Gli angeli del male. L’epica criminale nell’Italia del XXI secolo PDF 
Umberto Ledda   

Quando i pesci grossi della politica prendono una posizione netta verso una cosa sostanzialmente trascurabile come un film, allora vuol dire che, per una volta, non è una cosa così trascurabile. Prima dell’uscita di Vallanzasca - Gli angeli del male (l’epopea del ragazzino che nella Milano fra i Settanta e gli Ottanta fece strage, non solo di cuori), esponenti in vista del governo hanno criticato e polemizzato: inammissibile l’idolatria del malvagio, inaccettabile l’umanizzazione di una bestia. Si è tirato in ballo il problema dell’emulazione, quello dei parenti delle vittime, eccetera. Prima di Vallanzasca, c’erano state le critiche a Il capo dei capi, la fiction che raccontava le gesta di Totò Riina dal punto di vista di Totò Riina. Più o meno nel mezzo, un ministro aveva avversato la messa in onda di Gomorra – il film – sulla tv nazionale  in quanto sarebbe stata una forma di pubblicità nei confronti dei clan camorristici. Il fatto che presidenti e segretari perdano tempo a indignarsi su robe così popolari significa che qualcosa sta accadendo. Le loro affermazioni sono spesso in pessima fede, risibili e utilitaristiche, ma su una cosa non si può dir nulla: in Italia esiste una nuova epica criminale che gira intorno ai nomi – reali – della malavita nostrana, che entrano così a far parte del pantheon mitico dell’immaginario popolare. Il pubblico segue, ama, apparentemente si dissocia, però poi si getta sul merchandising e si compra la maglietta di Romanzo Criminale. Alcuni emulano, che è un po’ peggio che comprarsi una maglietta. Secondo i pesci grossi è colpa degli spettatori e delle fiction stesse, che non andrebbero trasmesse né girate né ideate. Inutile dire che la questione è un tantino più complessa. Dietro il successo della nuova epica criminale giocano fattori che non basterebbe un libro e che sono più profondi delle semplificazioni strumentali della politica. Alcuni sono di ordine sociale, altri di ordine politico, altri, infine, sono del tutto interni alle logiche della narrazione.

Premesse
Una costante assoluta di ogni forma narrativa è l’immedesimazione. In qualsiasi storia, anche se è raccontata maluccio, lo spettatore-lettore tiene per il protagonista, si identifica nei suoi obiettivi e, nella speranza che vengano raggiunti, spera che tutti gli oppositori vadano a morire ammazzati. Il principio di immedesimazione si fonda su alcuni principi molto semplici, che semplificando ulteriormente sono: se accetti di spender tempo davanti a una storia devi averne qualcosa in cambio, che siano insegnamenti o semplici emozioni, e per trarre un qualsiasi messaggio valido da una storia è meglio che tu abbia preso a cuore la vicenda e il personaggio che la vive.  Un corollario: l’immedesimazione è più potente di qualsiasi altro elemento narrativo, capace di superare comodamente anche la valutazione etica delle azioni compiute. In altre parole, non si tiene per il buono, ma per il protagonista: se poi il protagonista possiede un’etica condivisibile, tanto meglio. Ma se è malvagio, sta dalla parte del male e magari sa anche benissimo di starci, allora lo spettatore-lettore, pur di immedesimarsi, cambia momentaneamente il suo paesaggio morale. Un'involontaria sospensione dell’etica. D’altra parte c’è forse qualcuno che quando guarda Dexter spera che mettano velocemente in carcere quell’adorabile serial killer? Poi c’è la questione del criminale. Il criminale nella cultura popolare piace, è sempre piaciuto. Fin dalle storie di pirati che si fanno leggere ai bambini da più di cent’anni, e dove i pirati suscitano fascino e desiderio di immedesimazione senza nemmeno il bisogno di essere i protagonisti della storia. E piace anche nella realtà, da Ghino di Tacco a Giuseppe Musolino a Renato Vallanzasca, che diventano a loro volta materiale privilegiato per il fiorire di una narrazione leggendaria ed epica. Criminale è diverso da malvagio, per quanto spesso le due cose si presentino insieme.  