Hiroshima, o dei confini del cinema PDF 
di Alessandra Mallamo   

Non so se si può parlare di un film e innalzarlo a paradigma di una certa idea di cinema, so per certo che Hiroshima mon amour mette in luce qualcosa che non si era ancora visto così chiaramente. Forse più che un paradigma è un film che trascende il cinema stesso, e non solo il cinema in generale, quanto quello che sopravvive in un momento storico particolarissimo per l'intera coscienza occidentale, quello che la costringe a ripensarsi dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale. Resnais è stato capace di far parlare il cinema con se stesso, mostrandocelo come un'esperienza linguistica, facendolo passare per il linguaggio letterario nelle parole di Marguerite Duras. Tutto il film ha la forma di una lunga riflessione che avanza sul limite stesso del cinema.

Una mondo frammentato
Hiroshima mon amour è un tentativo teso a riunificare ciò che è separato e che, tuttavia, sopravvive di questa separazione. Sin dalle prime scene, si manifesta una frattura che spacca letteralmente in due il film: nello spazio che essa apre scorrono parole e immagini, ciò che resta fuoricampo è il reale. Sembra paradossale quest'affermazione per un film che a tratti è un documentario (1), per il significativo contesto storico-politico e per il modo particolarissimo con cui questo contesto viene presentato. Ciò a cui assistiamo, infatti, è una vera e propria oggettivazione del cinema stesso, che finisce per conferire alle immagini una maggiore cifra di realtà: Resnais ci fa vedere le manifestazioni con immagini e striscioni e ci dice che sono comparse, vediamo Emanuelle Riva ed è lei stessa a dirci che è un'attrice. Sono proprio questi espedienti che paradossalmente confermano lo iato che il film apre tra le cose stesse e la possibilità di esprimerle; ed è questa la radice da cui l'opera trae la sua linfa: solo se lo si considera un film teoretico, che si astrae continuamente dal reale, possiamo iniziare a guardarlo come un modo di pensare la realtà ad un altro livello. Si sa, Hiroshima è un film sull'oblio e il ricordo: vuole raccontarci e farci vedere la devastazione della guerra, la morte e il dolore, la negazione e la perdita del sé. Ma, ciò che continuamente viene mostrato è la loro oscenità (2), il loro stare letteralmente al di fuori della scena, al di fuori del rappresentabile. In una tavola rotonda su Hiroshima (3), Rohmer e Godard parlano di un senso di fastidio che si prova all'inizio del film, Godard in particolare dice di un'amoralità che porta Resnais a inquadrare con gli stessi primi piani i corpi dei protagonisti e quelli dei sopravvissuti. È possibile che questo fastidio nasca principalmente da quella oscenità, l'oblio si mostra come qualcosa di più originario della semplice dimenticanza, esso testimonia che la nostra incapacità di ricordare è la nostra incapacità di vedere, il darsi della realtà e delle cose avviene proprio in questo continuo movimento di rimozione, questo continuo uscir di mente. Vi è quindi un pensiero del reale che non si dà perché pieno delle sue contraddizioni, troppo immediato per poter essere pensato; ma è proprio la trama del film che è tessuta in modo tale che i fili che si intrecciano riproducono allo stesso tempo quella incoerenza e quell'immediatezza con cui il mondo si comunica a noi: questi fili sono le parole e le immagini, che nella loro differenza e nel loro compenetrarsi esprimono massimamente tale tensione. In che rapporto stanno la parola, l'immagine e la realtà è proprio il nodo intorno a cui il film si avvolge e che perciò resta continuamente velato. È un rapporto che da subito si manifesta dialettico, la sintesi che risulta dall'incontro/scontro di testo e piani dovrebbe essere il reale, che mantenendosi della sua oscenità, fa sì che la relazione che ne deriva sia inevitabilmente binaria, irrisolta. Il tentativo fallisce, il film è un film "mancato" perché non è possibile mostrare ciò che è stato. Nel lungo dialogo iniziale lei dice continuamente: "ho visto tutto a Hiroshima" lui le risponde: "non hai visto niente a Hiroshima". Sono queste due affermazioni contraddittorie ad introdurre la triade dialettica appena menzionata, poiché è sul senso della parola vedere/comprendere che il film gioca i suoi contrasti. Resnais fa sua la lezione ejzenstejniana: l'antinomia del reale è risolta al cinema col montaggio, col compenetrarsi di linguaggi diversi, ma questa risoluzione non è mai pacifica, poiché la realtà si tiene continuamente fuoricampo. Ciò che invece salta agli occhi è che vedere e/o dire non basta: per comprendere bisogna immedesimarsi, marchiarsi, abbandonare l'innocenza.

