La visione della famiglia contemporanea nel cinema di Todd Solondz PDF 
Nicolò Barretta   

Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocchè niuna cosa è felice. Vero è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro; e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte.
(Giacomo Leopardi, Operette Morali, Milano, SuperBurclassici, 2000, p. 241.)

La funzione primaria della famiglia è quella di riprodurre la società, da un punto di vista biologico ma soprattutto da un punto di vista socio-culturale; questo secondo la definizione scientifica del termine. Al giorno d’oggi però il nucleo famigliare classico presenta una formazione diversificata rispetto al passato. Con l’ingresso del sistema societario nel nuovo millennio si è assistito ad un graduale smarrimento di valori e ideali che ha influito anche sull’istituzione classica per eccellenza. Mentre in passato il nucleo famigliare rappresentava un luogo di condivisione delle proprie esperienze, ora vi è la tendenza a pensare esclusivamente al proprio interesse personale. E questo stato di crisi valoriale in cui siamo precipitati, dimostra di conoscerlo alla perfezione anche il regista indipendente americano Todd Solondz. Il cinema del regista, nato a Newark nel New Jersey, nel 1959, da una famiglia di origine ebraica, non intende rivelare il lato oscuro del quotidiano, ma descrivere la dignità che prevale e sopravvive nei confronti delle umiliazioni esistenziali che, in maggiore o minore grado, interessano tutti noi. Secondo lo stesso cineasta, la vita reale è molto più crudele rispetto a qualsiasi cosa egli stesso abbia mai potuto immaginare . La provocazione è un elemento fondamentale, insito in ogni discorso narrativo che Solondz redige: riesce a smascherare il clima d’ipocrisia presente nei diversi poli geografici. Quello che sta a cuore a Solondz è attaccare certe convenzioni del ragionamento che l’uomo ha agglomerato in maniera assolutamente non cosciente all’interno del nostro contesto socio-culturale. Il genere a cui sono circoscritti i suoi film è quello di commedie tristi e amare. Non sempre però lo spettatore scopre l’elemento comico insito nelle sue opere, mentre altre volte c’è chi le vede come commedie senza coglierne il lato serio. Alcuni critici hanno definito lo stile del regista slapstick psicologico, ovvero l’arte di sostituire la funzione della gag comica con un tipo di gag crudele che evidenzia l’umiliazione e le sofferenze morali dei personaggi. Solondz, come il suo seguito di appassionati ben sa, si è prodigato ad illustrare all’interno della sua filmografia la desolante realtà della famiglia attuale. E lo fa fin da Fuga dalla scuola media (Welcome to The Dollhouse, 1995), rappresentando, sullo sfondo di un coacervo di umiliazioni e soprusi adolescenziali, una famiglia profondamente perbenista che annienta in modo definitivo le speranze e i sogni di una loro appartenente. Il soggetto al quale ci si riferisce è Dawn Wiener, un’ingenua ragazzina che vive in un sobborgo del New Jersey e che è costretta ogni giorno a relazionarsi con esseri meschini e opportunisti. Se ciò non bastasse sta affrontando il complesso periodo dell’adolescenza, è quindi alle prese con i patimenti e le umiliazioni che un ragazzo indifeso della sua età rischia fortemente di subire, specie se a contatto con un mondo ostile. Purtroppo però la protagonista del film non può dimenticare i suoi tormenti nemmeno all’interno del nido domestico. Infatti i coniugi Wiener si dimostrano in più circostanze insensibili nei confronti delle sue aspirazioni e del suo modo di essere e vivere la realtà odierna. La famiglia nel film è rappresentata come un luogo d’annientamento dei propri ideali in cui prevale lo spirito egoistico e dittatoriale dei genitori. Dawn cerca con tutte le sue forze di sopravvivere ai maltrattamenti fisici e morali che riceve sia a scuola che a casa. Fin dall’inizio lo spettatore è in grado di capire che Dawn è relegata al ruolo di pecora nera della famiglia, come nella sequenza in cui la ragazzina sussurra a tavola delle parolacce alla sorella (le stesse con cui i suoi compagni la apostrofano a scuola), e la sorellina astutamente pensa bene di riferirlo alla madre, la quale chiede a Dawn di farle le proprie scuse e di dire a Missy che le vuole bene; Dawn, avvertendo il clima di ipocrisia regnante nella sua famiglia, rifiuta, ottenendo la punizione di andare a letto senza cena.

