Il Caimano: la deriva dell'Italia e una preghiera per il cinema PDF 
di Alessio Gradogna   

Una volta, non molti anni fa, c'era un film in cui Nanni Moretti sbraitava, a modo suo, contro tutto e contro tutti. La desueta e ormai inefficace ideologia comunista, il linguaggio spropositato di tanti pseudogiornalisti incapaci di fare il loro mestiere, l'informazione deviata e deviante, la dittatura delle parole capace di soffocare la sincerità delle emozioni. Il film era Palombella rossa, forse il più completo esempio dell'ideologia autoriale morettiana. Oggi c'è un nuovo film, in cui Nanni sbraita contro le ingiustizie della società e della politica italiota, e si chiama Il Caimano. Ma questa volta l'urlo è divenuto muto, la rabbia si è trasformata in silenzio, non c'è più la forza di lottare e di crederci ancora. Resta la rassegnazione di un mondo sbagliato in cui le malefatte striscianti dominano contro l'inefficace giustizia, e l'omertà privata e pubblica nei confronti di chi ha commesso azioni profondamente lesive per la società, azioni di cui tutti sono a conoscenza: su di lui infatti "tutti sanno tutto", ma tanto è lo stesso, perchè il feroce e furbo Caimano ne uscirà sempre e comunque vincitore, in un modo o nell'altro.

Il percorso filmico di Moretti e del suo alter-ego Michele Apicella ha da sempre vissuto sulle ali di quella che chi scrive ha definito in altra occasione inettitudine alla vita, in cui personaggi sveviani, macchiette sardoniche e gente comune di commovente semplicità si muovono goliardicamente in un mondo malsano e crudele. Nelle proprie insicurezze e indecisioni, trascinati da un presente confuso e da un futuro nebuloso, i membri del bestiario morettiano scavano nei meandri della propria coscienza per estrarre un afflato di speranza, una regola di vita, un cammino velato di luce. A volte senza riuscirci, finendo risucchiati nella mostruosità comportamentale (l'omicida di Bianca) o fisica (il licantropo di Sogni d'oro), a volte invece sì, pur rimanendo appesi a un filo (la camminata sulla spiaggia nell'ultima sequenza de La stanza del figlio). Oggi, nel terzo millennio, nell'epoca delle guerre ingiuste e del terrorismo, della corruzione e dell'ignoranza massmediologica, pare quasi che il regista di Brunico abbia rinunciato alla battaglia per l'equità, alla sistematica rottura dell'equilibrio sintattico tra gesto e parola quale simbolo di un respiro reazionario resistente a ogni mutazione politica, alla fiducia nella fondamentale bontà della razza umana. Oggi la realtà è fosca, incoerente, sfatta, e l'inettitudine di Michele Apicella è divenuta universale, cosmica, beffardamente capace di racchiudere in un unico abbraccio l'intera realtà italica. Un paese "diviso a metà tra orrore e folclore" agli occhi di chi ci vede dal di fuori, in cui un brillante imprenditore, grazie a un immenso patrimonio dalle dubbie origini, è in grado con tre canali televisivi di cambiare i costumi di un popolo e vent'anni di vita politica di una nazione, un paese dove affondare in una nausea di sartriana memoria, che lascia ben poco spazio a un'idea concreta di futuro.

