Solo l'amore non ha fine: Silent Souls PDF 
Elisa Mandelli   

Gli zigoli (da cui il titolo originale del film, Ovsyanki) sono uccellini comuni, della famiglia dei passeri. Aist, scrittore impiegato in una cartiera, ne acquista due al mercato, attratto da una sorta di magnetismo. Dal nome di questi uccelli deriva anche il vezzeggiativo con cui il suo amico e datore di lavoro Miron chiamava la giovane moglie Tanja, da poco venuta a mancare. Ed è proprio per celebrare il rito funebre dalla donna secondo le antiche tradizioni degli avi, i Merja, antico popolo ugro-finnico, che Miron e Aist partono alla volta del Lago Nero, dove il corpo sarà cremato e restituito alle acque nello stesso luogo in cui gli sposi hanno trascorso la luna di miele. L’acqua è infatti per i Merja elemento sacro, insieme punto d’arrivo del percorso di vita terreno e momento in cui esso intreccia, perdendosi in essa, l’eternità (non a caso i fiumi sono i depositari della memoria, conservando nei loro nomi uno degli ultimi retaggi dei Merja). Lungo il tragitto, mentre i quadri rivelano paesaggi di una malinconia composta e quasi orgogliosa, il silenzio è interrotto solo dal cosiddetto fumo, il chiacchiericcio con cui, come vuole la tradizione, il vedovo dischiude all’amico i particolari più intimi della propria vita coniugale, secondo una forma rituale che vuole essere insieme elaborazione del lutto e omaggio all’amata. 

Tra queste coordinate, il topos del viaggio si declina in una forma che risulta tanto più incisiva nella sua essenzialità: pochi gli incontri, rare le tappe, sempre più netta la consapevolezza della mèta ultima di un itinerario cui fin dall’inizio è preclusa l’illusione del ritorno, e che assume ben presto i tratti di un cammino non solo con, ma verso - se non già dentro - la morte. Ad accompagnare lo spettatore è la voce narrante (a tratti un po’ invadente) di Aist, che riannoda, in una sorta di diario postumo, i fili di un’identità insieme personale e sociale, etnica e spirituale. È il suo commento a rendere palese come, in un tragitto che apparentemente si chiude su se stesso, a subire un’evoluzione sia proprio il modo in cui i personaggi si relazionano con il senso della scomparsa: di una donna, di un nucleo di tradizioni, di un intero popolo. Mentre la forza di attrazione dell’acqua, e il desiderio di annullarsi in essa, si fanno sempre più intensi, ciò che cambia lungo il percorso è il segno di una tristezza che da cupa angoscia assume i tratti di una serena rassegnazione, in cui l’oblio è solo l’altra faccia di una memoria imperitura.

Fedorchenko intesse un racconto in cui gli opposti si rincorrono e si fondono, si attraggono e si sostanziano a vicenda. Le pratiche che scandiscono i ritmi della vita - o piuttosto dell’amore - e della morte si trovano a convergere (la preparazione del cadavere ricalca quella di una sposa); i segreti resi pubblici non sono che una nuova declinazione dell’intimità; il senso della fine è lo stato d’animo in cui si fa più lucida la coscienza dell’inizio (l’infanzia che riemerge alla coscienza nei sempre più frequenti flashback, le radici di un popolo che si fanno sempre più percepibili per quanto fatalmente evanescenti). Più che al dispiegarsi di una serie di coppie oppositive, dunque, assistiamo al progressivo convergere degli estremi, infine fusi in una celebrazione della potenza eternante dell’amore: “solo l'amore non ha fine”, chiosa il protagonista al termine del suo racconto. 

Sembra obbedire a questa legge della reciprocità anche ciò che pertiene la dialettica tra verità e finzione. Se Silent Souls potrebbe sembrare, in prima battuta, un paziente scavo etnografico, che riporta a galla un mondo sepolto nei meandri della memoria ma ancora, debolmente, pulsante, a dire il vero ben poco resta oggi delle antiche tradizioni dei Merja, che Fedorchenko disegna a partire dalla fantasia più che da tracce ancor vive. È per il tramite della fiaba, di una fiction di cui poco importa il coefficiente di realismo, che Silent Souls vuol dirci qualcosa sulle profondità (quelle si, decisamente autentiche) dell’animo umano. Mentre, in modo sistematico, l’invenzione poetica si ammanta di realtà fin quasi a (con)fondersi con essa. Nei credits del film si legge che la sceneggiatura dello scrittore russo Denis Osokin è tratta dal romanzo di Aist Sergeyev, The Buntings: se il titolo del film riprende quello del testo letterario, Aist è il nome del protagonista e voce narrante del film, che sappiamo aver raccolto l’eredità del padre poeta, dedicandosi alla scrittura. Ma Aist Sergeev è anche lo pseudonimo con cui Denis Osoki ha pubblicato la novella Ovsyanki sulla rivista Oktjabr', nel 2008. In questa complessa articolazione di livelli (il letterario e il filmico, il reale e l’immaginario), la mise en abyme del processo di scrittura non procede semplicemente dall’identità dello scrittore alla creazione del suo alter-ego narrativo, ma sembra piuttosto articolare una struttura in cui realtà e finzione si costruiscono l’una sull’altra, sostenendosi reciprocamente. E, in modo per alcuni versi simile all’opera d’esordio di Fedorchenko, il mockumentary del 2005 First on the Moon (un falso documentario su un presunto allunaggio russo nel 1938), la posta in gioco non è l’individuazione del confine tra le due, quanto piuttosto ciò che la loro commistione può rivelare di autentico.   

Su queste basi si dispiega una meditazione che investe il tempo e la memoria, l’ineludibile necessità del destino, l’amore e ciò che se ne fa per eccellenza portatore, il corpo femminile. Eppure, nonostante la limpida sincerità dell’omaggio che i protagonisti intessono alla femminilità, rimangono disturbanti i contorni che tale ideale femminile finisce per assumere. Se la donna è probabilmente la più vicina alla fusione con la natura e, con l’acqua, l’unica a poter lenire una malinconia tenace e quasi atavica, ciò non la riscatta da una passività senza appello, dal ruolo di oggetto compiacente dell’affetto e del piacere maschili, sulla cui reciprocità, è ben presto evidente, non ha senso interrogarsi. E se queste tensioni si collocano alle radici stesse di un universo di valori, è proprio con esso che le sentiamo man mano dissolversi. La sensazione è quella di guardare un mondo sotto vetro, sideralmente lontano nel tempo e nello spazio, già scomparso eppure impegnato a scomparire di nuovo di fronte ai nostri occhi, sotto quel cielo perennemente, magnificamente greve fotografato da Mikhail Krichman.

 
 


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