Un’anziana donna che si arrampica a fatica su di un blindato polveroso, due ragazzini affamati che imbracciano i kalashnikov, un nipote sminatore con i piedi martoriati dalle lunghe marce e un nemico che ha il volto di una vecchietta severa ma cortese, il tutto immerso in un tempo che è quello del sogno e della veglia insieme, il tempo indefinibile di un luogo imprecisato, in cui un crepuscolo dai contrasti netti e forti appare insolitamente luminoso. L’aria è calma e l’atmosfera piatta, quasi si trattasse di un universo fatalista e senza speranza, suo malgrado gravido di una umanità rabbiosa che si svela attraverso i piccoli gesti di figure che ondeggiano sullo schermo. Siamo in guerra, questo è ovvio, ma in quale guerra e da quanto? Come ci siamo finiti dentro e perché non riusciamo più a venirne fuori? E da che parte stiamo? Con i buoni o con i cattivi? Con quelli più forti o con i deboli? Qui la guerra sembra essere ben poca cosa: l’ombra di un elicottero dal cielo, qualche camionetta che esce e poi rientra nel campo, dei soldati in coda per mangiare… Ma no ecco! Ecco un palazzo semidistrutto, con i vetri rotti e le pareti pericolanti, ecco… basta. Niente altro. È dall’inizio che siamo come suggestionati dai movimenti dell’anziana donna, dal disagio che sembra emanare il suo corpo appesantito. Anche i soldati se ne rendono conto, tanto che come possono l’aiutano a sedersi e poi ad alzarsi, la sorreggono nelle sue passeggiate e si sforzano di dar retta ai suoi discorsi, a quelle parole pronunciate con durezza, con affetto e con orgoglio. Le parole di una madre certo, una madre che ama i suoi figli ma che nel contempo li biasima, perché così ostinati nell’odiarsi l’un l’altro. La polvere sembra essere ovunque, tanto che ne abbiamo pieni gli occhi e fatichiamo a distinguere quel che vorremmo vedere. Polvere sui vestiti, nelle scarpe e tra i capelli, polvere sulla branda, polvere tra le coperte e polvere sul cuscino. Polvere e basta, che graffia l’occhio della cinepresa fissandosi luminosa sul vetro come quando fuori nevica. Come rapiti, fantastichiamo sui fiocchi che per una attimo stazionano alla finestra, si squagliano e poi scompaiono cedendo ad altri la scena. D’un tratto il nostro tempo è finito, d’un tratto ci sentiamo vecchi e stanchi, come piegati dal peso degli anni e dalla noia della vecchiaia. Mentre le comparse armate si fanno ombre in campo lungo, l’anziana donna ha un ultimo sussulto e stringe il figlio al seno, facendosi icona e immagine d’una pietà mistica e religiosa. Nel silenzio, la donna si avvia sulla strada di casa mentre il figlio parte per il fronte, luogo lontano e misterioso che non ci è dato di vedere, forse perché non esistono parole per descriverne il quotidiano di inutilità, sofferenza e morte. TITOLO ORIGINALE: Aleksandra; REGIA: Aleksandr Sokurov; SCENEGGIATURA: Aleksandr Sokurov; FOTOGRAFIA: Aleksandr Burov; MONTAGGIO: Sergei Ivanov; MUSICA: Andrei Sigle; PRODUZIONE: Russia/Francia; ANNO: 2007; DURATA: 90 min.
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