A questo proposito, nella parte centrale dello sviluppo narrativo dell’opera, Solondz vi colloca una scena assolutamente rigorosa dal punto di vista tematico che permette di far riflettere sull’insensatezza dell’agire umano (in questo caso specifico quella degli adulti), e sul disagio di impotenza e frustrazione che Dawn è costretta a patire. È sera, la famiglia è riunita a tavola per consumare la cena; in occasione del loro ventesimo anniversario di nozze, i genitori chiedono a Dawn se può abbattere la casetta che ha costruito in giardino, per permettere di organizzare una festa celebrativa in grande stile. La ragazza si rifiuta testardamente, sebbene il padre le dica di obbedire per evitare conseguenze sgradevoli. Arriva il momento del dessert e Mrs. Wiener porta in tavolo un’invitante torta al cioccolato. Quando è sul punto di porgere il piatto a Dawn, la madre lo ritrae di scatto con mostruosa determinazione, così che Dawn è costretta ad assistere passivamente ai famigliari che si gustano il dolce davanti ai suoi occhi, con visibile soddisfazione. Ma la scena d’antologia del film è quella che racchiude il giorno della celebrazione dell’anniversario di nozze, che si apre con un’inquadratura ravvicinata su una a dir poco pacchiana torta d’anniversario, raffigurante i volti felici dei coniugi Wiener. Contemporaneamente la musica intona un vivace ritornello celebrativo composto e cantato dalla band di Mark (Happy Anniversary) e le persone presenti iniziano a ballare al ritmo della melodia. Tra tutte spicca Missy, in tutù, che è la vera star della festa: prima balla con un vicino di casa, poi con l’attraente Steven, suscitando così l’incontrollabile invidia di Dawn, che si sente per l’ennesima volta esclusa da un rito sociale collettivo. Ancora più pungente è la sequenza immediatamente successiva che riprende la famigliola intenta a guardare il filmato della festa e a ridere di gusto nel vedere Missy che spinge Dawn in una minuscola piscina gonfiabile. Da queste scene appena descritte si coglie in modo evidente la carica fortemente satirica e corrosiva che il regista statunitense adotta per tratteggiare un ritratto di famiglia sconsolante e senza speranze in cui prevale l’ignoranza e l’insensibilità da parte dei genitori di comprendere le sofferenze e i problemi dei propri figli. Verso l’ultimo turning point del costrutto narrativo, Dawn decide di scappare di casa per recarsi a New York a cercare la sorella. Come lo stesso Solondz ha raccontato , nella prima stesura della sceneggiatura del film, Dawn veniva violentata da un barbone, ma il regista si rese conto che rischiava di rappresentare una forma di violenza fine a se stessa e decise di sostituirla con una sequenza onirica dove l’adolescente sogna di salvare Missy dalle grinfie di un malintenzionato e di ricevere i complimenti e il tanto ricercato affetto dei suoi famigliari e dei compagni di scuola. Il sogno però viene bruscamente spezzato al risveglio. Quando Dawn chiama a casa apprende che Missy è stata ritrovata sana e salva, ma scopre anche con orrore che nessuno si è accorto della sua assenza e, nel momento in cui chiede al fratello se può parlare con la madre, si sente rispondere che è impegnata in un’intervista. È sufficiente questa lapidaria frase per far si che Dawn si renda conto che per lei non c’è più nessuna speranza di condurre una vita migliore e di essere accettata dai suoi famigliari per quello che è: non le resta che attendere passivamente ciò che il destino le riserverà.

