New York City Ghosts and Flowers: il cinema di Martin Scorsese e Robert De Niro PDF 
di Alberto Gallo   

Quando Martin Scorsese, italoamericano, nato nel 1942, si affacciò alla ribalta del cinema statunitense, per Hollywood stava cominciando una terza giovinezza, meno esuberante e "necessaria" delle prime due, forse, ma altrettanto urgente e innovativa. Lontani i tempi d'oro dell'epoca del muto - gli anni di Chaplin, di Keaton e di Griffith -, e irrimediabilmente datati, per i giovani degli anni '70, anche i rigidi schemi di produzione cinematografica del periodo del new deal - con il suo sistema dei generi e la sua più o meno sottile propaganda nazionalista - il cinema americano si stava addentrando in una fase di sperimentazione, di controcultura, di film low budget e di grandi stravolgimenti estetici. Anche le tematiche stavano cambiando: al posto dei western, delle commedie sofisticate, dei noir e degli american heroes, elementi che, tra gli altri, avevano contribuito a creare un epos che non ha avuto eguali, o quasi - se escludiamo la mitologia del rock che, all'incirca, si andava affermando sin dalla fine degli anni '50 - nella cultura popolare del XX secolo, gli anni '70 proponevano una serie di figure e situazioni che indagavano tra la gente comune, tra i diseredati, tra i loser (versione a stelle e strisce degli inetti pirandelliani e sveviani), tra i pazzi, i reduci di guerra e i miserabili. Ambientazioni suburbane, squallide, realistiche, ma allo stesso tempo allucinate, drogate e distorte.

Era l'epoca della guerra del Vietnam, l'epoca del definitivo tramonto del sogno americano tradizionalmente inteso - ammesso e non concesso che di tradizione si possa parlare in un paese come gli Stati Uniti -, l'epoca della recessione economica e della disillusione. Ai registi della new wave americana non servivano condottieri reazionari alla John Wayne né sorridenti divi dalla dubbia virilità alla James Stewart. Era giunta l'ora degli antieroi, degli attori dalla faccia comune, dei divi alla rovescia: chi meglio di Robert De Niro, Al Pacino, Jack Nicholson e Dustin Hoffman, solo per citarne alcuni, avrebbe potuto rappresentare la crisi morale dell'America nixoniana? È proprio in questo controverso ma stimolante clima culturale che si avvia la carriera, che per un certo periodo avrebbe viaggiato su binari paralleli, di Martin Scorsese e Robert De Niro, entrambi figli di immigrati siciliani, entrambi newyorkesi del Bronx, entrambi innamorati di quel cinema che, insieme, avrebbero contribuito a modificare radicalmente.

Quando si pensa agli otto film in cui Scorsese, nell'arco di ventidue anni, ha diretto De Niro (Mean Streets, 1973, Taxi Driver, 1976, New York, New York, 1977, Toro scatenato, 1980, Re per una notte, 1983, Quei bravi ragazzi, 1990, Cape Fear, 1991 e Casinò, 1995), il primo elemento a saltare all'occhio è la grande importanza che assume il territorio, l'ambiente in cui si svolgono le vicende di questi film, i quali, analizzati nella loro globalità, dipingono un affresco della città di New York che possiede un carattere quasi scientifico, sociologico: dalla festa spontanea di Times Square all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale, al Bronx mafioso e corrotto degli anni '50 e '60, alla decadenza metropolitana degli anni '70, la Grande Mela viene "spolpata", analizzata in tutti i suoi aspetti cruciali, positivi o negativi che siano. Scorsese e De Niro avrebbero poi continuato separatamente il loro discorso su New York, il primo seguitando a girare film sempre più eleganti e manieristi come L'età dell'innocenza, e Gangs of New York (ma anche l'allucinato Al di là della vita), il secondo esordendo alla regia con un film intitolato semplicemente, ed emblematicamente, Bronx, in cui la lezione dello stesso Scorsese è sì evidente, ma piuttosto edulcorata.

Bisogna però aggiungere, a onor del vero, che l'elemento urbano dei film in questione è spesso sottinteso, alluso, in qualche modo intrinseco alle vicende narrate: è innegabile che Travis Bickle, protagonista di Taxi Driver, non faccia altro che parlare, con lucida follia, del ribrezzo che gli provoca la sua città, nei confronti della quale, come vedremo, attuerà la sua vendetta, ed è anche vero che il musical commissionato a Scorsese nel 1977 è, nella sua interezza, un omaggio alla città da cui prende il titolo, ma è altrettanto innegabile che, molto più spesso, New York non è altro che uno sfondo, uno scenario - inquietante, crudele, alienante - per le vicende narrate, che prendono in tal modo strade autonome, non perennemente e necessariamente riconducibili al luogo in cui si svolgono. Cosa che invece accade, per esempio, in quasi tutti i film di un altro importante regista newyorkese come Woody Allen. C'è poi da dire che, tra le opere a cui lavorarono insieme Scorsese e De Niro, ben due non sono ambientate nella città in questione: Casinò, ovviamente girato a Las Vegas, e Cape Fear, remake di un omonimo film del 1962 con De Niro ad interpretare la parte che fu di Robert Mitchum.

