione affamata: questo episodio richiama indirettamente un altro dei caratteri tipici attribuiti da Zizek ai moderni conflitti, nei quali l'aiuto umanitario non è più distinto dallo scontro bellico. Tale concetto è espresso più chiaramente all'inizio del film, quando assistiamo ad un'operazione di cattura di soldati iracheni. Come già descritto, per convincerli alla resa gli americani, tramite cartoncini illustrativi, offrono loro cibo. L'aiuto umanitario coincide con l'avere la meglio sui nemici e spesso, come in questo caso, con un ricatto che non è quello indirettamente messo in atto dal piano Marshall, ma ben più scoperto.

I protagonisti, dovunque vadano, pretendono di appropriarsi indebitamente di qualsiasi cosa, perché (sbandierando carte e ordini superiori) lo fanno in nome dell'esercito degli Stati Uniti. Nel covo dei ribelli, per ottenere le automobili, Gates fa ricorso alla più smaccata propaganda made in Usa: riconduce la forza del popolo americano alla sua composizione multirazziale (riferimento che contrasta con il video sul pestaggio di L.A. visto dai soldati iracheni e col discorso del carceriere di Troy riguardo al tentativo da parte di Michael Jackson di adeguare la sua natura di nero ad una società, evidentemente non così "integrata" come la dipinge Gates, che lo spinge ad essere "bianco"); ripropone l'obiettivo "ufficiale" della dottrina Truman, intervenire al fianco delle minoranze per tutelare la libertà nel mondo; cita addirittura l'archetipico "I want you", con un George Bush in versione Zio Sam. Ma quella degli Usa paladini della libertà è una favola sempre più ardua da raccontare, e stavolta - dopo le dimostrazioni del successo della propaganda rappresentate dall'entusiasmo della popolazione locale e anche dalla sua delusione, segno comunque di una precedente illusione - i soldati americani si trovano a sbattere contro il fallimento della retorica nazionale. Una manipolazione delle coscienze non rivolta esclusivamente verso l'esterno, ma anche verso l'interno: l'esigenza di convincere le popolazioni straniere della bontà del proprio modello di democrazia si accompagna a quella di persuadere gli americani stessi e, in primo luogo, quelli tra loro cui spetta il compito di esportarlo materialmente, creando le condizioni per il suo attecchimento. I militari sono da sempre i soggetti maggiormente sottoposti alla propaganda statale, proprio per l'assoluta necessità che essi agiscano convinti di essere nel giusto, di compiere una missione quasi "santa", nella più totale assenza di domande, di dubbi etici. Ecco perché quando la giornalista aggregata all'esercito fornisce un assist ad un gruppo di soldati ("Dicono che avete esorcizzato i fantasmi del Vietnam con un chiaro imperativo morale") la loro risposta è immediata: "Abbiamo liberato il Kuwait", rispondono in coro. Nella scena immediatamente successiva, la festa della compagnia raggiunge il suo apice intonando a gran voce una canzone celebrativa e patriottica come "God bless the U.S.A.", mentre le contraddizioni (dopo pochi minuti di film) risaltano già con evidenza: Troy canta a squarciagola con in testa un copricapo arabo, sovrastato da gigantesche bandiere americane. Eppure anche all'interno dell'esercito i "discorsi alla nazione" sembrano non sortire più gli effetti sperati. Gates dichiara al proprio superiore: "Non so neanche che ci facevamo qui". L'altro replica: "E' stato un grande successo. Che volevi fare: occupare l'Iraq e rifare il Vietnam daccapo?", profetizzando ciò che si verificherà in parte con la seconda guerra del Golfo. Più tardi "Tonto", inserendosi nello sfogo della giornalista che si lamenta di essere stata manipolata dall'esercito, esclama: "anch'io!"