Questo è un film che pone direttamente il pubblico di fronte all’infelicità e alla violenza psicologica nel vivere in un’istituzione che non si dimostra essere al passo con i tempi, rappresentata attraverso le armi del silenzio e dell’apatia. Non vi è il bisogno di ricorrere a facili e inutili espedienti per far presa sul pubblico. Il desiderio espresso in uno sguardo è la vera sensualità. Sebbene non scorra del sangue, il dolore che la protagonista prova a far parte di questa di questa famiglia è reale e lacerante. La foto ritoccata dei Wiener inserita in una patinata superficie, il poster di Star Trek nella camera di Mark, il coloratissimo e inadeguato completo di Dawn, la Barbie decapitata, il Macintosh di Mark, il tutù e i passi di danza di Missy, tutti questi elementi concorrono a caratterizzare la produzione di Fuga dalla scuola media come espressione massima del kitsch quotidiano del sobborgo americano, che nutre false aspettative. Il poeta e scrittore Giacomo Leopardi, nelle sue Operette Morali, affermava che l’ultima causa dell’essere non è la felicita, poiché nessuna cosa presente nel mondo è felice. Infatti esseri umani, animali, piante e tutto ciò che popola la terra è costituzionalmente e ontologicamente incapace di perdurare nella felicità, proprio perché la vita, qualsiasi forma vitale, è tensione spasmodica, brama, “amor proprio”: è sete e fame che nulla può saziare definitivamente. Essere vivi significa ardere di desiderio, e tutto ciò che a fatica possediamo è solo altra legna secca gettata su quel fuoco divorante che non rallegra e non illumina. L’uomo non ricerca la giustizia, la chiarezza o l’armonia: cerca disperatamente la sua felicità e in questa affannata rincorsa passa da una cosa all’altra, da una merce a una moda, fino a ridurre il mondo in un magazzino tanto grande quanto insufficiente. In modo particolare la società statunitense, che per prima è stata promotrice di un ideale modo di vita, attraverso il cosiddetto sogno americano, rappresenta attualmente la vita dell’io allo stato primario. Un affannato pretendere, un’ansia di serenità che, se ad ogni istante si delude, ad ogni istante si ricrea: è ciò che di meglio i poveri uomini hanno saputo inventare per rinnovare la speranza e negarsi alla verità.

È prendendo spunto da questo assunto filosofico che Todd Solondz ha innestato la profonda e accurata riflessione sulla condizione di crisi che attraversa la famiglia contemporanea. Happiness (id; 1998), il film che Solondz dirige dopo il folgorante Fuga dalla scuola media, incarna alla perfezione l’ossessione che l’uomo prova nei confronti della felicità. Il regista sceglie come punto di vista principale per indagare il disperato universo sociale la famiglia. Quella stessa famiglia che in Fuga dalla scuola media soffocava sino a distruggere le speranze di un’impotente ragazzina, e che in Happiness si rivela come il maggiore ostacolo per rilanciare il desiderio. Ancora una volta la vis satirica del regista è presente fin dal titolo, che simboleggia un ossimoro, una menzogna, una contraddizione, in quanto il film è costruito sul concetto che per l’uomo contemporaneo la speranza è scomparsa e forse mai più ritornerà. La famiglia descritta in Happiness è quella dei Jordan, legata ad una precisa identità geografica: il New Jersey. Il regista, e di riflesso lo spettatore, la vede come una medusa sotterranea, che si dissolve e si disintegra a causa di subdoli tradimenti e di torbidi segreti. I Jordan si disgregano dal nucleo primigenio, come un big bang che esplode, appaiono immediatamente come un’identità incompresa, composta da persone apparentemente normali come le tre sorelle Jordan: Helen, la maggiore, una famosa scrittrice di romanzi erotici, Trish, una perfetta casalinga borghese, sposata, con tre figli da gestire, e infine Joy, centralinista, alla ricerca del vero amore. Il patriarca dei Jordan, Lenny, all’età di 65 anni, decide di separarsi dalla moglie Mona, poiché sente la necessità di restare solo. Nel personaggio di Lenny vibra l’epica dell’attore che lo interpreta, un anziano Ben Gazzara, che aveva fatto fortuna negli anni Settanta, quando il mondo era completamente diverso rispetto a quello raffigurato nel film e dove la famiglia era una salda istituzione, portatrice cosciente di valori. L’intento di Solondz è quello di scardinare e rovesciare i valori fondanti del sogno americano, che era il punto di forza delle commedie targate Frank Capra.

