Da Ostia a Cuba. La sezione Extra del Festival di Roma PDF 
Enrico Maria Artale   

Come ogni anno la sezione "Extra" del Festival di Roma si è caratterizzata per l’eterogeneità e l’originalità dei materiali proposti, soprattutto a livello di cinema documentario. Non è certamente un caso che nelle precedenti edizioni il curatore, Mario Sesti, abbia saputo includere con largo anticipo i documentari che si sarebbero aggiudicati in seguito il premio Oscar. Non sappiamo se sarà così anche quest’anno, ma vale senza dubbio la pena di parlare dei titoli più significativi presentati al Festival.

Innanzitutto fa piacere sottolineare la presenza di alcuni documentari italiani di grande interesse, sia da un punto di vista prettamente sociale, sia da quello di un utilizzo del linguaggio cinematografico fuori dagli schemi in cui gli standard televisivi hanno relegato gran parte della produzione documentaria italiana. Se non si può parlare di vera e propria sperimentazione, come spesso accade per lavori esteri proiettati nella stessa rassegna, almeno c’è un tentativo, riuscito, di allontanarsi da alcuni vecchi modelli. Modelli in cui, purtroppo, rientrano invece due dei lavori più attesi al festival: il film a sei mani, tutte femminili, L’Italia del nostro scontento, e il lavoro dedicato al terremoto aquilano, L’Aquila Bella me’, firmato da due giovani esordienti e prodotto, tra gli altri, da Daniele Vicari e Valerio Mastandrea. Nel primo caso si tratta di un film a tre episodi, uniformati nell’approccio ma distinti dalla tematica – l’ambiente, i giovani, la politica –, rispettivamente firmati da Francesca Muci, Elisa Fuksas, Lucrezia Le Moli. Malgrado la qualità di alcune testimonianze e un lavoro fotografico a tratti incisivo, il documentario non lascia il segno e s’inscrive in modo un po’ anonimo nell’insieme dei film di descrizione sociale, incapaci di andare a fondo dei problemi e fallimentari rispetto alla pretesa di poter offrire un quadro esaustivo di una realtà multiforme e complessa. Il livello d’indagine è superficiale e non è supportato da uno stile sufficiente a nascondere tutte le semplificazioni concettuali in vista di un impatto estetico prepotente (come accade ad esempio nell’ultimo film di Erik Gandini, Videocracy). A tratti sembra di assistere ad una trasmissione televisiva piuttosto raffinata, altrettanto moderata negli assunti e negli sviluppi, inesistente nelle conclusioni.

Discorso differente, ma per certi versi analogo, va fatto purtroppo per il lavoro aquilano. Preceduto in proiezione da un bruttissimo cortometraggio realizzato da Gianfranco Pannone con i ragazzi dell’Accademia dell’Immagine, L’Aquila bella me’ procede tristemente nella stessa insignificante direzione espressiva, per fortuna supportata da ben altra capacità di informare sui fatti aquilani. Il film firmato da due ragazzi aquilani, Pietro Pelliccione e Mauro Rubeo, fa parte di un grande e interessante progetto prodotto da Gregorio Paonessa per Vivo Film, il cui obiettivo sarebbe quello di andare a comporre un grande diario della vicenda del sisma, dai primi giorni dopo la scossa fino ai risvolti attuali. Il tutto affidato a registi aquilani. È chiaro che  per un’idea del genere va messa in conto l’assenza di lucidità, l’inesperienza, la leggerezza dei mezzi. Appare quindi giustificata la mancanza di una cura visiva, la piattezza generale delle immagini, soprattutto nella prima parte del lavoro, quando tutto il materiale è stato raccolto a caldo, a poche ore dalle devastanti scosse. Ciò che dispiace è la scarsa profondità dell’approccio: non si riesce veramente a percepire il punto di vista interno, il vissuto di chi filma, la sua contiguità umana con chi è filmato. Il rapporto con il territorio e con le persone resta giornalistico, dando l’impressione di una grande occasione perduta, l’occasione di offrire un’opera di resistenza culturale al marasma mediatico che ha stravolto i contorni di questa tragedia nazionale. Il documentario permette di farsi un quadro variegato della situazione, ma non scava, non costruisce, non emoziona. Per una persona bene informata non rappresenta un ulteriore piano di conoscenza, ma solo un apparato diaristico, materiale d’archivio che si aggiunge all’enorme quantità di materiale d’archivio esistente, senza nemmeno tentare la realizzazione di qualcosa di dirompente, e in quanto tale, inarchiviabile. Manca del tutto qualsiasi intento poetico ed espressivo, ingabbiato in un’idea documentaria fallimentare, secondo cui è possibile accendere una camera per trecento ore per ottenere una forma di verità. La costruzione non delude, e il lavoro svolto in tempi record dai due montatori Gasparini e Masi è straordinario. Al contrario, non esiste una regia, uno sguardo. Speriamo che i capitoli successivi del diario sappiano offrire qualcosa in più.