Ma se la propaganda tradizionale (quella più squisitamente politica) comincia a mostrare le proprie crepe nell'immaginario mondiale, per raggiungere il proprio obiettivo, non tarda ad appoggiarsi alle altre forme attraverso cui l'America pubblicizza sé stessa. "Li stordiamo con il nostro fascino hollywoodiano" dichiara Archie Gates mentre la jeep con a bordo i quattro soldati americani fa irruzione nel villaggio iracheno. L'arsenale degli Usa, a partire dal secondo dopoguerra, ha inglobato anche quei modelli estetici e culturali imposti a livello globale. È ancora una volta Zizek a definire Hollywood come vero e proprio "apparato ideologico dello stato", strumento imprescindibile per veicolare il corretto messaggio e un'immagine degli Stati Uniti che è essa stessa promessa di benessere e libertà. Le popolazioni in difficoltà ne risultano inevitabilmente ammaliate e smaniano per partecipare di quella realtà meravigliosa. Ma la liberazione consiste per loro in una rinnovata prigionia, la promessa un'annessione incruenta, l'occasione di inglobare altri individui all'interno dello stile di vita americano. Gli iracheni così, da sudditi di Saddam, diventano sudditi della dittatura economica e culturale americana. Il nemico stesso si preferisce corromperlo (al benessere del capitalismo) piuttosto che distruggerlo. La conferma dell'avvenuta neocolonizzazione arriva puntuale: dopo i soldati iracheni sommersi da beni di consumo e cultura pop occidentale (espressione dell'ambiguità ideologica di un potere identico al proprio nemico, da esso prodotto), anche la popolazione locale si è ormai convertita al gusto e ai costumi esportati/imposti dagli Usa. Ascoltiamo musica araba modellata su quella occidentale, una donna irachena indossa l'abito tipico, contaminandolo però con un paio di occhiali da sole e una borsa Louis Vuitton. "Benvenuto America" si grida da ogni parte. Il fenomeno coinvolge anche la dimensione rituale, e il ballo degli iracheni diventa grottesca imitazione dei movimenti caratteristici dei rapper. Conrad, che nel suo agire/reagire istintivo ed ingenuo assurge spesso a vero e proprio veicolo di senso, imita a sua volta il canto tipico delle donne irachene: tutto si mescola, si acquisisce come mero elemento di folklore, perde di identità e significato. O se ne attribuisce di nuovi, in una insperata palingenesi che per compiersi deve rinunciare alla comprensione (culturale) per trovare il suo unico fondamento in una condivisione (materiale e spirituale).

Nell'abbracciare in morte una religione di fatto sconosciuta, senza peraltro rifiutare quella precedentemente "sfruttata" (Conrad muore ancora attorniato dal cristiano "anello di fuoco" di cui si è appropriato), la salma del soldato americano diventa simbolo di un nuovo umanesimo fondato sul superamento delle differenze religiose, cioè delle barriere ideologiche: la distribuzione dell'oro fra i ribelli ricorda il momento dell'eucaristia, e Capo indossa una kefia, di certo indumento non convenzionale per un militare dell'esercito americano (e la sua scelta stavolta non può essere casuale o parodica come quella di Troy durante la festa al campo). Ulteriore conferma trova così l'assunto di Slavoj Zizek relativo alla fine dello "scontro fra civiltà": se per Marx l'elemento economico costituisce la "struttura" su cui si innestano le varie "sovrastrutture" (rapporti sociali, assetti politici, schemi religiosi e culturali), un unico contesto economico comporta necessariamente una commistione ad ogni livello, una sola confusa civiltà. In questa Babele che è tornata a ricordare il nome dell'uomo, riunificata e nondimeno caotica, non sorprende di riconoscere nel cammino dei ribelli verso l'Iran quello degli ebrei verso la Palestina. I tre protagonisti (a questo punto difficile definirli ancora soldati americani) assumono le sembianze di un Mosè inatteso, nel guidare una nuova folla di homines sacri (vale a dire uomini privati dei fondamentali diritti politici quali, naturalmente, erano anche gli ebrei ridotti in schiavitù) attraverso il deserto, inseguiti dal proprio esercito proprio come Mosè lo era da quello egiziano. Così forse non è un caso che proprio Mosè venga citato erroneamente da Conrad all'inizio del film. La similitudine tra i protagonisti di due fughe verso una Terra Promessa, in effetti, si rivela più profonda di quel che potrebbe apparire ad una prima analisi. I ribelli iracheni pregano e parlano di un tempio per andare in paradiso: Zizek commenterebbe che proprio come gli ebrei essi tentano di elevarsi al rango di vittime sacrificali, coltivando la mera illusione di essere altro che homines sacri il cui sacrificio, per definizione, è del tutto inutile.