In tutte le società molto regolamentate la sua figura rappresenta la fuga, l’istinto di disobbedienza che ci si porta dietro dalla prima infanzia nei confronti dei vincoli sociali. Il desiderio che per ottenere qualcosa basti prenderselo, invece di sottostare all’obolo della civiltà, che pretende tutta una serie di passaggi e sotterfugi in più. L’uomo civile dimentica facilmente che la civiltà e la società esistono per un motivo preciso, e che le limitazioni di libertà che impongono sono ampiamente ripagate dal poter dormire la notte senza guardarsi le spalle ogni cinque minuti, rischiando di finire nella schiera degli deboli angariati, fatalmente più vasta di quella degli angariatori. È bello sognare di essere al di sopra del bene del male, sognare che i vincoli non esistano e che abbattere il nemico o l’oppositore sia più sensato che convincerlo dialetticamente. Tanto più che il criminale non è privo di etica come un malvagio qualunque, ce l’ha ed è magari anche coerente (almeno nella versione idealizzata delle leggende): è solo opposta a quella comunemente considerata come legge. E la legge il buon cittadino la considera giusta, sì, ma anche un po’ come una limitazione all’istinto egoistico di autorealizzazione. La considera un po’ come una dolorosa necessità per mantenere salda la società e il suo ordinamento. E basta che ci sia un minimo scollamento fra il cittadino e i detentori della legge per aumentare la fascinazione verso chi della legge se ne frega: la figura del brigante furoreggia in una società fragile, o insicura, o traballante, o sfiduciata. Il brigante, il malavitoso, diventa colui che sfida un potere debole, per il quale si è persa fiducia, o che riesce solo a spaventare senza tranquillizzare. È, appunto, colui che disobbedisce.  E l’ubbidienza non è un valore assoluto per nessuno. Se poi questo criminale disobbedisce per farsi i suoi porci comodi, per pippare un fiume di cocaina e fare molti soldi, questo, nella versione idealizzata della sua figura, diventa un mero danno collaterale.

Italia, inizio secolo
Ora, dell’Italia della prima parte del XXI secolo si può dir tutto ma non che non sia una democrazia fragile, insicura e sfiduciata. Era ovvio che la figura del criminale subisse una rivalutazione mitica, che in effetti assume, nel primo decennio, la dimensione del fenomeno di massa. Tanto più che, nel frattempo, la cultura popolare e le sue espressioni narrative sono cresciute, sdoganando la possibilità di innalzare ruoli negativi all’onore di essere i protagonisti, mentre prima erano relegati, per moralismo ed etichetta, a quello di oppositori. Hanno iniziato i film di mafia degli anni Settanta, che già focalizzavano la vicenda attraverso l’etica criminale, poi lentamente questa possibilità ha preso piede, fino, appunto, a cose come Dexter. Secondo alcuni l’irruzione di ruoli principali negativi è figlia del relativismo novecentesco che a sua volta è figlio, della fragilità, dell’insicurezza, della sfiducia. Può essere. Fatto sta che l’onda montante (per quanto sotterranea) dell’epica criminale si è ben sposata con la possibilità, per la prima volta, di utilizzare questi criminali come protagonisti assoluti, con un loro punto di vista morale e tutto il resto. Si poteva abbandonare, quindi, l’espediente Piovra: (raccontiamo storie di mafia che la gente vuol vedere solo quello, però mica si può, facciamo finta che i protagonisti sono i poliziotti, così nessuno può protestare). Poi, vista la quantità italiana di misteri ingloriosi, criminali di grande levatura e gran potere, già abbondantemente mitizzati, le storie inventate hanno ceduto il posto a quelle reali per questioni di economia: ce n’erano già da vendere, di storie, ed erano più complesse e trucide di quanto potessero inventare gli sceneggiatori. Il gusto morboso, da reality, del sapere che determinato sangue era scorso davvero, è stato la ciliegina sulla torta.