Ad un'analisi più approfondita, quella di Scorsese e De Niro, non sembra quindi essere una filmografia interamente incentrata sulla città di New York, sebbene "la città che non dorme mai" sia un elemento fondamentale per la weltanschauung di questi film. E quando si parla di weltanschauung scorsesiana non può non risaltare immediatamente un altro aspetto di capitale importanza non solo per i film qui analizzati, ma per buona parte della produzione americana degli anni '70, da Coppola a Siegel, da Lumet a Cimino a De Palma: la violenza. Gran parte dei personaggi interpretati da De Niro (e dai partner che lo hanno via via affiancato come Joe Pesci o Harvey Keitel) sono infatti individui ignoranti, rozzi, privi di dialettica, la cui unica via di scampo in un mondo ostile è l'uso della forza bruta. Si tratti di un mafioso irlandese, di un pugile italoamericano o di un reduce del Vietnam, l'unica strada percorribile da tali fantasmi metropolitani è quella che conduce alla rissa, alla violenza, alla vendetta. In questo senso opere come Toro scatenato, Taxi Driver e Quei bravi ragazzi possono essere considerati film che parlano quasi esclusivamente di violenza, sebbene analizzata in toni e contesti differenti (in modo più prettamente estetico nel primo, più sociologico nel secondo e più ironico nel terzo).

Anche in questo caso una tematica peculiare del cinema di Scorsese e De Niro è stata poi approfondita dai due artisti separatamente. Ricordiamo, per il regista, opere come il già citato Gangs of New York e, in un certo senso, L'ultima tentazione di Cristo, e per l'attore Il padrino-Parte II, Il cacciatore e C'era una volta in America. Occorre tuttavia precisare, a questo punto, che, come per la tematica newyorkese, anche la questione della violenza non può essere elevata a caratteristica principale dei film di Scorsese e De Niro, dal momento che, nonostante l'evidente drammaticità di molte scene presenti in queste opere (come il massacro finale di Taxi Driver o gli incontri sul ring di Jake La Motta), molti altri episodi altrettanto importanti sono privi di quel carattere violento che sarà invece alla base di certo cinema moderno (Tarantino in primis). Basti pensare a certe scene dello stesso Taxi Driver, in cui la rabbia del protagonista emerge attraverso canali non violenti come la pornografia, o a New York, New York, film in cui è la musica a farla da padrone.

Cosa lega tra loro, dunque, i personaggi interpretati da De Niro nei film di Scorsese, una volta esclusi elementi pur determinanti come la violenza e il luogo in cui vivono e agiscono? L'aspetto accomunante di questi antieroi sembra essere la loro alienazione, la loro incapacità di interagire in modo "sano" e "normale" (ammesso che questi termini abbiano un senso) con la società. In altre parole la loro estraneità. Tutti, ma proprio tutti, i personaggi dei film cui si è accennato fino ad ora sono degli esclusi, degli emarginati, dei perdenti senza via di scampo. Personaggi che non riescono ad accettare la società civile - o da essa non sono accettati -, che sentono l'incessante impulso di costruirsene un'altra su misura, nella quale poter vivere secondo regole ed esigenze del tutto autonome. È così per Sam "Ace" Rothstein e James Conway, mafiosi incapaci di accettare le convenzioni di una vita borghese, è così per Travis Bickle, reduce del Vietnam che conduce un'esistenza ossessiva e depravata, o per Max Cady, vendicativo delinquente da quattro soldi, ed è così anche per Johnny Boy, attaccabrighe e irresponsabile, Jake La Motta, pugile realmente esistito il cui carattere impulsivo e violento gli fa perdere persino l'affetto dei suoi familiari, Jimmy Doyle, sassofonista jazz per il quale la musica è strumento d'evasione dalla vita reale, e Rupert Pupkin, il quale, non accettando il suo status di comico fallito, organizza un grottesco rapimento.

La totale estraneità di questi personaggi nei confronti di una vita regolare è riproposta, ancora una volta, in opere alle quali De Niro e Scorsese si dedicarono separatamente. Emblematica, in questo senso, l'interpretazione della figura di Gesù proposta dal regista in L'ultima tentazione di Cristo, film nel quale il Messia è pressoché privo di quei caratteri divini e trascendenti che la tradizione cattolica gli attribuisce, ed è presentato fondamentalmente come un uomo, un uomo incapace di relazionarsi e di adattarsi in modo passivo ad un società che ritiene fondamentalmente ingiusta.

A conclusione di queste considerazioni, e a conferma di queste teorie, le parole di Travis Bickle, newyorkese, assassino, emarginato: "Vengono fuori gli animali più strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l'altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre. State a sentire, stronzi figli di puttana, io ne ho abbastanza, ho avuto anche troppa pazienza con voi sfruttatori, ladri, drogati, assassini, vigliacchi. Ho deciso di farla finita. Ho deciso di farla finita".

 


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