Per quanto riguarda i "Mosè" che si sono scelti, anch'essi in fondo rinunciano alla propria posizione e ai propri privilegi: la loro scelta etica si compie in due atti. Dapprima nel momento in cui, messi di fronte alla brutalità di un assassinio, diventano consapevoli (tutti tranne Troy, per ora) che il "principio di necessità" è cambiato: nasce da qui il bisogno di infrangere l'armistizio con le truppe irachene e l'indifferenza verso il destino della popolazione. Il cambiamento non è però ancora completo, dato che essi non intendono rinunciare all'oro, decisione estrema a cui si risolveranno solo quando sarà rimasta davvero l'ultima carta in loro possesso per salvare vite umane. Proprio Gates, uomo disilluso e cinico al quale spetta di enunciare il famigerato "principio di necessità", è il primo ad intraprendere istintivamente tale cammino di crescita morale. E sarà sempre per sua voce che esso troverà il suo pieno compimento, con l'offerta ai propri superiori dello scambio oro-prigionieri. Messo improvvisamente nelle condizioni di guardare in faccia il dolore degli altri, egli si fa portatore di quella risposta etica che la Sontag auspica: si interroga, prende coscienza, agisce (reagisce). Se la scrittrice americana individua tra le possibili cause del voltare lo sguardo o del cambiare canale, la paura, l'impotenza e la compassione (di fatto tre meccanismi di rimozione diversi attivati con il comune scopo di salvaguardare l'armonia quotidiana dall'aggressione di immagini del dolore altrui), risulta evidente come non ci sia paura in lui, né certo impotenza, o sterile commiserazione. Gates dunque non può restare indifferente.

Ed è forse significativo che di fronte alla fine di una famiglia (con l'uccisione di una donna identificata come madre e moglie) la reazione arrivi da chi, come Gates, è divorziato e non da colui che dei quattro soldati dovrebbe avvertire ancora più degli altri l'insopportabilità di ciò che sta accadendo. Troy è padre e marito, è in guerra per guadagnare i soldi necessari alla sua famiglia e proprio nella sequenza d'apertura abbiamo notato appuntata sull'elmetto che ha in testa la foto di una neonata (probabilmente la figlioletta Crystal): tale elemento, peraltro, non può non rappresentare la citazione di un altro elmetto, quello su cui Joker di Full Metal Jacket aveva accostato un simbolo pacifista alla scritta "born to kill" (cortocircuito confermato dall'uccisione da parte di Troy di un nemico proprio in quella sequenza iniziale). Dunque Troy dovrebbe "sentire" più intensamente la situazione, proprio in virtù di una maggiore possibilità di immedesimazione. Eppure non solo ciò non avviene, ma al contrario egli è l'unico a non aver ancora modificato la propria "necessità" (tanto che rinuncerebbe volentieri ad intervenire per non mettere a repentaglio il proprio bottino).

La dimensione familiare di Troy viene ancora evocata in una scena centrale del film, quella che propone l'interrogatorio-dialogo tra il soldato americano ed il suo carceriere iracheno. Presto il sogno di un'intima identità e di una conseguente "collaborazione nella differenza" lascia il posto alla constatazione di disparità tremende, insuperabili, irreversibili: "io non sono più padre, non ricordi?" ribatte l'arabo. Elementi di estremo interesse nell'ambito di tale scena sono quelli legati al tema della tortura, che rimandano tanto alla riflessione di Zizek quanto a quella della Sontag. I carcerieri che infliggono dolore al prigioniero americano distolgono lo sguardo. Per paura, direbbero entrambi gli autori, perché è quello che potrebbe capitare anche a loro nel caso commettessero uno sbaglio, in un contesto dove la tortura è elevata a sistema. Più avanti risulterà infatti evidente come il regime di terrore imposto da Saddam non risparmi certo i suoi servitori, come dimostra la paura che s'impadronisce dei soldati non appena credono di intravedere l'arrivo del crudele dittatore. Tuttavia un punto del ragionamento dello scrittore sloveno sembra venire contraddetto: l'impossibilità di guardare le conseguenze della propria barbarie potrebbe forse rappresentare una specie di rimorso, di un qualche senso di colpa residuo che invece, secondo Zizek, potrebbe sopravvivere solo nel caso in cui la tortura restasse un'eccezione, una pratica straordinaria. Questa autonegazione dello sguardo contrasta, allo stesso modo, con l'idea odierna dei terroristi arabi, uomini giunti ad avere un elevato grado di familiarità con l'orrore e tanto capaci di guardarlo da filmarlo ossessivamente (come documenta il proliferare di immagini quasi da snuff-movie che ritraggono ostaggi ed esecuzioni). Per lo stesso motivo questo schermarsi gli occhi distingue in maniera profonda gli iracheni di Three Kings dai vietcong di Apocalypse Now: per Kurtz questi ultimi potevano avere la meglio sulla superiorità militare americana proprio perché in grado di guardare dritto in faccia l'orrore umano.

