Kate sta morendo. Da quindici anni, sta morendo. Sara sta lottando per la sopravvivenza della figlia. Contro tutti, contro tutto. Avulsa dalle “regole” della società, dell’etica, della morale. Da undici anni, sta lottando. Anna è la chiave per la sopravvivenza di Kate. Anna, da undici anni è “il mezzo” per la sopravvivenza. Concepita in provetta perché si potesse disporre di un donatore completamente compatibile, Anna è la soluzione. Ma Anna non è solo un insieme di cellule con la giusta combinazione, è un essere umano che cresce e pensa e ama e infine si oppone. Ed ecco che il sistema, la soluzione trovata da Sara, assolutamente non perfetta ma oscenamente accettabile in quelle logiche illogiche e cieche che si sviluppano laddove è in gioco la sopravvivenza, si infrange. Anna improvvisamente dice no e trascina in tribunale la madre chiedendo l’emancipazione della sua persona, il diritto di disporre del suo corpo, della sua vita, del suo futuro. Ma perché? Sara accusa, urla, dispone e decide. Anna dice: no. Kate sta morendo. Anna lo sa. E dice: no. La chiave di volta è nell’articolato rapporto che intercorre tra questi tre personaggi. Nelle dinamiche di un rapporto che coinvolge tre elementi ma che si sviluppa nell’incontro/scontro a due. All’inizio Anna e Sara. Scontro, lotta, urla, accuse e dolore. Poi Sara e Kate. Dolore, sacrificio, cieca caparbietà. Infine Kate e Anna. Amore. Quello di Anna è davvero un gesto di egoismo? Anna è davvero una bambina superficiale, come l’accusa di essere Sara, che per non rinunciare ad un ipotetico futuro da cheerleader rifiuta di salvare la sorella, o è piuttosto l’unica che abbia mantenuto, e forse, data la sua condizione, sviluppato il senso della realtà e del rispetto nei confronti di chi giorno per giorno si deve sottoporre a cure crudeli e dolorose per una sopravvivenza che volge sempre più all’inumano?
La custode di mia sorella è un bellissimo libro di Jodi Picoult che affronta in modo terribilmente realistico l’argomento della malattia e che descrive in modo disarmante le complesse dinamiche che si sviluppano in tali drammatiche contingenze. La custode di mia sorella è, però, anche l’ultimo film di Nick Cassavetes. E Cassavetes tradisce e un po’ indispone. Sì, perché trasforma una materia così forte e disarmante in un grande film strappalacrime che troppo spesso scivola nel forzatamente drammatico, virando al luogo comune. Nulla togliendo ai meriti del cast, tra cui spicca una nuova e sbalorditiva Cameron Diaz in versione quarantenne madre di famiglia, e si conferma lo straordinario talento della giovane Abigail Breslin, La custode di mia sorella pecca tremendamente nel montaggio (privo di ritmo, incostante, a volte frammentario) e soprattutto nella scelta, che si manifesta come non scelta, di voler affrontare troppi temi contemporaneamente. La malattia, la manipolazione genetica, l’amore tra malati, il conflitto in famiglia, la dislessia, l’epilessia, l’eutanasia, sono tutti temi presenti all’interno della pellicola, ma tutti, per l’appunto, appena sfiorati, affrontati in modo epidermico. Anche la malattia devastante di Kate, che pure è il motore scatenante, è descritta in modo abbastanza didascalico, mostrata nei suoi aspetti più crudi e crudeli, sì, ma forse con un pathos un po’ troppo da operetta. E l’impressione è amplificata dall’ampio e spesso ridondante uso di flash-back e della voce narrante, due mezzi narrativi che qui vengono spesso utilizzati contemporaneamente creando un fastidioso effetto di smarrimento.