Il Caimano non è solo Berlusconi. È l'Italia intera, negli occhi disperati di Silvio Orlando (splendida la sua interpretazione, altrettanto il suo personaggio), nel disfacimento del suo impolverato teatro di posa, in una corsa pazza per la strada (nella scena più bella ed emozionante del film) dopo aver visto la moglie da cui si è separato in compagnia di uno sconosciuto, nel distruggere un maglione azzurro per vendetta nei confronti più di se stesso che di chi lo ha abbandonato, nella voglia di girare un solo ciak affinché il cinema, e la magia che con esso colora il cielo, possano ridare un senso a una vita fagocitata da un Grande Inquisitore che tutto controlla. Ed è proprio il cinema, di cui Il Caimano è magnifica dichiarazione d'amore, a gettare una zattera verso cui traghettare il nostro avvenire: una volta c'era Il Dottor Divago (in Palombella rossa), in un piccolo televisore di un bar, e ciò bastava a Moretti per ballare e cantare, rendendosi sordo alle barbarie dei tempi. Oggi c'è la voglia di raccontare, di spiegare, di mostrare, affinché girare un film rappresenti catarticamente la resurrezione di una seconda vita dopo la disfatta della prima. E se amare il cinema e l'arte tutta vuol dire farsi beffe dei critici (indimenticabile il "pus underground" declamato in onore di Henry - Pioggia di sangue durante Caro Diario), arrivando questa volta persino ad ucciderli, affogando nello splatter la loro superbia, ben venga. E se per trovare i soldi per girare un film si è disposti anche a rinunciare alla propria casa, va bene lo stesso. Conta solo sopravvivere, in quest'Italia corrosa e scoppiata, e farlo grazie alla forza del cinema, alla forza dei sogni, di un balletto improvvisato mentre si dipingono le pareti per una scena da girare, di una giovane e inesperta regista che vuole a tutti i costi far sentire la propria voce, di un gruppo di veri attori e registi e critici che si ritagliano ironicamente spazi in cui recitano se stessi con i propri difetti e i propri vizi, di un attore che assume il volto dello stesso Moretti per lasciarci un brivido d'inquietudine in un'inquadratura finale che lascia prevedere fondali apocalittici e distruttivi. Ma prima di giungere all'esplosione ultima, e alla polverizzazione di un mondo che non si regge più in piedi, c'è ancora un po' di tempo: il tempo per cantare rigorosamente stonati e senza abbassare il volume dell'autoradio (qui come ne La stanza del figlio), per cercare un pezzettino di Lego che per due bimbi ingenui può bastare a regalare la felicità, per andare ad Amsterdam e fare un bambino, per volersi bene, per chiudere un matrimonio e giocare a superarsi in macchina uno con l'altro alla stregua di due ragazzini spensierati.

Inoltre, in un Paese in cui ombre di dittature ideologiche paiono nascondere la significazione più profonda della democrazia, c'è ancora spazio per la libertà, ancora colorata dalle sfumature dell'Arte. E così Moretti, oggi splendido cinquantenne, realizza il suo film più libero, sperimentale, distaccato da ogni regola di costruzione narrativa, intervallando volti e spazi, inserti documentaristici e salti nel vuoto, sovrapponendo registri narrativi assai distanti, nel miracoloso equilibrio tra comicità e dramma di estrazione chapliniana, che ancora una volta trova la propria corretta ragion d'essere. Pur azzardando, stavolta, qualche elemento di troppo. Ma la libertà narrativa si pone metaforicamente come sogno di evasione dalla prigionia soffocante in cui la società contemporanea pare implodere giorno dopo giorno. La continuità d'intenti che lega saldamente la filmografia morettiana non mostra segni di sfaldamento, e il "chi le ha insegnato a parlare così" diviene una sorta di "chi vi ha insegnato a vivere così", nell'ultimo girotondo in cui tutti siamo finiti giù per terra, e facciamo molta fatica a rialzarci, adagiati comodamente nel calore artificiale del suolo. Il Moretti giovane entrava di petto nella deriva dell'Italia per tentare di scardinarla dall'interno, il Moretti della maturità guarda la deriva dall'esterno. E non può fare altro che scuotere la testa, rivolgendo al cinema un'ultima preghiera per chiedere la salvezza e la redenzione.

Ne Il Caimano il regista ingloba lo straziante e dolcissimo umanesimo de La stanza del figlio e l'impegno militante di Palombella rossa, la tenera rappresentazione della famiglia di Aprile e la violenza fisica di Sogni d'oro, lo smarrimento post adolescenziale di Ecce Bombo e la disperazione intellettuale di Io sono un autarchico. Non trova la sua migliore ispirazione, mette troppa carne al fuoco e non tratteggia con sufficiente profondità alcuni personaggi, ma ci regala momenti di splendido cinema, di cinema vero e necessario, e pur nella sua opera forse più triste ci lascia ancora questa piccola e fragile stilla di speranza. Indipendentemente da chi governerà nei prossimi anni ciò che resta della misera Italia. Perchè il Caimano ha già vinto comunque, e finirà, in un modo o nell'altro, per placare la sua fame.

 


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