Vincitore GEI7/Automavision: verso un altro cinema PDF 
Gianni Barchiesi   

I think it's important that we all try to give something to this medium, instead of just thinking about what is the most efficient way of telling a story or making an audience stay in a cinema (1). Il grande capo è una commedia del regista danese Lars von Trier (1956), cineasta provocatore, associabile per opere e stili al filone del cinema moderno e attuale artista di spicco del film nordeuropeo (erede ideale di Sjöström e Bergman). Questo lungometraggio è stato considerato dalla critica cinematografica come un divertissment, distinguendolo dalla produzione “abituale” del regista e, con ciò, seppure implicitamente e forse non coscientemente, marchiandolo come un’opera minore. In questa sede vogliamo riprendere in analisi quest’opera, scovandone all’interno dei punti che ci sembrano fondamentali e che riteniamo possano avere interessanti sviluppi nell’ambito dell’estetica del cinema e nella concezione più in generale del cinema stesso.

I
Il grande capo è, praticamente nella sua totalità, un film costituito da inquadrature fisse realizzate con la macchina da presa ferma sul suo asse. Fanno rara e motivata eccezione delle sequenze, astratte dalla narrazione della vicenda, nelle quali l’autore si palesa, sia fisicamente (compare nell’inquadratura) quanto grazie all’uso di una camera a mano: in questi ultimi momenti extradiegetici e metacinematografici si possono notare quegli oscillamenti di camera che sono tipici della steadycam. Il regista è, infatti, un noto amante della steadycam (2): in quest’opera, però, si è cimentato, mettendosi in discussione, non solo con una modalità di ripresa che non sentiva sua, ma anche con un nuovo sistema di ripresa, perfezionato da lui stesso, chiamato “automavision”. Esso consiste nel lasciare la gestione dell’inquadratura (panoramica, movimenti laterali, movimenti verticali, esposizione, potenza dello zoom ed inclinazione) ad un computer che riprende in maniera aleatoria, pur se limitato nelle sue decisioni da dei parametri manualmente impostati, la scena in atto. Risultato consequenziale della ripresa in automavision sono inquadrature sgrammaticate, che presentano gli attori a volte né correttamente, né pienamente centrati nell’immagine: appaiono bensì defilati, se non addirittura tagliati dal limite campo mentre, magari, il centro della scena è dedicato ad un tavolo vuoto. Questa “randomizzazione” dell’inquadratura porta con sé un quantitativo di implicazioni notevolissimo, che ora proveremo a sbrogliare per vedere in che cosa e in quale misura questa tecnologia possa rappresentare una via verso una nuova idea di cinema. La nostra tesi parte, quindi, dalla messa in discussione, a causa dell’automavision, delle pratiche di regia, di quelle attoriali e della fruizione spettatoriale del lungometraggio, per approdare all’avvistamento di un cinema figlio di un “occhio” e di un “pensiero” non “umani”. Oggi questo genere di sperimentazioni potrebbe giovarsi del progresso tecnologico per poter essere ampiamente approfondito e studiato: purtroppo però, la forma cinematografica classica, pur con elastiche eccezioni, anche se non così radicali come l’automavision, si è ormai fortemente consolidata nell’immaginario collettivo, motivo per cui la ricerca espressiva non è all’ordine del giorno per molti cineasti. Così, nonostante Il grande capo sia un film di ormai quattro anni fa e nonostante sia stata una produzione a basso budget, da allora ad oggi non c’è mai stato particolare interesse verso l’automavision e quindi il lungometraggio di von Trier risulta essere l’unico ad essere stato girato in questi termini. Dunque Il grande capo contiene, in nuce, i semi di un cinema autocausato, ma è bene precisare, come premessa, che la tecnologia e ogni citata potenzialità sono, nel caso specifico di quest’opera, piegate ad una necessità di carattere narrativo e che quindi il film in questione è un passo verso la nostra meta, verso la tesi che andremo a sostenere, ma senza già esserne un caso eccellente. E proprio al fine di affermare un assunto fondamentale per la formulazione della nostra tesi, crediamo sia corretto soffermarsi innanzi tutto su di un altro film: si tratta di Red road (2006) di Andrea Arnold, primo lungometraggio di una serie di tre denominata Advance Party, curata tra gli altri da von Trier stesso. In questa sede non si nasconderà l’indubbio valore di Red road come opera filmica in sè (premio della giuria a Cannes 2006), ma è pur vero che preferiremo soffermarci sui soli aspetti del testo funzionali al nostro percorso.