Coscienze vulnerabili
La non-innocenza diventa l'indice del grado di coscienza che va via via manifestandosi nello svolgersi del film: vi è un'evoluzione costante della consapevolezza che noi acquistiamo sui protagonisti, che corrisponde per loro a una nuova coscienza di sé basata proprio sulla corruzione del sé. All'inizio i due ci vengono semplicemente mostrati, in maniera frammentaria e oggettiva. Ai loro corpi intrecciati e cosparsi di cenere si alternano le immagini dei documentari su Hiroshima, le donne ustionate, i bambini deformi; ogni inquadratura è indifferente e in questo senso, riprendendo Godard, è amorale. Ma questa amoralità è la neutralità, l'innocenza propria della macchina da presa: Resnais non fa altro che spingere al limite questa possibilità, evidenziandola ancora di più nel contrasto con la potenza della materia filmata. Lì dove l'innocenza è massimamente espressa, vista l'estraneità della visione ai suoi contenuti, il grado di coscienza dei protagonisti è vicino allo zero: essi non emergono ancora, lo sguardo che la macchina da presa getta su di loro li costringe all'indifferenza, i discorsi, più delle immagini - ancora troppo frammentarie -, testimoniano la presenza di un pensiero che non sa esprimersi. Tuttavia anche loro si confondono, sembrano impressioni, immagini che si sovrappongono ad altre immagini. Lo svolgersi della vicenda ci mette di fronte un uomo e una donna che non ci aspettiamo, visto che il modo con cui ci sono originariamente apparsi ha prodotto un effetto di straniamento non indifferente. All'improvviso veniamo a sapere che entrambi hanno una vita normale, un lavoro, dei figli, dei ruoli, che mettono da parte per andare incontro a uno spazio e un tempo nuovi. Il loro incontro è un momento di sospensione dal mondo e da loro stessi, la vicenda stessa resta irrisolta: non sappiamo cosa sceglierà di fare Emanuelle Riva, se tornerà a Parigi o resterà in Giappone, tutta la storia sembra quasi una parentesi, un sogno della memoria da cui ci svegliamo troppo presto. Eppure è in questo luogo surreale che una nuova forma di coscienza è possibile, un nuovo modo di essere che non si regge più sull'integrità dell'io, un modo di dire io che non sopravvive del distacco dalle cose, bensì della sua vulnerabilità.

Luoghi del pensiero al cinema
In tutta la tradizione filosofica occidentale, e più in generale nell'ambito di una ragione cosiddetta "scientifica", il soggetto viene sempre a definirsi differenziandosi rispetto a qualcos'altro e affermando su questo altro la sua supremazia. L'altro è il diverso, da cui, nonostante tutto, trae la sua determinazione. L'altro, che sia la natura o l'uomo, è vissuto come qualcosa da cui difendersi per poter continuare ad affermare il primato dell'Io. La dinamica su cui si innesta questo atteggiamento afferma continuamente una dicotomia, una separazione che va mantenuta e che garantisce la sopravvivenza della coscienza. L'io è appunto ciò che si definisce separandosi, delineandosi. È naturale conseguenza che lo statuto di verità della conoscenza sia dato dalla visione, la supremazia dello sguardo riafferma la distanza tra l'io e le cose, ma soprattutto presuppone l'innocenza di chi guarda rispetto al guardato. Ecco perché la m.d.p. è incapace di vedere, ecco perché non si può vedere niente di Hiroshima. Questa integrità è ciò di cui si sbarazzano i due amanti. I luoghi, le storie, diventano improvvisamente metafore della perdita, della frammentazione, della sospensione, ma sono anche quella parola che i due non possono pronunciare se non con la bocca dell'altro. Hiroshima non è un luogo casuale, Hiroshima non è Nevers, è un luogo limite in cui convergono ed esplodono quelle due idee del sé: da un lato un predominio della visione che si afferma nella ragione "scientifica", dall'altro una conoscenza che è come un marchio, un qualcosa che si insinua in noi lacerando i nostri confini. La ragione "scientifica" è quella che ha prodotto la bomba atomica, è propriamente quella che ha prodotto Hiroshima, ma che non sa riconoscerla se non attraverso uno sguardo cieco, una parola mozzata. La ferità è ciò che resta di Hiroshima, la pelle dei sopravvissuti si mostra lacerata dall'esplosione, non resta più niente a proteggere il corpo, che tuttavia è ancora vivo. Anche Emanuelle Riva è una sopravissuta, anche lei porta con sé una ferita che non si può rimarginare: lei, francese, durante la guerra si innamora di un soldato tedesco che alla liberazione viene ucciso; dovrà subire, oltre alla perdita dell'amato, anche il trattamento terribile che veniva riservato alle donne amanti del nemico. Nessuno lo sa, nemmeno suo marito. Solo Eiji Okada diventa custode della ferita e la riapre facendone un varco per entrare in lei. Attraverso quel taglio passano anche Hiroshima e Nevers, alla fine lui, per lei, sarà Hiroshima e lei, per lui, sarà Nevers: questo perché è solo sulla superficie aperta dal taglio che parole e immagini possono scorrere e acquistare senso. Il ricordo è tale solo se passa attraverso un corpo vivo, così come avviene nella scena chiave in cui lei guarda la mano - simbolo per eccellenza del contatto - del suo amante giapponese che dorme e subito si confonde con la mano del corpo morto del suo amante tedesco. Dopo l'esplosione non cambia solo la natura del ricordo, ma anche quella dell'oblio, poiché è il soggetto stesso a modificarsi, la soggettività non è più qualcosa di astrattamente precostituito, dove il corpo è visto soltanto come la corazza monolitica che la protegge. Il corpo non è più oggetto di uno sguardo innocente, è il luogo da cui si determina il nostro stare al mondo. È Hiroshima-Hiroshima porta alla luce questa verità, in quel luogo dove il confine si lacera si genera una nuova intelligenza e una nuova idea del cinema, che è capace di spingersi fino al suo stesso limite. Il limite che si mostra è quello che già prima ha diviso parole e immagini, ponendole in una logica binaria. Il testo non si risolve mai nell'inquadratura e viceversa: ciò sarebbe dato se in qualche modo una realtà emergesse, ma ora più che mai la ferita aperta è oscena. La ferita inguaribile, la lacerazione della pelle, è metafora di Hiroshima, di Hiroshima mon amour, e del cinema stesso: solo attraverso l'esposizione all'altro può passare una nuova consapevolezza che vede nella coscienza il luogo della contaminazione. L'io non è più rinchiuso in se stesso, ma sta al confine di sé: all'occhio sostituisce la pelle, alla sguardo il tatto, alle parole la voce.