Nel film la notte ha la funzione del giorno, è il periodo temporale in cui i protagonisti danno sfogo alle proprie pulsioni distruttive. I personaggi tratteggiati sono intrappolati all’interno di un universo famigliare che non appartiene loro, sono i depositari di un’arcaica cultura della felicità che affonda le proprie radici nella chimica (la cultura prozac) e nella filosofia New Age. Happiness contiene un messaggio estremo: la felicità non è riservata a tutti e le sorelle Jordan e le persone che ruotano attorno a loro non fanno eccezione, sono la necessaria riduzione di un’autentica pandemia. Secondo lo stesso Solondz, la felicità per decreto può solo generare una galleria di maschere infelici che conducono la propria esistenza ai fini di un’illusione. Happiness è una pellicola molto più trasgressiva e dolorosa rispetto a Fuga dalla scuola media, poiché non vi è spazio per pensare ad un progresso possibile, ad una miglioria. Il critico James Hoberman, denominò dalle pagine del Village Voice il cinema di Solondz "democrazia della disperazione", a sottolineare la totale atmosfera di disillusione che avvolge l’opera. Nel film appaiono diversi elementi, che possono simboleggiare gli ingredienti giusti per trascorrere una vita serena: la soleggiata Florida, sobborghi comodi e invitanti, una musica piacevole e rilassante, cene a lume di candela. Inoltre la villa della famiglia Maplewood è l’immagine tipo dell’America candida, innocente e felice, sotto la quale però si celano pulsioni criminali e distruttive, che ricorda molto da vicino le ambientazioni borghesi e apparentemente serene di Velluto Blu (Blue Velvet, 1986) di David Lynch. Solondz disarticola perfettamente tutte queste strategie per essere felice, svelando una condizione di pessimismo e insoddisfazione personale attraverso la tipizzazione dei numerosi personaggi che caratterizzano l’opera. I Jordan vivono come se non fossero vivi, hanno modellato la propria vita su un presente esclusivo che risulta essere il più triste di tutti i tempi.

