Affinità elettive, le chiamava Goethe.
Capita, talvolta, di trovarsi di fronte ad uno sconosciuto che, come per incanto, con un sorriso, con un gesto gentile, riesce a squarciare il diaframma di indifferenza e insofferenza che talora si frappone tra noi stessi e gli altri.
E capita di trovarsi stranieri in paesi stranieri e strani; straniati in una realtà che non si riesce a penetrare e che rimane in superficie, come limpida e colorata immagine riflessa nell'acqua di un equilibrato giardino zen.
Inafferrabile nella sua perfezione.
Come un amore che nasce: pudico, fragile.
Come un'amicizia che si stringe: divertente, sincera.
Come un'amicizia che lentamente si trasforma in amore, per fermarsi lì, sulla soglia del "potrebbe", sul limitare di un bacio dato "in punta di labbra", su parole leggere, sussurrate all'orecchio nel momento dell'addio. Su parole intime, private, impossibili da capire per gli altri e per questo mute.
E capita di scoprire che l'uomo che ami e che hai sposato si è trasformato in un estraneo, che corre, che indossa impenetrabili occhiali da sole, che non trova il tempo di accorgersi che soffri d'insonnia, che soffri di malinconia. Che soffri.
E capita di sentire che la vita ti sfugge. Che quella stessa vita che un tempo dominavi, che ti ha dato fama, soldi, amici e felicità è diventata grigia, vuota. Intrappolata nella ripetitività di uno spot pubblicitario, chiusa nella frustrazione di dover obbedire ad un mediocre regista che sforna in serie prodotti stereotipati e che ti chiede di "somigliare a ", di "recitare come".
Triste epilogo di una carriera mai veramente luminosa. Fuga da una realtà fatta di una moglie che insistentemente ti chiede di che colore preferiresti la moquette dello studio, e che ti chiama solo perché tu possa rimproverare i tuoi figli.
E in tutta questa indifferenza, nonostante tutta questa indifferenza, nascono affinità elettive.
Anime che si incontrano, si riconoscono, si cercano, si trovano e infine, inevitabilmente, si lasciano. Perché i sogni svaniscono all'alba. Perché la vita urge e chiama e pretende. Perché l'insonnia si sconfigge e l'inusuale, col tempo, diventa familiare.
Con infinita delicatezza, col tocco leggero di un angelo, Sophia Coppola è riuscita a raccontare la sensazione di smarrimento, di disagio, di curiosità che si prova durante il soggiorno in terre tanto lontane dalla propria. È riuscita a sussurrare la dolce emozione del batticuore, è riuscita a trasmettere lo stupore, l'inebriante euforia della scoperta che si può amare e che si può essere amati, nonostante tutto. Anche oltre i cinquant'anni. Anche aldilà delle frustrazioni di una vita che non vuole piegarsi alla tua volontà, di una scelta che non vuole rivelarsi felice.
Ambientato in un'algida ed iper-tecnologica Tokio, girato quasi interamente in interni (laddove anche le strade, claustrofobiche per l'inverosimile numero di passanti, sembrano richiudersi sui corpi degli attori), Lost in Translation è un film delicato, malinconico e ironico come il viso di uno smarrito Bill Murray appena svegliatosi in una città a lui estranea, ma che sembra adorarlo.
È una pellicola dal sapore agrodolce, giocata sulla pallida e impietosa illuminazione delle luci dei neon che evidenziano i segni della vecchiaia e della stanchezza sul viso di Murray e le imperfezioni dell'adolescenziale corpo di una ugualmente bellissima Scarlett Johannsson.
È un film che non nasconde, che non risparmia, che non maschera la realtà ma la presenta, viva e vera, nei suoi personaggi. Una malinconica e pallida Charlotte, giovane moglie trascurata dal marito fotografo lanciato in carriera. Troppo preso dai suoi mille impegni, affascinato dal mondo dello showbiz, ammaliato dalla fresca stoltezza di un'attricetta certo non colta e intelligente come la moglie, ma sicuramente più facile da gestire. E un disilluso e confuso Bob, attore sul viale del tramonto, imprigionato in personaggi di duro, infelice della carriera, infelice nella vita. E Sophia Coppola non risparmia nulla ai suoi personaggi.
Non il vizio del fumo, non la familiarità con gli alcolici, non le magliette buffe che trasudano "crisi di mezza età", non le dita dei piedi peste, non i primi accenni di cellulite sulle gambe sempre nude, da bambina, di Charlotte.
E proprio per questo il film si insedia nelle coscienze degli spettatori, che lo riconoscono non come finzione cinematografica, ma come realtà quotidiana.
E lo schermo diventa così una finestra dalla quale spiare la realtà che si muove dentro (o fuori), come sovente fa Charlotte, dalla finestra della sua splendida e, realisticamente, disordinata camera d'albergo.
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