II
Jackie (Kate Dickie), la protagonista di Red road, lavora a Glasgow alla CityEye, un centro di monitoraggio cittadino, dove, con delle telecamere piazzate agli incroci delle strade, vengono monitorate le vie e i sobborghi meno sicuri della città, così da tenere un occhio vigile e preventivo su eventuali disordini. Il dramma di questo film, che poi è una sorta di rielaborazione di un lutto, prende avvio proprio dal lavoro di Jackie, che durante una ripresa riconosce (nonostante la bassa qualità del filmato) Clyde (Tony Curran), l’uomo che le ha ucciso, anni addietro, marito e figlia. L’aspetto che più c’interessa del film e che più si ricollega alle nostre idee si muove appunto da quest’operazione di ripresa, riproduzione e rielaborazione della realtà attraverso il dispositivo della telecamera, qui astraibile alla macchina da presa in generale. Il lavoro di Jackie consiste dunque nell’interpretare ciò che si vede nello schermo con lo scopo, già accennato, di prevenire possibili situazioni d’illegalità. Per far ciò, lei deve basarsi su un insieme di schermi che presentano ognuno una diversa visuale, una per ogni telecamera. Con una tastiera ed un joystick Jackie può navigare tra le molteplici immagini e variare, nei limiti del possibile, le inquadrature delle camere. La sua lettura di questi dati di realtà può ricordare un’azione simile all’interpretazione propria dello spettatore cinematografico: entrambe le attività cercano, infatti, di dotare di senso ciò che lo schermo rappresenta. Vero è che, a ben vedere, ci sono sostanziali differenze. Possiamo asserire che quando la protagonista segue, passando da una telecamera ad un’altra, lo svolgersi di un fatto, in quel caso lei stia realizzando un processo di montaggio: invece nessuno spettatore, contrariamente a Jackie, “si monta il suo film”, bensì usufruisce in maniera cosciente e consenziente della conclusa opera altrui, riconoscendola e decodificandone, a volte meglio a volte peggio, il criterio che la regola. Quindi la fruizione di Jackie sembrerebbe di carattere attivo, mentre quella spettatoriale si potrebbe definire, per contrasto, passiva: questo contrasto, che tenderebbe ad eliminare la supposta congruenza Jackie/spettatore modello, va in parte sconfessato per trarne un importante assunto. Infatti, dando alla protagonista di Red road un’attitudine attiva ed operativa sul materiale, la rendiamo ovviamente cosciente del suo lavoro e, di conseguenza, cosciente del dispositivo che utilizza per svolgerlo (la telecamera). Ma è veramente così? Jackie è davvero una “consapevole montatrice del suo film”(3)? Ricaviamo la risposta dall’analisi di una sequenza narrativamente fondamentale del film. La sequenza in questione è quella in cui, per la prima volta, la protagonista s’imbatte in Clyde attraverso gli schermi del suo studio. Nella prima parte della sequenza Jackie esercita i doveri della sua professione e produce il “suo film come vigilante”, così da poter conoscere e controllare lo svolgimento della realtà data sullo schermo. Un uomo sta inseguendo una donna nella notte: sembra un tentativo di stupro (ecco la causa, il fil rouge dell’operazione “professionale”). Poi, però, il fatto si rivela altro da quello dell’ipotizzata violenza, il che esaurisce l’attività lavorativa di editing di Jackie: la “scena” è stata dunque seguita (montata) nelle sue varie inquadrature secondo una logica eterocausata rispetto alla nostra protagonista. Ma all’improvviso, in una breve serie di fotogrammi a bassa definizione, Jackie crede di riconoscere nell’uomo Clyde, colui che le ha rovinato la vita: parte allora la seconda sezione della sequenza. Finito, infatti, un fugace atto sessuale, il duo Clyde/donna si dilegua nella notte e così la vigilante tenta di seguire con le telecamere l’uomo, salvo perderlo presto di vista. Ora, in questa fase il montaggio delle inquadrature delle telecamere è diretto da una ricerca di senso che è propria di Jackie, autocausata, e che esula da motivazioni professionali. Uno dei due inseguimenti/montaggi, non va a buon fine nell’esplorazione del senso e nella fattispecie è quello gestito dalle suddette motivazioni “personali”: difatti non si ha la certezza completa che l’uomo visto sia Clyde. La nostra protagonista risponde a quella definizione di “consapevole montatrice” solo quando agisce secondo delle precise regole e non quando agisce sotto l’influsso di volontà particolari, che ne rendono inconcludente e vuota l’operazione: una condizione, quest’ultima, però, nella quale lei