Il riferimento filmico che ha ispirato il regista a realizzare Happiness è sicuramente L’ombra del dubbio (Shadow of a doubt, 1943) di Alfred Hitchcock. La vicenda ruota attorno alla figura di uno psicopatico che arriva ad una casa ideale e si insinua con la menzogna nelle vite della famiglia, creando un clima di sospetti e segreti. La famiglia di Happiness è come quella de L’ombra del dubbio, apparentemente innocente e molto americana nella sua ingenuità. Il film di Solondz procede in una direzione molto differente, ma l’ispirazione deriva dal capolavoro hitchcockiano. Il cinema del regista americano può suscitare incubi perché mostra un paese in apparente fase terminale. Solondz non ci vuole apertamente dire che nella nostra società conviviamo con rispettabili padri di famiglia che in realtà sono pedofili incalliti, con anziani in buona salute che aspirano a morire, con immigrati che rubano e ingannano, con perdenti che scaricano il risentimento in forma di suicidio o invettiva, con donne obese con la fobia del sesso che nascondono i resti di un uomo nel frigorifero, con ragazzini che pensano esclusivamente alle pratiche sessuali; quello che a Solondz sembra importante sottolineare è che tutti loro sono esseri umani. Così come noi. Happiness prolunga la riflessione sul linguaggio avviata in Fuga dalla scuola media, spostando l’attenzione al mondo degli adulti: il lessico si è arricchito e vi sono diversi fraintendimenti di significato che sono alla base della tematica principale dell’opera, la difficoltà ad instaurare relazioni e a interagire con gli altri anche all’interno della propria famiglia. C’e chi ha detto che parte del segreto della felicità risieda nella libera manifestazione delle proprie convinzioni. La famiglia Jordan non possiede convinzioni ed è qui che si concentra una buona porzione dell’origine della sua disgrazia. Quello che Solondz fa in Happiness è denunciare l’orrore in cui la civiltà moderna è precipitata, scagliandosi aspramente contro una collettività ipocrita ed egoista che sta perdendo qualsiasi valore. Quando la famiglia Maplewood apprende che quello che reputavano un patriarca valoroso e indefesso si rivela essere un mostro sociale, non ha la forza di confrontarsi e di accettare quella che è la dura realtà, in quanto ha sempre vissuto in un universo a parte, in un limbo dorato, senza mai riuscire a cogliere il lato vero dell’esistenza. Soprattutto Trish, la moglie del dottor Maplewood, oltre a non avere una personalità definita, non trova il coraggio di fare i conti con se stessa, facendo finta di non vedere la deplorevole situazione di cui la sua famiglia è vittima, ma al tempo stesso carnefice, per non essersi accorta dei gravi problemi psichici di Bill. Nella scena finale della riunione a tavola, inoltre, non si fa nessuna remora a brindare con compiacimento alla felicità, anche se dal suo volto traspare chiaramente la sensazione che il significato di quella parola è a lei oscuro e di indecifrabile interpretazione. Il film rappresenta un accorato appello alle ultime forze rimaste all’uomo per non rimanere intrappolato in una bolla caratterizzata da ignoranza e incapacità comunicativa. Il regista americano dà prova di essere in grado di fotografare l’inferno che regna sulla terra con una personale e incisiva marca stilistica, che conferisce al prodotto una propria riconoscibilità all’interno del vasto panorama indipendente. Si è soliti evidenziare che il tratto distintivo e irritante degli americani sia la costante tendenza a parlare di qualsiasi cosa. Padre e figlio, amico e amica, marito e moglie, le combinazioni sono infinite e si indirizzano tutte verso una falsa sincerità: dobbiamo essere aperti e onesti con chiunque. Solondz applica una nuova estetica a questa tradizione americana: i dialoghi in Happiness, specie quelli fra sorelle o quelli fra il Dottor Maplewood e Billy, fanno parte di una deformazione grottesca del quotidiano scambio di bugie, inclusi momenti di pura onestà come la confessione omicida che Kristina fa a Allen o quella di Bill a suo figlio.