All’interno del panorama italiano due titoli si sono invece fatti notare per la forza dell’impatto visivo e narrativo, riuscendo a mettere in gioco complessità superiori, seppur in direzioni di ricerca quasi opposte. Da un lato infatti abbiamo il film di Roberto Orazi, Human Organ Traffic, dedicato al mercato nero degli organi, dall’altro il documentario di Claudio Giovannesi, Fratelli d’Italia, che racconta le storie di tre ragazzi di Ostia, immigrati di seconda generazione. Il film di Orazi ostenta un grande impiego di mezzi produttivi, simulando l’impianto di un film di spionaggio americano. L’analogia narrativa è ricercata e ben realizzata, grazie ad una grande cura della fotografia, alla bravura dell’operatore (il regista stesso) e ad un montaggio attento allo stile degli action movie americani. Ma è la regia e la parziale messa in scena ad ispirare l’andamento del film, come ad esempio accade nella scena in cui il giornalista italiano parte per l’Asia, concepita secondo una logica narrativa che guarda più a un The Bourne Ultimatum che a un servizio televisivo. Tutto questo senza inficiare l’orizzonte di indagine che attraversa molti paesi del mondo, e una stratificazione di problemi difficilmente restituibile. Se in certi momenti il sensazionalismo è fin troppo marcato e il film sembra furbescamente puntare su emozioni facili, la prossimità con alcune storie, come quella del ragazzo nepalese, la volontà del protagonista di mettersi in gioco personalmente e la sincerità disarmante di alcuni personaggi, primo tra tutti l’ex commissario di polizia israeliano, rendono il documentario intenso e appassionante. Se il modello di Human Organ Traffic erano i film americani e l’impostazione documentaristica era tipicamente anglosassone, il film di Giovannesi guarda maggiormente alla Francia, ai lavori di Nicolas Philibert e a La classe (per quanto la produzione di Fratelli d’Italia preceda l’uscita del film di Cantet). Il giovane regista italiano entra nella vita di tre ragazzi immigrati, sulla scorta di una collaborazione avviata con un’Istituto Tecnico di Ostia. Lo sguardo è da subito empatico, partecipativo, avulso da giudizi e conclusioni facili: ma se nelle prime due storie rimane qualcosa di impersonale, nonostante sia stato possibile entrare negli orizzonti più privati, nel terzo episodio dedicato a Nader, nato a Roma da genitori egiziani, la capacità di penetrare a fondo nella storia è sbalorditiva. La videocamera di Giovannesi si infila nei momenti più intimi delle complesse relazioni familiari e nei problemi universali che da queste si dipartono: l’integrazione, l’emancipazione individuale, la cultura. Sostenuto dalla verve violenta del protagonista e da una serie di figure di contorno indimenticabili, questo episodio non ha nulla da invidiare ai grandi film francesi, se non purtroppo uno stile visivo a tratti insoddisfacente, che qui però è anche condizione di possibilità del lavoro stesso. Il film ha meritatamente ricevuto una menzione speciale al Festival.