si riavvicina al grado di passività e abbandono/affidamento al materiale tipico dello spettatore medio. Il montaggio autocausato operato dalla giovane vigilante si rivela, dunque, inutile a provvedere ad un senso che non è quello intrinseco alla logica e alle modalità operative del mezzo utilizzato. Il modus operandi e i fini personali di Jackie non sono quelli dell’azienda CityEye per cui ella lavora e lei non può forzare al “suo montaggio” un insieme di materiali ed un dispositivo basati su un altro sistema. Quando si agisce in montaggio si agisce su di un insieme di materiali obbligati alle/dalle logiche interne al dispositivo che li ha raccolti e su tale quantitativo di elementi così caratterizzati si può lavorare solamente secondo determinate regole, difficilmente altrimenti. Non è dunque un caso che i movimenti di camera che Jackie effettua per seguire Clyde nel buio sembrino schizzati e sconclusionati: sono diversi, impropri ed inutili rispetto a quelli ordinati e consequenziali del suo ordinario lavoro ed infatti non portano a buon fine la sua ricerca. Il dispositivo di ripresa utilizzato in questo caso non permette alla protagonista di essere una vera e propria consapevole montatrice (demiurgo) dei materiali presenti. Quello che ci preme sottolineare e trarre come prima considerazione importante del percorso intrapreso è, quindi, l’esistenza e l’imprescindibilità di criteri essenziali nella stessa produzione delle immagini: la non consapevolezza di questa realtà porta ad una scorretta espressione dei materiali stessi e delle proprie idee attraverso di essi in fase di montaggio. Con questo non intendiamo negare, nella maniera più assoluta, le varie teorie sul montaggio di matrice ejzenstejniana: ribadiamo solamente l’assoluta pienezza di senso di un’immagine in quanto prodotto di un dispositivo regolato da principi. Che poi questa possa essere assemblata in un insieme organico mirante alla composizione di un senso più grande e complessivo, in modo più o meno palese, è un’azione lecita e artistica, ma soprattutto è un’azione silenziosamente consapevole e rispettosa delle “caratteristiche innate” di ogni materiale di cui si serve.

III
Ne Il grande capo il principio imprescindibile che sta dietro al dispositivo automavision è quel parametro necessario a circoscrivere la serie di decisioni casuali che il computer prende nella gestione dell’inquadratura. I materiali che ne genereranno non saranno quindi propriamente pensati da un uomo, ma, se ci si concede l’espressione fantascientifica, assai più vicini all’essere “pensati” da una macchina. A risentire di questo duro colpo è tutto ciò che ruota attorno al film, perché viene colpita alle fondamenta l’idea di produzione di un lungometraggio e, come detto, vengono messi in discussione il ruolo del regista, la gestione e le pratiche della recitazione ed infine anche la fruizione spettatoriale. Dal punto di vista della regia la presenza dell’automavision, ossia l’affidamento della gestione delle inquadrature ad un algoritmo, implica una ri-localizzazione e ri-delimitazione dell’operazione registica e dell’autorialità stessa: se, infatti, si vorrà lasciare (come ha fatto von Trier) una più che discreta libertà al dispositivo, non sarà praticamente possibile ipotizzare i risultati delle riprese. Ne risulta, secondo noi, che l’operazione registica confluisce interamente nel montaggio. È qui, infatti, che von Trier opera sensibilmente, scartando moltissimo materiale (4) e cercando di creare una base “essenziale” ai fini narrativi, utilizzando oltretutto un ritmo molto sincopato, poco fluido, quasi “spigoloso”, così da aggiungere enfasi al registro “autocausato” (dal punto di vista del dispositivo) già proprio delle immagini. Ora, se non fosse però proprio per la fase di montaggio e per le sue implicazioni narrative, sembrerebbe di avvicinarsi ad alcuni aspetti del cinema “utopico” di Cesare Zavattini: con l’automavision ecco che potrebbe farsi quanto mai tangibile un cinema del “soggetto pensato durante”, che sappia stare veramente e intensamente “sulla scena”. Si tratterebbe di un cinema potenzialmente sempre più emancipato dall’azione del pensiero umano ed umanizzante il quale, avendo forti tendenze narrative e drammatiche finalizzate alla necessità innata di far riferimento ad un tempo ordinato, canonizza la produzione dell’opera in un “prima” ed un “dopo” e la priva di quel “durante” tanto caro all’intellettuale emiliano. La condizione che non permette all’automavision de Il grande capo di