In definitiva Solondz, con Happiness, non fa altro che scomporre dettagliatamente una determinata fascia sociale, che è in grado di perdonare anche i più intollerabili atti di violenza per il puro quieto vivere, scolpendo dei mostri contemporanei, i quali però non giudica, limitandosi a invitare le persone a rispecchiarsi dentro l’orrore del quotidiano. Nel secondo episodio di Storytelling (id; 2001) il nucleo famigliare viene rappresentato da Solondz come un rituale sociale in cui la cena, le grigliate, le discussioni paterno figliali e gli atti di carità nel nome della comunità ebraica sono considerati come echi svalutativi di quella che può apparire come una vita domestica più o meno articolata. Infatti la borghese famiglia Livingston, che è posta da Solondz al centro dell’analisi sociologica sulla realtà famigliare, concepisce il nido domestico come un luogo sacro in cui si deve trovare il tempo di discutere riguardo argomenti tradizionali come l’importanza di una formazione culturale o la tragicità dell’Olocausto, e dal quale quelli che sono ritenuti estranei alle leggi comunitarie, come la domestica sudamericana Consuelo, sono esclusi. Il patriarca Marty Livingston, riassume alla perfezione lo stereotipo dell’uomo contemporaneo: ancorato alle istituzioni sociali come il college e al benessere economico proprio e dei suoi famigliari. Quando, il primogenito, Scooby, comunica ai genitori di non essere intenzionato a frequentare il college suscita l’incontrollata ira di suo padre che arriverà a ricattarlo, minacciando di distruggere la sua collezione di cd, qualora si rifiutasse di fare il test di ammissione. Nel personaggio di Marty Livingston vi si può scorgere una sorta di insoddisfazione repressa che lo porta a trascurare i valori morali per appoggiare una filosofia di vita basata sul materialismo e sul consumismo, portandolo verso la fine del film a licenziare senza una motivazione precisa la fidata Consuelo. Come abbiamo sottolineato in precedenza gli americani non si fanno scrupoli a raccontare anche le cose meno gradevoli di sé. Mr Livingston non dimostra avere nessun timore reverenziale a rivelare davanti alla macchina da presa del documentarista Toby Oxman, di aver ricorso al beneficio economico per fare ammettere al college suo figlio Scooby, avvalendosi della banale giustificazione che al giorno d’oggi tutti ricorrono ad un aiutino per il bene dei figli. Scooby cova dentro di sé il desiderio inconscio di uccidere i propri genitori, per potere dare sfogo alle sue vere passioni e al sogno di sfondare nel mondo dello spettacolo, come si desume dalla sequenza onirica in cui immagina i suoi genitori morire bruciati vivi davanti ai suoi occhi. Paradossalmente questa sua inconscia speranza si realizzerà nel finale dell’opera quando i suoi famigliari moriranno per asfissia da gas.

Quindi Solondz descrive il nucleo famigliare come un ambiente in cui si annidano segreti, ricatti, menzogne e favori personali, dove vige una profonda condizione di ipocrisia generale. Una famiglia in cui anche i temi che rivestono una determinata importanza finiscono per essere oggetto di liti e incomprensioni. Come non ricordare a questo proposito la scena in cui la trattazione della tematica dell’Olocausto ispira una discussione accesa sul concetto di superuomo: quando Mrs Livingston afferma che tutti loro sono dei sopravvissuti, Scooby disarticola la tesi della madre, asserendo una constatazione logica quanto inammissibile: "Se non fosse stato per Hitler nessuno di noi sarebbe nato", scatenando la rabbia di Mr Livingston, che gli ordina di recarsi immediatamente nella sua stanza. In questo determinato caso ciò che provoca ironia, è che nessuno può affermare con sicurezza che quello che ha dichiarato Scooby sia falso. Questo a dimostrazione del fatto che i rapporti che si instaurano all’interno del focolare domestico sono spesso di carattere conflittuale e per alcuni versi all’insegna del reciproco tornaconto personale. Anche nella sequenza del colloquio tra il regista Toby Oxman e la famiglia Livingston al completo, si nota da parte loro una certa convenzionalità e anche una buona dose di conformismo nei ragionamenti, che tocca in alcuni momenti della conversazione punte parossistiche (come quando il piccolo Mikey rivendica il ruolo di protagonista del documentario). Quello che appare chiaro da quest’opera è che nella famiglia borghese americana vi sia insito un clima di disillusione e pessimismo, che indirizza spesso verso scelte sbagliate.

