Alla crudezza dell'ultimo suo film, Il pianista, Polanski sostituisce una materia articolata, appesantita da saggistica, psicologie e psicologismi, accennata da musical zuccherini: estrapola il suo film dal romanzo Oliver Twist, storia di formazione dickensiana, e nel farlo si propone di allontanarsi da quella visione giocosa che il cinema gli aveva regalato, con i suoi numerosi adattamenti. Per sua stessa ammissione, il regista entra nel testo e lo riadatta pedissequamente allo schermo, cercando di evidenziarne umori e cupezze, quel "male" diffuso come un malore sulle vicende di un orfano sfortunato con un'infanzia difficile (nella quale sembra di ravvisare quella dello stesso Polanski). In questo, Polanski riesce perfettamente, diffondendo sullo schermo esplorato una pittura di agrodolce mestizia, di sostanziale sconsolatezza: dalle scene di massa iniziali, di studiata confusione - con gli adulti pingui e aguzzini a spadroneggiare -, fino ai risvolti rocamboleschi del ragazzo che fugge in città anelando onestamente ad un respiro più ampio, ma rimanendo irrimediabilmente deluso.
La fotografia cattura e spossa insidiosamente l'occhio, cospargendosi di un nero fumo astringente, barocco, nel quale si intagliano le luci venefiche della città fagocitante, dell'aguzzino Fagin, reso pazzo ma buono, dei giovani ladri e dei "mostruosi" Billy Sikes e Nancy. Sarà quest'ultima, sacrificandosi e trovando cosi la propria redenzione, ad avere un ruolo fondamentale nello scioglimento, tanto da rendere poco credibile l'affermazione di Polanski, che afferma di voler "spogliare" i cattivi di quell'appeal ironico-erotico di altri Oliver: come se l'autore Polanski affermasse di delegare l'andamento della pellicola all'autore Charles Dickens, che tipizzava i suoi personaggi composti secondo schemi di contrasto netti, e le sue storie secondo parossismi narrativi che alternano passionalmente sfortune e atti di bontà (quello, estremo, del signor Brownlow).
Invece il cineasta ha e mantiene, seppur in tono minore, un universo iconografico alle spalle, fatto di psicologie mai certe, di tensione drammatica e risvolti orrorifici che rendono poco convinta e poco convincente l'adesione a questa storia e ai suoi moduli narrativi così "topici", così coerenti e scorrevoli. Lo stesso protagonista, il piccolo Oliver, appena tentato dal baluginante universo della microcriminalità come da un nuovo gioco, somiglia molto al burrosissimo e smunto protagonista de La fabbrica di cioccolato, con il piccolo corpo vessato offerto come profusore di bontà, innocenza, purezza, fuori e oltre il tempo. Figura di un assolutismo impacciato, estromessa da quella fotografia sempre minacciosa e vigile e dalla girandola estremamente più interessante delle sventure e delle nerastre introversioni-estroversioni del male. Un male che trascina, con i suoi adepti, e "fa" la storia, da effettivo protagonista.
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