New italian (criminal) epic
Dunque, in ordine casuale e senza alcuna distinzione qualitativa: la mafia ha Il capo dei capi, che Riina, dal carcere, pare abbia guardato gradendo un sacco, esattamente come milioni di spettatori. La mafia ha anche L’ultimo padrino, su Provenzano, di minore risalto. La camorra non ha potuto vantare intrattenimento popolare di grande riscontro, ma solo perché bloccata dalla presenza di Gomorra, libro e film, che tutto sono fuorché narrazione agiografica ed epica, ma che devono essere citati perché qualcuno è riuscito a vederci dell’epica lo stesso. È comunque in lavorazione una serie tv tratta proprio da Gomorra. La criminalità romana fa la parte del leone: di Romanzo criminale oramai esistono un romanzo, un film, una serie in due stagioni (miglior prodotto di sempre della tv italiana, ma non è questo il discorso), e un concept album. C’era comunque un altro film del 2005, Fatti della banda della magliana, ma non se n’è accorto nessuno. E poi avanti: la mala milanese è l’ultima arrivata in ordine di tempo, ma ha già fatto abbastanza rumore con Vallanzasca, diretto da Michele Placido, che già stava dietro al film di Romanzo criminale e che è un po’ il signorotto di questa nuova epica criminale, visto che era anche il protagonista storico della Piovra, che è un po’ l’archetipo di tutti questi titoli. Eccetera: la non-fiction di Lucarelli, i romanzi di Carlotto, fino ad arrivare a casi di frontiera ma che possono per molti aspetti rientrare nel fenomeno, come Il Divo di Paolo Sorrentino. Sono tutte storie strutturate con i criminali come protagonisti (e di conseguenza, buoni effettivi) e con le forze dell’ordine come oppositori (buoni ufficiali, ma percepiti come ostacoli). Alcune di esse hanno come scopo collaterale a quello narrativo la descrizione della società italiana dell’epoca (generalmente, dagli anni di piombo alla fine della prima repubblica, ultimo periodo caldo della storia italiana), concentrandosi sul contesto, sugli intrecci tra criminalità e stato, servizi segreti, mafie, papi, eccetera. Alcune hanno un approccio più psicologico, chiedendosi perché si diventa criminali e cosa si prova nell’esserlo. Alcune riescono a raggiungere quanto si erano proposte, altre no. Non è questo il problema principale: il discorso cinematografico, o letterario, o televisivo, passa in secondo piano. C’è di mezzo la realtà, e la realtà non è un campicello recintato dove tutto si fa e si disfa senza conseguenza. Poi c’è la visibilità: non i soliti quattro gatti coltissimi e ininfluenti dei film d’autore, ma il pubblico vero, quello grosso, i milioni.

Qual è il problema, quindi? Che rischio c’è, che pericolo c’è in tutto questo? Secondo molti, onorare un criminale indifendibile, dargli un punto di vista, una voce, creare immedesimazione nei suoi confronti è profondamente sbagliato e può creare fenomeni di glorificazione. A maggior ragione quando si tratta di personaggi realmente esistiti, che lasciarono per terra cadaveri veri ma che nella strutturazione drammatica vengono ripuliti, dotati di una parabola sensata, resi comprensibili e liberati dalle contraddizioni. Il problema grosso in tutto questo, secondo alcuni, sarebbe il rischio di umanizzare il personaggio. Non bisogna umanizzare gente che commise gesti che non hanno nulla a che fare con l’umanità. Sarebbe bello poter concordare, ma  fino a prova contraria persone come Renato Vallanzasca, Totò Riina, Enrico de Pedis, eccetera, non erano vitelli o zanzare. Erano uomini che sì, avevano sentimenti, sì, avevano affetti, sì, avevano debolezze, e contemporaneamente facevano il male. Hanno accusato Placido di aver reso simpatico il suo Vallanzasca: be’, Vallanzasca era un simpaticone, e pare che abbia giocato a calcio con la testa del suo ex migliore amico. Perché le due cose dovrebbero escludersi a vicenda? Il problema non è una fiction che umanizza, è che un essere umano faccia certe cose o che uno che faccia certe cose possa rimanere, a pieno titolo, dotato di umanità. Fra l’altro, secondo alcuni il problema è alla base: certe storie non vanno raccontate e basta, perché ogni visibilità è pubblicità. Eppure sono accadute davvero, sono storia. Forse sarebbe più opportuno stigmatizzare il fatto che siano accadute, piuttosto che poi se ne parli e vengano raccontate. Verrebbe da dire, piuttosto, che le vicende più orrende della storia italiana hanno più diritto delle altre di venir raccontate, però bisogna farlo bene, resistendo alla tentazione di creare degli eroi (o degli antieroi, che sarebbe identico), di giustificare azioni disgustose con qualche boiata paternalistica del tipo che questi ragazzi avevano avuto infanzie difficili e quindi potevano fare quello che