Si alternano, per tutta la durata della pellicola, due tempi narrativi (passato e presente) che procedono paralleli fino a convergere nel drammatico epilogo. Il passato felice, che è quello che ci aspetteremo di veder descritto per una famiglia americana tipo (madre biondissima in carriera, padre affettuoso e presente, figlio bellissimo e brillante, deliziosa e biondissima figlia di tre anni), è commentato dalla voce atona di Anna, peraltro tragicamente assente nei momenti di pura felicità della famiglia, perché, si ricordi, è stata orribilmente concepita come backup della sorella. Nel presente, invece, la voce narrante cambia, ed è quella di Kate. Una voce che non descrive o commenta, ma semplicemente parla ai fantasmi di quella che fu una famiglia felice, scusandosi con tutti i membri per averne provocato l’infelicità. Ma è proprio l’alternarsi delle due voci narranti, che vorrebbe essere esplicativo del dramma di Anna prima e di Kate poi, che vorrebbe spiegare il rapporto tra le due e le dinamiche della famiglia, a banalizzare la vicenda e a creare confusione. Laddove, infatti, si fosse scelto il punto di vista di Anna la scelta sarebbe risultata più forte, essendo Anna in certo qual modo l’estranea, la soluzione concepita per risolvere il problema della famiglia. La scelta di far narrare a lei la vicenda avrebbe acquistato un sapore drammatico e sofisticato all’interno dell’economia della pellicola, conferendole un taglio senza dubbi più originale. Si sarebbe così configurato un racconto che sfumava nella condanna del gesto sconsiderato di una madre che sfidando la natura condanna entrambe le figlie ad una vita non vita, relegandole in una realtà metafisica e costringendole ad un rapporto di dipendenza fisica l’una dall’altra, quasi a trasformarle in gemelle siamesi unite dalla malattia. Chiave peraltro offerta dal libro di Picoult, nel quale la protagonista, chiamandosi Andromeda, offre un puntuale riferimento al mito greco secondo cui la figlia di Cefeo e Cassiopea sarebbe stata sacrificata per un atto di vanità della madre, e fornendo così una chiave di lettura non solo concentrata sulla malattia in sé, ma sul limite sottile tra cura del malato, accanimento terapeutico e manipolazione genetica.
Tuttavia, anche scegliere come voce narrante quella di Kate avrebbe conferito più carattere alla pellicola, forse meno originale o sofisticato, forse più intimistico, ma decisamente più definito e concluso. Ed è infatti proprio questo il difetto sostanziale della pellicola di Cassavetes: l’incapacità di scegliere. Di circoscrivere un tema e affrontarlo in modo diretto e schietto, senza indugiare in luoghi comuni, senza lasciarsi sviare dalle sottotrame. Puntare un obiettivo e raggiungerlo. E forse difetta per esperienza personale, essendo Cassavetes padre di due giovani affette da grave malattia. Ed è sicuramente comprensibile che si possa ravvisare, nell’affrontare un tema quasi autobiografico, una certa mancanza di obiettività, una certa sudditanza emotiva nei confronti di una trama che non si riesce a guidare perché ti possiede. Comprensibile, sì, ma l’effetto strappalacrima offerto da un’adolescente derubata della sua freschezza che baciando un coetaneo, anch’egli malato, timidamente gli confessa che sa di medicinale, e il susseguirsi di scene dal devastante impatto emotivo (come quando Sara si rasa la testa per non far sentire a disagio la povera Kate, che piange disperata perché non si vede bella, o quando la piccola Anna porge alla sorella il secchio per vomitare o le pulisce le piaghe), basterà sicuramente a commuovere il pubblico, a farlo lacrimare, ma purtroppo non è sufficiente a muoverlo. Perché usciti dalla sala si rimarrà tristi forse per il tempo di raggiungere la pizzeria, e poi nulla rimarrà. E così non dovrebbe.
TITOLO ORIGINALE: My Sister’s Keeper; REGIA: Nick Cassavetes; SCENEGGIATURA: Jeremy Leven, Nick Cassavetes; FOTOGRAFIA: Caleb Deschanel; MONTAGGIO: Jim Flynn, Alan Heim; MUSICA: Aaron Zigman; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 109 min.
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