Rendition - Detenzione illegale PDF 
Gianmarco Zanrè   

ImageEra il 1976 quando Alan J. Pakula consegnò alla storia della settima arte uno dei vertici del cinema di denuncia della fiammeggiante New Hollywood, una delle correnti più importanti del prodotto made in Usa dopo l'epoca dei grandi studios e gli anni della contestazione: riguardando ora la perla che continua ad essere Tutti gli uomini del presidente, veicolo su grande schermo della vicenda di Woodward e Bernstein e dello scandalo Watergate, non sembrano passati, per l'attualità di denuncia e il linguaggio, ventidue anni dalla sua prima proiezione. Ora siamo nel 2008. La New Hollywood è ormai un ricordo, gli Stati Uniti hanno attraversato, con il mondo intero, la tragedia dell’undici settembre, e il cinema sociale, specie in ambito documentaristico, pare rifiorito: eppure, esistono pellicole che, oltre ad essere scontate, nascono già vecchie, nel peggior senso del termine. Una di queste è, senza dubbio alcuno, l’ultima fatica del sudafricano Gavin Hood, Rendition, già vincitore del premio Oscar per il miglior film straniero con l’assai poco convincente Il suo nome è Tsotsi.

Hood dirige diligentemente attori e collaboratori, sa come muovere la macchina da presa e ha tutte le carte in regola per poter seguire le orme di altri affermati registi che, dopo un inizio folgorante, hanno trovato casa in pianta stabile nella Hollywood che conta: su tutti, Iñarritu. Dunque, cosa di preciso s’inceppa nel meccanismo ben oliato da sicuri incassi (e consensi) nell’Eldorado dei cineasti? Semplice: il cinema di Hood si arroga il diritto di essere "di contestazione" quando, andando appena oltre la superficie, non traspare altro che "simpatia" - politica, sociale ed economica - per gli Usa. Simpatia che, anche in quella che vorrebbe essere una denuncia, o un atto d’accusa, diviene paradossalmente un'ulteriore dimostrazione di quanto grande, straordinaria e piena di risorse sia l’autoproclamatasi più grande democrazia al mondo. Emblematico, in questo senso, è il confronto fra il protagonista Jake Gyllenhaal, analista inviato da Washington, e il carceriere responsabile delle torture ai prigionieri politici, che incarna la parte del consueto cattivo tutto muscoli e convinzioni dettate dall’alto, e che, naturalmente, è di etnia mediorientale. A poco paiono funzionali, se raffrontati a una pellicola che teme addirittura di indicare uno stato in particolare ribattezzando come Nord Africa una qualsiasi città in cui possa avvenire un attentato suicida, i personaggi di Meryl Streep e Alan Arkin, eminenze grigie di una politica che prevede singole vittime sacrificali in cambio della sicurezza di migliaia di potenziali esposti ai rischi di una minaccia terroristica. Il paternalismo quasi colonialista che pervade l'intera pellicola sconfina, inoltre, nell'ambito familiare della vittima - non a caso, egiziano, sposato ad un'americanissima Reese Whiterspoon - e nella costruzione dei dialoghi, capaci di scadere nel ridicolo involontario quando il confronto tra Gyllenhaal e il ministro degli interni nordafricano diviene il paragone fra un detto locale che prevede la violenza a prescindere sulle proprie mogli e una citazione shakespeariana, adottata dallo stesso Gyllenhaal come fosse un detto tutto a stelle e strisce sull'inutilità della tortura.

A tal proposito, oltre alla succitata New Hollywood, paragoni importanti tornano alla mente ripensando al film di Costa Gavras vincitore di Oscar e Palma d'oro Missing (1983) e al più recente Garage Olimpo (1999), in cui Marco Bechis delinea con agghiacciante realismo e una retorica prossima allo zero il terrore e l'assurdità dell'applicazione della tortura: nello sviluppo della sceneggiatura, nel montaggio e nel confronto fra le due linee temporali di narrazione la pellicola di Hood trae chiaramente spunto dal lavoro di Bechis, snaturandone, però, anche se involontariamente, tutte le più sentite componenti umane, e rivelando, anche in questo senso, la volontà di mostrare più la propria abilità nello sfruttare un argomento "scottante" che l'effettivo orrore celato dietro l'ormai celeberrimo "Patriot act", capace di trasformare una tragedia collettiva - di nuovo torniamo all'undici settembre - in un incalcolabile insieme di tragedie individuali, familiari, "minori". Ad ogni modo, sarebbe un errore ritenere realmente dannosa una pellicola di questo tipo, assolutamente incapace di sviluppare le potenzialità di un soggetto effettivamente scottante e di rottura, per quanto non nuovo, se si pensa al Winterbottom di Road to Guantanamo, ad alcuni dei cortometraggi raccolti a un anno di distanza dall'undici settembre o ai più recenti The Redacted e Taxi to the Dark Side.

Purtroppo, nel cinema come in politica, grosse produzioni affidate a registi in ascesa spesso significano compromesso, e, di conseguenza, impoverimento dei temi e relativo appiattimento di emozioni e stimoli rispetto al senso sociale dello spettatore: il risultato è, come in questo caso, l'ennesimo film "patinato" per intellettuali occasionali o timorosi da telegiornale con la voglia di lavarsi la coscienza di fronte a qualche frase ad effetto pronunciata all'uscita dalla sala. Un'occasione mancata, dunque, non solo per Gavin Hood, ma anche per il suo pubblico e i suoi produttori: a volte, di fronte a tragedie che toccano molto da vicino la grande maggioranza dell'audience, il coraggio di tralasciare volti noti e intenzioni neppure troppo sostenute per scommettere sul cambiamento può ripagare molto più di incassi basati su una sceneggiatura scadente e giocata sui luoghi comuni. Ad ogni modo, di fronte a vicende verosimili ed agghiaccianti come quella di Anwar El Ibrahimi, il consiglio è quello di tornare a Pakula, o dare spazio all'ultimo DePalma. Per Gavin Hood, del resto, ci saranno ancora tempo e "occasioni" (è già confermata la sua regia per l'atteso Wolverine: Origins, spin off della trilogia degli X-Men): la Hollywood che conta, quella dei dollari e del patinato, pare averlo già adottato come uno dei suoi nuovi enfant prodige. Mali comuni del colonialismo: e la mente corre di nuovo a Tutti gli uomini del presidente.

TITOLO ORIGINALE: Rendition; REGIA: Gavin Hood; SCENEGGIATURA: Kalley Sane; FOTOGRAFIA: Dion Beebe; MONTAGGIO: Megan Gill; MUSICA: Paul Hepker, Mark Kilian; PRODUZIONE: USA/Sud Africa; ANNO: 2007; DURATA: 122 min.

 


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