hanno fatto. Si potrebbe dire che più una serie è ben fatta, contestualizzata, minore sarà il problema della glorificazione e del rischio di emulazione. Più si mostra davvero quanto è accaduto nella realtà, senza ricorrere a trucchetti da bassa fiction (esempio: niente storie d’amore romantiche, nonostante la regola d’oro della fiction dica che serve sempre), più l’identificazione con il criminale di turno sarà complessa, non idealizzata ma fedele al reale, e quindi fastidiosa. Perché se è vero che allo spettatore piace sognare di essere un superuomo armato che spiana a pistolettate tutti gli ostacoli, è altrettanto vero che dopo che lo si è fatto sognare lo si può risvegliare. Basta andare fino in fondo, mostrare tutta la storia, fare vedere le conseguenze: nella realtà ci sono sempre, e puzzano immancabilmente di carcassa. Mostrare che il mito del superomismo criminale è legittimo, ma quello rimane: un mito. La realtà è un’altra, e anche il criminale che non chiede il permesso per prendere le cose deve sottostare a una serie di regole e che la sua libertà è semplicemente limitata da altri limiti rispetto a quelli che tarpano il bravo cittadino.

Fra tradimenti, morti, corruzioni, squallore infinito, non una delle parabole criminali della storia italiana è andata a finire molto bene: e questo anche nei casi in cui la polizia non ha arrestato nessuno. Impastandosi di realtà, il sogno del bandito perde la sua poesia. Romanzo criminale, la serie, è esemplare, perché mostra non solo le gesta eroiche di questa banda di tamarri gonfi di cocaina che conquistò Roma a colpi di pistola e di conoscenze altolocate. Mostra anche come andò poi, realmente, senza sconti, senza gli happy ending che tradizionalmente chiudono una fiction, senza riscatto. Non risparmia nulla ai suoi personaggi, come la storia non risparmiò nulla ai loro equivalenti reali. Certo, li rende più coerenti, li rifinisce, li rende più personaggi insomma, ma non li smussa, non ha pietà di loro, e soprattutto, mostra tutte quelle che furono le conseguenze dei loro gesti. Divisa in due stagioni, Romanzo Criminale è equamente diviso: ascesa e crollo. Nella prima c’è, comprensibilmente, l’epica della conquista che non può non generare fascinazione e immedesimazione. I tre protagonisti, il Libanese, il Freddo, il Dandi, salgono la strada del successo, uniti, determinati, concentrati sull’obiettivo. Si prendono il quartiere, si prendono Roma, si ramificano ovunque, trattano da pari con la mafia, trattano da pari con la camorra, coi servizi segreti, insomma, trattano da pari con quelli che sono molto più grandi di loro e prima li disprezzavano perché loro erano dei poveracci borgatari. Ma ovviamente non finisce qui. Perché qualcosa si rompe, è non è semplicemente la polizia cattiva che li prende o li ammazza donandogli una fine dignitosa. Tutto è destinato a corrompersi negli stessi protagonisti, oltre che negli innumerevoli comprimari: tutti sono destinati a sporcarsi, le collusioni generano complotti, il potere genera paranoia e assuefazione. Il Libanese diventa un boss schizzato e nevrotico; ci si era immedesimati in lui, e anche parecchio, ma poi inizia a fare schifo davvero, e questa immedesimazione diventa pesante, ma ancora non la si può abbandonare, perché il protagonista è sempre lui. Solo che è diventato un protagonista corrotto, megalomane, strafatto, muore solo come un cane e lo piangono in pochi. E poi anche gli altri protagonisti seguono a ruota. Il Freddo passa la seconda stagione da solo a capo di una banda che non gli da retta, utilizzando la sua etica criminale per punire chi tradisce, il che ovviamente sfocia in un sacco di morti. Il Dandi diventa un disgustoso affarista dei piani alti, un imprenditore gonfio e corrotto con conoscenze altolocate (Enrico de Pedis, il criminale su cui è modellato, finì sepolto nientemeno che nella chiesa dell’Opus Dei, sant’Apollinare). Tutto si dissolve intorno a loro, eppure non rimane nessun altro in cui immedesimarsi, e quindi si è obbligati a seguire fino in fondo le loro corruzioni e la loro solitudine. E alla fine di tutta questa parabola discendente, i servizi segreti e le mafie si riprendono quello che avevano concesso. Romanzo criminale prima fa sognare il sogno sporco dell’onnipotenza e della rivalsa armata, facendo identificare lo spettatore nei suoi protagonisti, poi mostra l’orrore delle conseguenze, e lo spettatore affonda con i suoi beniamini, che tanto beniamini non lo sono più. Le ultime sei ore di Romanzo criminale sono un incubo entropico senza scampo: in teoria, la voglia di voler essere come loro ti passa. Muoiono tutti, ma non è quello il fatto: muoiono tutti senza essersi salvati né come eroi, né come antieroi.