avvicinare molto di più questo status risiede dunque nell’operazione di montaggio di von Trier, che contrae e organizza i tempi della realtà filmata piuttosto che dilatarli: ovviamente il regista danese è giustificato dalle suddette necessità narrative “classiche”, ma resta il fatto che, qualora non volessimo (per semplificazione) non considerare cinema quella che viene comunemente definita videoarte (col pensiero soprattutto all’idea del tempo nei video di Bill Viola), allora l’opera vontrieriana risulta essere quanto nel mondo della cinematografia più si avvicina alle ambizioni zavattiniane. Il merito di questo è da darsi all’automavision, capace di restituire la realtà attraverso nuove immagini libere, non prettamente narrative o almeno non dal punto di vista “umano”: non si parla qui dell’affermazione zavattiniana di un “uomo nuovo”, cosa che è forse impossibile, quanto piuttosto di un cinema non antropocentrico, di un cinema quasi in odore di “autoreferenzialità”. Se Zavattini parlava della necessità del dispositivo di guardare davanti a sé e non dietro (5), questa non può che essere la dimensione dell’automavision, il quale, per sua natura, non ha nulla dietro di sé, perché non ha coscienza, se non impostagli, del filmico e delle sue esigenze e, in virtù di questo principio, non può che produrre un vero “nuovo” insieme di materiali. La lavorazione “umana” su questi materiali grezzi sarebbe da destinarsi poi alla fase di montaggio, la quale risulterebbe però subordinata, come affermato in precedenza parlando di Red road, al principio proprio del dispositivo, principio che ora sappiamo essere assente: subordinazione, quindi, ad una mancanza, più o meno “intensa”, di senso. Senza ora portarci troppo lontano, dubitiamo che un lavoro di post produzione “classica” sul lavoro di un dispositivo automavision si possa fare facilmente il gioco di una qualsiasi esigenza narrativa senza colpo ferire: è qui che vediamo gli spiragli di un ipotetico nuovo cinema, che esplorerebbe la realtà, magari né meglio né peggio di come si è fatto finora, ma sicuramente con occhi e con tempi diversi, evidenziando una virtualità della realtà che ci è naturalmente preclusa o che ci resta ad ogni modo sfuggente. Abbiamo dunque visto come von Trier sia figura attiva soprattutto in fase di montaggio: ma sul set invece, seppur presente (ed addirittura a volte, come prima evidenziato, fisicamente visibile), tende a lasciare il comando all’automavision. Questo comporta anche una serie di difficoltà per gli attori presenti in scena: l’azione “randomica” del dispositivo, infatti, permette loro una limitata coscienza di chi o che cosa ci sia nell’obiettivo (6). Ovviamente è risaputo che, fra le tacite volontà di un interprete, c’è quella di (bene) apparire nell’inquadratura e si tratta di un’operazione solitamente facilitata dalla consapevolezza di dove la macchina da presa sia puntata e stia “guardando”. Ma l’incomprensibilità del punto di vista adottato, o perlomeno la sua difficile decifrazione, obbliga l’attore o ad una recitazione più scarna, perché possa essere apprezzabile da una gamma d’angolazioni di ripresa differenti, oppure a muoversi (7) per cercare un posizionamento presumibilmente più corretto nell’inquadratura. Si può dunque affermare che l’automavision sposta dal centro dell’universo film non solo l’uomo/regista, ma anche che calcia abbastanza lontano ogni vocazione di protagonismo sulla scena da parte dell’uomo-attore. Ovviamente subisce modifiche anche tutta quella sezione di pratiche che riguarda la cooperazione sul set: nonostante regista e attori possano accordarsi su una comune linea da intraprendere nella resa ideale del profilmico, resta il fatto che il dispositivo potrebbe mantenere una sostanziale autonomia da queste intenzioni e rendere un insieme di materiali che evidenzierebbero tutt’altre sfumature rispetto a quelle cercate. La scena cessa dunque di essere un luogo dove la compartecipazione tra le personalità coinvolte nella creazione del film si rivela fruttifera. Questo sembrerebbe, in un primo momento, asciugare la creatività, eliminando la tradizione cooperativa presente tra registi ed attori: pensiamo qui, ad esempio, al lavoro sul set di artisti come Jean Renoir o David Lynch, capaci di rendere la fase di ripresa una sorta di continuo “happening”. Ci si rende però poi conto che, in realtà, le implicazioni dell’automavision sortiscono, a film concluso, un effetto inusitato ed innovativo, frizzante e coinvolgente quanto quello che si tocca con