"Three kings". I soldati al centro del film sono in effetti quattro, anche se per (quasi) tutta la durata della narrazione si ritrovano assieme solo in tre: prima è Troy ad essere catturato, poi Conrad a morire. Così il titolo della pellicola, la quale pure si riallaccia a quella tradizione letteraria tipicamente occidentale del "quarto nascosto" che prevede una sorta di "3+1" (basti pensare ai "tre" moschettieri cui si aggiunge D'Artagnan), può riferire di "tre re" che altri non sono, naturalmente, che i Re Magi. A differenza di questi i quattro soldati americani vengono dall'Occidente (e non dall'Oriente) e si dedicano a rubare piuttosto che portare con sé beni preziosi da donare. Alla fine del loro percorso, tuttavia, è chiara l'analogia intessuta dal titolo: essi, barattando il proprio oro, hanno fatto dono della libertà a uomini che, finalmente sottratti al giogo della dittatura, possono rinascere altrove. Per apprezzare appieno il carattere del tutto anti-retorico di tale conclusione, esso va confrontato con il senso che un epilogo diegeticamente simile assume in L'ultima alba (A. Fuqua, 2003): anche lì i militari americani (impegnati in Africa) scortano un gruppo di profughi fino al confine e alla salvezza. Ma in quello che è un vero e proprio film di propaganda è l'esercito degli Stati Uniti ad elargire la libertà ai popoli oppressi, configurandosi così davvero come "fine della storia", mirabile tappa conclusiva del suo sviluppo (secondo la concezione pseudo-hegeliana di Fukuyama). In Three Kings, invece, l'esercito americano fa tutto il contrario, opponendosi all'affrancamento degli iracheni (in virtù di un accordo concluso con colui che li affama e li schiaccia) e rendendolo alla fine possibile solo in quanto strumento per recuperare l'oro trafugato. Sono semplici uomini, e non l'America, a portare la salvezza: essi ormai non sono più soldati americani, né intimamente (hanno deciso di infrangere le direttive, la loro presa di coscienza li ha spinti ad allontanarsi dalle posizioni "ufficiali"), né formalmente (dato che sono considerati disertori, e li aspetta la corte marziale) e neppure esteriormente: Capo ha in testa una kefia, Troy non è più neanche vestito da soldato (indossa infatti una giacca), Conrad è completamente avvolto da bende nel suo cammino verso un paradiso islamico.

Le didascalie che rendono noto il destino dei protagonisti superstiti al ritorno in patria ci informano, tra l'altro, che Archie Gates, una volta congedato, ha trovato lavoro a Hollywood come consulente militare. Il cinema impara dunque dalla realtà, sono ancora gli studios a richiedere il supporto del Pentagono. Siamo in anticipo rispetto all'attacco al WTC che, tra le altre conseguenze, ha portato alla costituzione (su mandato dello stesso Pentagono) di "un gruppo di sceneggiatori e registi di Hollywood specialisti di film catastrofici, con l'intento di immaginare possibili scenari di attacchi terroristici e i modi con cui controbatterli". Siamo ontologicamente lontani dallo "spettacolo" allestito quell'11 Settembre 2001, quando sarà definitivamente chiaro (come nota Zizek) come sia ormai la realtà ad ispirarsi al cinema, dando matericità alle sue fantasie di ombra e luce.

Bibliografia essenziale:
Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, 2002
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano, 2003

 


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