Fuori concorso sono stati presentati diversi film indipendenti, alcuni di questi ideati e sviluppati nelle precedenti edizioni del festival. Film molto diversi tra loro, come il coloratissimo Het Leven uit een Dag di Mark De Cloe, fantasiosa storia di una separazione girata quasi interamente in split screen, e The Afterlight, enigmatica opera prima di due registi americani, Alexei Kaleina, Craig Macneill, giocata sulla reiterazione e sulla fissità, sostanzialmente noiosa, salvo un paio di momenti molto suggestivi. Per quel che riguarda il concorso, invece, da sempre fiore all'occhiello della manifestazione, vale la pena soffermarsi almeno su tre titoli, i più diversi tra loro.  Il primo di questi è Garbo – The Man Who Saved The World. Si tratta di un documentario biografico, probabilmente uno dei più curiosi e raffinati che siano stati realizzati negli ultimi anni. Il regista Edmon Roch è spagnolo, ma lo stile ricorda, almeno nell’utilizzo delle interviste, l’impostazione anglosassone di stampo BBC. A parte queste, però, tutto il film è costruito grazie ad un utilizzo elegantissimo di foto e materiale di repertorio, volto a ripercorrere l’incredibile vicenda di una spia doppiogiochista capace di ricoprire un ruolo forse determinante nella Seconda Guerra Mondiale, e in particolar modo nello sbarco in Normandia. Impossibile sintetizzare ulteriormente gli episodi, narrati con un’ironia irresistibile e con un tocco stilistico in grado di sfruttare al meglio i materiali proposti, anche e soprattutto grazie ad un utilizzo del commento musicale ricco ed emozionante. Passato un po’ in sordina all’interno del Festival, questo film è probabilmente il lavoro più interessante dal punto di vista del montaggio e raggiunge nelle sequenze finali, quando commedia e malinconia si alternano in un flusso affascinante, attimi di straordinaria intensità. Per lo spettatore che ha avuto la pazienza di seguire attentamente una storia tanto complicata si tratta di un film dall’atmosfera indimenticabile. Altro film di atmosfera, con tutte le differenze del caso, è Pin2011 di Torsten Königs, originale resoconto dell’attività di un artista di strada tedesco. Un documentario basato tutto sulla scelta di uno sguardo sospeso, che si autolimita costantemente di fronte alla possibilità di emozionare a fondo, evitando ad esempio di mostrare il volto del protagonista. È interessante però l’approccio formale, le immagini, la costanza ossessiva con cui il regista segue il giovane artista fino al finale a sorpresa, frutto di un’interazione tra realtà, messa in scena e animazione che assimila al film la stessa ricerca narrativa del writer concludendo la storia in modo curioso.