Veniamo ora a Palindromi (Palindromes, 2004), il film che è stato presentato in concorso alla Mostra di Venezia del 2004. In quest’opera si può a ragion di causa asserire che la famiglia è il fulcro narrativo del dramma. Infatti è proprio per fuggire da un ambiente borghese, perbenista e conservatore che la protagonista del film decide di percorrere un viaggio nell’America suburbana contemporanea dei soprusi, delle umiliazioni e dei dolori per ritrovare la propria identità. In questo film Solondz ci comunica che la famiglia è il luogo in cui nascono rancori, frustrazioni, incomprensioni e che portano coloro che sono indifesi, come l’adolescente Aviva, a nutrire il desiderio di diventare subito adulti e di mettere al mondo un figlio. Nel momento in cui il sogno di Aviva si realizza, la madre costringe la ragazza ad abortire contro la sua forte volontà di tenere il bambino. È impressionante la capacità di convincimento che Joyce, la mamma di Aviva, possiede per far capire alla figlia che quella dell’aborto è la soluzione migliore. Le racconta che lei stessa, quando Aviva aveva solo tre anni, rimase incinta, ma dopo varie discussioni con suo marito decise di abortire perché non potevano permettersi di mantenere due bambini. Ricorda anche alla figlia che senza quel doloroso ma necessario gesto non avrebbe potuto soddisfarla economicamente. Sebbene la signora Victor si presenti come una buona moglie, una madre progressista, liberale e antibellicista, difensore dei diritti degli omosessuali e pienamente favorevole alla libertà individuale di scelta, appena la dura realtà quotidiana s’intromette nella sua vita, scardina gli ideali in cui ha sempre creduto per potere continuare a vivere una vita tranquilla, lontana da indesiderate complicazioni. Quando, purtroppo, durante l’operazione Aviva perde la possibilità di rimanere ancora incinta, Joyce non pensa alla figlia, ma è sconvolta dal fatto che non potrà diventare nonna: questo a rivelare un tratto caratteriale estremamente egoista, che si può leggere come un sintomo ormai imperante della nostra società.

Vi sono, poi, anche quelle persone che considerano l’aborto un delitto atroce e abominevole, come la cristiana Mamma Sunshine, che ritiene profondamente ingiusto privare un bambino del dono più bello che è la vita. È per questo che ha deciso di condurre la propria esistenza al servizio del prossimo, accogliendo nella propria casa, che è raffigurata come un eden incantato e magico, tutti quei bambini rifiutati dai genitori solo perché portatori di handicap. Eppure anche Mamma Sunshine nasconde dietro una facciata di altruismo e generosità sentimenti di odio e intolleranza verso coloro che la pensano diversamente da lei. Quando confessa ad Aviva che è disposta a tutto per proteggere i suoi bambini si scorge nel suo volto un’ambiguità quasi malvagia, diretta derivazione di una cultura fondamentalista e oltranzista. Infatti, per precisa scelta dell’autore, in Palindromi non vi è demarcazione precisa e aprioristica fra bene e male, dato che chi delinea la linea del bene è spesso colui che per primo sta per commettere una violenza. Come nel caso della famiglia Sunshine mandante dell’attentato ai danni del Dottor Fleischer. Todd Solondz realizza un film che è costruito su due poli opposti: la famiglia naturale di Aviva, opprimente e abortista, e quella dei Sunshine, allargata e militante, devota all’amore cristiano, al rispetto reciproco, che in apparenza può ricordare la tipica famiglia serena e pacifica del "mulino bianco", ma che in realtà si scaglia con profondo risentimento contro le cliniche private dove si pratica l'aborto. E qui si coglie la matrice filosofica che permea l’opera, l’adolescente è chiamato a compiere una drastica scelta: vivere con persone che scelgono per lui o con altre che gli lasciano commettere liberamente i propri errori. In fondo per il cineasta tutta la vita si riconduce all’essere in grado di assumere delle posizioni, a costo di pagarne le conseguenze. Questo è il cinema di Todd Solondz: un cinema che pone interrogativi, che scruta l’uomo in tutte le sue sfaccettature, che come afferma l’autorevole critico Roger Ebert: "lo si guarda e ci guarda" , e proprio questa lucida sentenza critica ci permette di capire che l’occhio scrupoloso del regista statunitense traccia uno sguardo accattivante sulla condizione dello stato di salute della famiglia attuale, non emettendo sentenze definitive ma rivolgendosi direttamente allo spettatore, portandolo alla riflessione. E se ci pensiamo bene, riflettere su noi stessi non è altro che un’opportunità che Solondz ci dona per trovare un’improbabile ma necessaria via di uscita.

 


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