Hiroshima "occhio-bocca", ferita aperta del cinema
Il cinema, con Hiroshima mon amour, diventa tutto intero un "occhio-bocca". Pasolini ha concepito questo termine riferendosi alla macchina da presa, ma qui sembra aderire perfettamente all'idea stessa di questo essere che vede e dice. Il film, datato 1959, viene considerato una delle prime opere cinematografiche che, dall'avvento del sonoro, affronta il problema del rapporto tra cinema e letteratura, più specificatamente tra testo e immagini. Le critiche che si sono sviluppate intorno al film, fanno spesso riferimento a questo aspetto: chi lo giudica negativamente dice che il rapporto tra il testo e l'immagine è inesistente, che non c'è coerenza; chi lo giudica positivamente parla di unione totale tra l'opera e la sua sceneggiatura. Vedendo il film si ha la sensazione che Resnais, insieme a Marguerite Duras, avesse già previsto tutto, poiché, a ben vedere, quelle considerazioni sul film sono entrambe accettabili. È nell'idea del film provocare quell'effetto di straniamento, a causa del continuo intersecarsi di due piani tra loro estranei, e, allo stesso tempo, è proprio del film confonderli continuamente. Il merito di Resnais è quello di aver portato il cinema e la letteratura lì dove essi non sono (ancora), cosi come Emanuelle Riva e Eiji Okada si incontrano lì dove essi non sono (mai stati). Lo iato aperto tra parole e immagini si allarga per fare spazio ai limiti di parole e immagini, ed è proprio su quel limite che esse si confondono. Si scopre la loro origine comune che è proprio l'incapacità di "dire" il corpo vivo, sopravvissuto all'orrore, ma comunque vivo. Spostandosi sul limite stesso di parole e immagini, il film allarga il vuoto tra di loro per fare spazio a un nuovo modo di sentire. Hiroshima è un "occhio-bocca" che non vede e non dice, spalancato per dare mostra di sé, al posto di una verità troppo nuda, troppo pulsante, troppo oscena per mostrarsi. Da Hiroshima viene fuori il cinema, Resnais c'è lo fa vedere nel film stesso, nelle scene in cui mostra la lavorazione del film a cui Emanuelle Riva partecipa, con i documentari originali effettuati dopo la catastrofe. Tuttavia c'è qualcosa di più primitivo che salta agli occhi. La pellicola si fa pelle, su di essa - cui si imprimono indelebilmente immagini e parole che diventano esse stesse una ferita come la pelle delle vittime - sembra restare "impressionata" dal calore della bomba atomica. La pellicola è semplicemente ciò che scorre sotto i nostri occhi, il cinema in Hiroshima vive esponendosi allo sguardo esterrefatto dello spettatore. Non è più quello dell'industria e della produzione, ma quello della perdita, della sospensione del tempo a cui ci sottoponiamo con la visione dei film, quello dell'oblio continuo delle immagini che una dopo l'altra si sovrappongono, quello di uno spazio nuovo che si allarga in profondità, che scava in se stesso: di fronte al dileguarsi della realtà, non può dire altro che se stesso. Cinema come messa in mostra di quella ferita, come corpo vivo su cui possono scorrere tutte le storie possibili, cinema inguaribile.

Note:
(1) Fino a questo momento Resnais aveva girato solo cortometraggi, in essi era evidente uno stile quasi documentaristico, che testimonia la sua tensione continua verso il reale. Questo aspetto della sua produzione è evidenziato in La nouvelle Vague, il cinema secondo Chabrol, Godard, Resnais, Rivette, Rohmer, Truffaut, a cura di Antoine de Braque e Charles Tesson, Minimumfax, Roma, 2004, pag. 33.
(2) L'etimologia della parola non è quella riportata dai dizionari, ma in essa si può comunque ravvisare quel ob- che indica allontanamento e la parola skené che in greco era la tenda che stava dietro al palcoscenico.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.