A questi due si aggiunge Severe Clear di Kristian Fraga, anch’esso menzione speciale al Festival. Si tratta in questo caso di un’operazione delicatissima e radicale, perché il regista ha montato seguendo una struttura narrativa di tipo diaristico il materiale girato da un tenente dei marine impegnato in prima linea nella guerra in Iraq. Ciò che immediatamente colpisce è proprio il punto di vista assolutamente interno, la sincerità con cui il soldato espone la sua agghiacciante prospettiva sulla guerra. Il risultato è fin dalle prime battute disarmante, e il regista dimostra grande intelligenza nel non contrastare la visione dei marine giudicando dall’esterno, come pure ognuno di noi sarebbe portato a fare. Piuttosto asseconda il suo protagonista piegando verso i suoi valori tutti i mezzi espressivi del film: ne è un magnifico esempio la folgorante sequenza celebrativa dei marine, montata sulla musica di Rossini, che inquieta per la fibrillazione coinvolgente in cui fa precipitare anche spettatori dotati di robusti filtri critici. Solo raramente questa coerenza del punto di vista appare intaccata da momenti riflessivi un po’ ambigui, in cui il racconto del marine sembra incorrere in ripensamenti forzati, che quasi tradiscono l’esigenza di costruire una sorta di evoluzione del personaggio. Il più delle volte, però, l’atteggiamento rispetto al combattimento, alle vittime e ai compagni appare pienamente rispettato, anche nella sua assurdità completa. E in questo senso l’ampio utilizzo di immagini raccapriccianti non è gratuito o sensazionalista, ma per contrasto mostra piuttosto la psiche distorta dei soldati estenuati dalla situazione, l’assenza di compassione, la freddezza, l’indifferenza. Il film non cede mai in tensione e, forte di un punto d’osservazione privilegiato, è sempre nel vivo dell’azione, ripresentando situazioni che siamo abituati a vedere nei film di finzione. Ricorda certamente il recente Redacted di De Palma, anche e soprattutto per il tipo di linguaggio cinematografico, ma, al tempo stesso, è anche un documento chiave per capire quanto la padronanza dei mezzi cinematografici possa estendersi al di là della competenza professionale specifica, soprattutto se si intende il cinema documentario innanzitutto come esperienza vissuta in prima persona, come conoscenza diretta e non dovuta all’informazione, che andrebbe piuttosto relegata altrove.

E come si suol dire, dulcis in fundo, chiudiamo con il documentario vincitore del Festival, Sons of Cuba, di Andrew Lang, un giovane regista americano che studia cinema a l’Avana. Il lavoro è dedicato al mondo della boxe giovanile cubana, e segue nella fattispecie la storia di tre ragazzini di età compresa tra i dieci e i dodici anni, nonché della loro squadra, dell’allenatore, dei genitori. Il tutto sullo sfondo della vita politica cubana, nel momento peraltro delicato in cui Fidel Castro, ammalatosi, ha designato il suo sostituto al governo. Ma qualunque sintesi è riduttiva per un film che rende di fatto assolutamente superfluo e inappropriato il termine documentario. La complessità e lo spessore dei personaggi non ha nulla da invidiare ad una grande sceneggiatura, così come nei momenti più importanti si sviluppano delle vere e proprie scene madri, ad esempio l’incontro toccante tra il piccolo protagonista, promessa del pugilato locale, e il padre, campione olimpionico ridotto in povertà. I margini di intenzionalità degli eventi, di messa in scena, sono a tal punto vivificati dall’emozione che qualsiasi obiezione di principio non ha ragion d’essere. E nonostante la profondità e l’intimità dello sguardo, il regista ha saputo tenere viva l’esigenza di uno stile visivo supportato dal formato HD, con uno splendido utilizzo della camera a mano. Il montaggio concilia intelligentemente la narrazione con l’estetica, alternando sequenze in cui l’intervento in postproduzione è più concitato ed evidente, ad altre, quelle dei match soprattutto, in cui si lascia volutamente trasportare dalla situazione, riducendo al minimo i tagli. Raramente si vedono documentari sportivi in cui proprio l’essenza dello sport in quanto manifestazione competitiva trova una dimensione tanto esaustiva quanto commovente, pur lasciando le storie degli adulti sullo sfondo: il grande campione ormai dimenticato, l’allenatore che cerca un riscatto alla sua sfortunata carriera da atleta, i campioni che decidono di emigrare per diventare professionisti. E i rari ma significativi sguardi sull’orizzonte più ampio della politica sono chiamati in causa sempre secondo la prospettiva di partecipazione dei bambini, sia che questi osservino i resoconti televisivi sia che partecipino a parate o rappresentazioni della storia rivoluzionaria. Tra tutti i film documentari presentati al Festival è senz’altro quello dal più profondo respiro cinematografico, quello che, seppur in assenza di un particolare sperimentalismo linguistico, guadagna un piano di comunicazione intenso al punto da mettere in discussione qualsiasi confine netto tra cinema di finzione e cinema di realtà, confine che negli ultimi anni proprio la sezione "Extra" del Festival ha contribuito ad assottigliare.

 


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