La tentazione, allora, sarebbe quella di dire che Romanzo criminale, nonostante le polemiche, fa del bene invece di fare del male: a nessuno verrebbe in mente di emulare gente di cui ha visto il destino schifoso o azioni di cui ha visto le conseguenze nefaste. E questo in virtù della qualità della sua messa in scena, che è verosimile, coerente, piena, matura e complessa. E si sarebbe anche tentati di sostenere che Il capo dei capi invece è pericoloso perché, nonostante il successone,  è scritto male. Perché in effetti è drammaticamente mediocre, e trasforma il boss in un personaggio tradizionale seguendo tutte le standardizzazioni narrative del caso. Umanizza Riina, ma non nel senso di mostrare l’essere umano che era, ma andando oltre: rispetta il canone narrativo per cui il protagonista, anche se malvagio, non può essere mostrato come tale per non creare dubbi a uno spettatore che vuol solo vedere una storia senza porsi domande scomode. Il problema non è che il personaggio di Riina venga rispettato (anche in Romanzo criminale c’è rispetto per gli uomini e per i personaggi), ma il fatto che venga assecondato. Gliela si mette giù comoda, si smussano le complessità e le contraddizioni. Lo spettatore si immedesima, e non deve pentirsene. Allo stesso modo, anche Vallanzasca sembra avere dei problemi con le conseguenze delle azioni che mette in scena. Concentrato esclusivamente sulla figura del criminale, è un film che elimina dal campo visivo le conseguenze della realtà, le collusioni, le sporcature. Certo, c’è la galera e ci sono gli sbirri, ma tutto è giocato intorno a un personaggio carismatico (cosa che Vallanzasca è), affascinante e comprensibile (idem), alla fin fine perdonabile (cosa che Vallanzasca non è: nel suo gioco a guardie e ladri, alla fine hanno vinto le guardie, e le regole del gioco stabilivano i quattro ergastoli che si è preso). Se davvero il discorso sulla pericolosità o meno di un prodotto narrativo del genere si valutasse sulla qualità della scrittura e sulla completezza della ricostruzione, Vallanzasca sarebbe davvero pericoloso, utilizzando il fascino legittimo del suo protagonista come arma per renderlo, se non positivo, almeno non negativo, in un sostanziale dissolvimento del confine etico.