mano nella fruizione delle migliori sequenze del cinema dei suddetti registi. Infine, cosa cambia nella fruizione spettatoriale. Ci limiteremo a notare, in maniera tautologica, che un film è un prodotto di esseri umani per altri esseri umani. C’è dunque un’organicità di fondo che collega direttamente chi sta dietro alla macchina da presa con chi si trova nel buio di sala, là dove “la luce pugnalerà la notte alle spalle (8)”. La catena s’interrompe quando il cinema, con l’automavision, non è più solo un mezzo che collega queste persone, ma piuttosto qualcosa di autosufficiente. Non viene più usato “da qualcuno” per mostrare o per far capire qualcosa ad un ipotetico “qualcun altro”: diventa invece un deposito autocausato di immagini e suoni che noi tutti dovremmo trattare con un’attitudine simile a quella con cui trattiamo la brutale e quotidiana datità della vita, ossia mettendo in conto la possibilità che, in quanto stiamo fruendo, possa venir meno il senso. Teniamo a ripetere che questo appena descritto non è precisamente il caso de Il grande capo, perché nella fase di montaggio il film in questione viene logicamente dotato di narrazione (e dunque di senso). Ma von Trier, pur piegandosi alle necessità della diegesi, cerca comunque di privilegiare nel suo montaggio un senso “estetico”, lavorando quanto più possibile per sottolineare il taglio aleatorio e non preordinato del proprio dispositivo, inserendo molte immagini extra-diegetiche ed evitando, apparendo egli stesso all’inizio, alla fine e a metà del lungometraggio, l’integrità del dato funzionale della narrazione (e la conseguente sospensione dell’incredulità), se non già eliminandolo del tutto. L’attenzione del regista è puntata dunque alla nostra percezione immediata e non già alla nostra rielaborazione di quanto mostrato, a sottolineare l’importanza della fruizione del flusso sopra tutto il resto. Ovviamente alcuni registi si sono già cimentati in questa direzione, Jean-Luc Godard (soprattutto dopo gli esperimenti sul video degli anni ‘70) e David Lynch su tutti: ma Lars von Trier ha dalla sua una tecnologia dalle potenzialità eccitanti. Un graduale scioglimento delle catene dell’automavision potrebbe soddisfare l’ambizione di arrivare ad avere un cinema non antropocentrico, paradossalmente “naturale” nella sua “massima artificiosità”. Un cinema autocausato, che ci riporta alla mente la memorabile sequenza vertoviana de L’uomo con la macchina da presa (1929), dove un cavalletto e una cinepresa, animati di vita propria, si uniscono e agiscono autonomamente.

Note:
(1) “Io credo che sia importante che noi tutti provassimo a dare qualcosa a questo medium, invece di pensare solamente a quale sia il modo più efficace per raccontare una storia o per far sì che il pubblico resti in sala”. Lars von Trier, dai contenuti speciali dell’edizione italiana del DVD de Il grande capo (2007)
(2) “Secondo me non c’è molta logica nell’inquadratura, mentre puntare con la cinepresa a mano mi sembra molto più logico”. Lars von Trier, dai contenuti speciali dell’edizione italiana del DVD de Il grande capo (2007).
(3) Ovviamente è il caso di notare che Jackie deve per forza metabolizzare imateriali con cui e su cui operare durante la stessa visione in sé: si tratta quindi di una pratica di montaggio che è riconducibile, di per sé, ad altri ambiti dell’audiovisione quali quello della televisione, assai più affini al mestiere di Jackie che non già quello della classica postproduzione cinematografica.
(4) “Con il sistema automavision, circa una ripresa ogni trenta è totalmente inutilizzabile. L’attore finisce fuori inquadratura”. Peter Hjorth (supervisore effetti speciali), dai contenuti speciali dell’edizione italiana del DVD de Il grande capo (2007).
(5) Cesare Zavattini, Neorealismo ecc, a cura di M. Argentieri, Bompiani, 1979, pp. 74 e seguenti.
(6) “Abbiamo pensato di mettere uno schermo davanti alla cinepresa, così gli attori non avrebbero potuto vederla e ciò per assicurare la massima casualità dell’azione. Ma abbiamo dovuto rinunciare all’idea perché lo specchio bloccava la luce”. Peter Hjorth (supervisore effetti speciali), dai contenuti speciali dell’edizione italiana del DVD de Il grande capo (2007).
(7) Peter Gantzler (attore, interprete del personaggio Ravn), dai contenuti speciali dell’edizione italiana del DVD de Il grande capo (2007).
(8) Mais c'est dans le dos que la lumière vient frapper la nuit, Jean-Luc Godard, Soigne Ta Droite, 1987.

 


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