Dal mito del brigante al mito del boss
Sarebbe molto bello se la questione fosse effettivamente così. Ma non lo è. Vallanzasca non è un film pericoloso. Non aggiunge niente a un personaggio già mitizzato per conto suo e che continuerà a esserlo senza che il film gli crei nuovi fan. Perché alla fin fine non è la qualità che allontana il rischio che i personaggi di un libro o di un film possano diventare cattivi esempi con conseguenze reali. Le opere di questo gruppo che hanno effettivamente provocato reazioni rischiose sono quelle migliori. Romanzo criminale, con la sua verosimiglianza nel dipingere le conseguenze del superomismo dei suoi capi, ha generato una specie di mitizzazione popolare che comporta, oltre alla legittima fascinazione, anche della stima, che è un po’ più inquietante.  Persino Gomorra, che nessuno potrebbe nemmeno insinuare che sia agiografico e che ha l’unica colpa di aver utilizzato elementi narrativi (e quindi personaggi passibili di immedesimazione) in una struttura saggistica, ha scatenato forme di stima e di rispetto, e di emulazione.  Saviano (e poi Garrone) possono aggiungere le notazioni più lucide e reali di squallore e di orrore camorristico (infinitamente lontano dal cliché epico-gangsteristico), mostrare in profondità la miseria morale e il deserto emotivo dei loro personaggi, ma è evidente che non è questo tipo di complessità che attira l’attenzione di una parte di pubblico. Il libro e il film Gomorra, così come film, romanzo e serie tv di Romanzo criminale, con tutta la loro qualità, la loro complessità, hanno generato stima non meno di quanto ne abbia generata Il capo dei capi. Sarà che l’Italia del XXI secolo è sfiduciata, stanca, frustrata a tal punto che il mito del criminale può far presa a priori, e anche mostrare tutto il contesto e tutte le conseguenze non riesce a scalzare il desiderio/sogno di realizzarsi a qualunque costo, al di sopra del bene e del male. Sarà anche che non è che la società italiana dia un gran buon esempio che convinca del contrario. Sarà che, in qualche modo, gli scopi da perseguire per la società legale e quella illegale sono diventati singolarmente simili: soldi, potere comprato coi soldi e senza guardare in faccia nessuno, prestigio, bella vita e sicurezza legale comprati coi soldi. È una banalità e una semplificazione, certo. Però è un po’ inquietante andare a vedere quali di questi film, romanzi e fiction abbiano generato davvero stima verso i rispettivi protagonisti: ci si accorge che c’è stato un profondo cambiamento nell’immaginario popolare, per quanto riguarda il mito del criminale. L’archetipo idealizzato del malavitoso rimane intatto da secoli, ma è cambiato il malavitoso di riferimento. Un tempo era la primula rossa, il brigante, l’outsider romantico: se non proprio un eroe, almeno un antieroe, spietato ma dotato di una sua etica (selvatica ma coerente). Stava fuori dalla società, non faceva nulla per entrarci, il suo potere era solo quello della libertà, che era il valore di riferimento su cui si costruiva la sua idealizzazione. Criminali vecchio stile, orgogliosi della loro alterità, contenti di essere criminali. Non di rado criminali gentiluomini, almeno secondo la vulgata: Vallanzasca ne è forse l’ultimo esempio. Ora, le figure che più affascinano sono quelle della camorra, della mafia, della Magliana, gente molto, ma molto più in grande stile, gente da costruire imperi parastatali e articolati: se un tempo il malvagio che più suscitava ammirazione era il brigante, ora è il boss. Vale a dire: ora è l’imprenditore. Il caso di Romanzo criminale è tipico: perché questi non sono i classici renegade, che compiono il crimine (e il male) per libertà, insofferenza, eccetera, o quanto meno non solo, ma lo compiono anche per il potere. Per primeggiare. Per essere dei vincenti: il mito dell’uomo che parte dal nulla e diventa tutto. A prescindere da quale parte del muro etico stia, l’importante è vincere e per raggiungere l’obiettivo tutto è lecito. L’etica diventa un fattore secondario, ed è questo il motivo per cui Saviano può dimostrare chirurgicamente l’orrore di un’azione e un sacco di gente manco ci farà caso. È una mentalità che unisce frustrazione e insoddisfazione, sfiducia nella validità delle regole, insieme con l’imperativo della realizzazione a qualsiasi costo. In questa mentalità piace più il boss della camorra che Vallanzasca, ma non su un piano morale, ma piuttosto perché Vallanzasca era uno scalmanato, il boss della camorra è uno che raggiunge gli obiettivi che si era posto. E soprattutto: in questa mentalità si finisce col preferire il boss della camorra al cittadino idealista, perché il cittadino idealista è uno sfigato frocetto perdente, il camorrista è un vincente. È uno che tratta da pari con lo stato e i pesci grossi, che li domina e li controlla, e in più spara, ché la pistola è sempre più comoda della burocrazia diplomatica e dei discorsi. È solo un’ipotesi. Ma se fosse vera vorrebbe dire che tutte le polemiche su film, libri, serie, dovrebbero iniziare a spostare il loro campo d’azione e passare dalle storie alla società, perché vorrebbe dire che il problema è lì.

 


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