L'etica dell'immagine nel cinema di Michael Haneke PDF 
di Livio Marchese   

In una recente performance a "Ring!", il "Festival della critica cinematografica", Francesco Casetti spezzava una lancia in favore del cinema che sanguina e che fa sanguinare. Rifacendosi a Bazin, lenzuola immacolate alla mano, lo studioso trentino constatava la superficialità con la quale si imprime oggi l'immagine cinematografica. L'effetto "sindone" è sempre più raro e il cinema che proviene dalle viscere va considerato alla stregua di una specie in via di estinzione. Rientra a pieno titolo nella categoria il corpus di opere dell'austriaco d'adozione Michael Haneke. Non a caso si è fatto riferimento all'intervento di Casetti, considerando l'importanza che il tema dell'immagine ricopre nel cinema del regista. La riflessione sulla violenza delle immagini all'interno della società dello spettacolo, sapientemente intrecciata alla riflessione sul Cinema tout court e sulla confusione fra i piani della realtà e della sua rappresentazione, si sposa a inquietudini filosofiche di ascendenza pascaliana declinate in chiave novecentesca, che si esplicano nell'ossessivo insistere sul tema della "scommessa" o del "gioco" come metafora dell'esistenza umana.

Per ragioni di sintesi si limiterà l'analisi ai due film più rappresentativi della carriera dell'austriaco, Funny Games e Benny's Video.

Bresson, innanzitutto. Non è un mistero che il regista di Un condannato a morte è fuggito sia il modello dichiarato di Haneke. Scelta già di per sé coraggiosa e in netta controtendenza rispetto alla produzione attuale, considerando lo scarso seguito che le teorie bressoniane sull'economia della forma e sulla densità dei contenuti registrano nel panorama cinematografico contemporaneo. Se poi consideriamo che Haneke non ripropone pedissequamente il modello bressoniano, ma dopo averlo assimilato e digerito, lo rielabora in maniera estremamente personale, non possiamo che rallegrarci e battere le mani. Ma torniamo a Funny games e raccontiamone in sintesi la vicenda. Una famigliola della ricca borghesia austriaca (padre, madre, figlioletto e cane) si accinge a trascorrere un tranquillo week-end (di paura, verrebbe da aggiungere…) nella casa di villeggiatura in riva al lago, ma l'idillio è devastato dall'apparizione improvvisa di due misteriosi individui che segregheranno e sevizieranno, fino alle più tragiche conseguenze, i componenti del nucleo familiare. Quello che potrebbe sembrare il banale canovaccio per un thriller, nelle mani di Haneke diventa il pretesto per una riflessione estremamente complessa e articolata che, partendo da notazioni puramente sociologiche, gradualmente finisce per abbracciare l'etica dell'immagine e la metafisica fino a delineare una rappresentazione miracolosamente coerente del dramma essenziale dell'essere umano.

Se, quindi, a un livello di lettura elementare è chiara la metafora di una classe sociale prigioniera di se stessa fino all'autodistruzione - i due aguzzini sono anch'essi dei giovanotti di buona famiglia -, addentrandosi ad un livello più sotterraneo si scopre come le ambizioni di Haneke siano in realtà ben più elevate. Ciò non esclude la legittimità di una lettura sia pur parziale come quella che privilegia l'aspetto sociologico della vicenda. In fondo il film entra in un buco nero proprio durante il primo dei due interminabili piani-sequenza che marchiano a fuoco i momenti cruciali della pellicola. Mentre Anna (la madre) è in cucina, intenta a preparare il pranzo, improvvisamente si ritrova davanti Tom, venuto a chiederle in prestito delle uova per conto della vicina di casa. Significativo il fatto che poco prima Anna aveva notato che l'orologio appeso alla parete si era fermato (più in là si dirà perché). Con un lungo piano-sequenza, durante il quale Tom muovendosi maldestramente nella stretta cucina continua a rompere le uova che Anna con affettata cortesia si premura a porgergli, Haneke comunica allo spettatore la precarietà e la falsità delle relazioni e delle convenzioni sociali e allo stesso tempo riesce a trasmettergli un fastidioso senso di disagio che lo prepara al precipitare degli eventi che si verificherà di lì a poco, quando lui stesso sarà tirato in ballo da uno dei personaggi. Per cui in fin dei conti la macchina narrativa si mette in moto quasi come dimostrazione di un teorema (pasoliniano): prendiamo due personaggi della buona società, due estranei, caliamoli in una situazione che per una quisquilia (in questo caso l'imbranataggine di uno dei due) diventa sempre più paradossale e registriamo cosa accade quando quell'equilibrio precario viene rotto. Accade che il velo di Maya dell'ipocrisia si squarcia e l'orrore mostra il suo vero volto.

Di coinvolgimento degli spettatori si parlava poc'anzi. Sì, perché quando Paul entra in scena e provoca apertamente Anna e George fino a colpire violentemente quest'ultimo con una mazza da golf, egli propone alle sue vittime una scommessa ("Scommettiamo che fra dodici ore sarete morti?") e, guardando in macchina, rivolge la stessa domanda agli spettatori, accusandoli di essere dalla parte delle vittime. Salvo poi anticipare che in realtà la scommessa è già persa in partenza, perché Anna, George e il loro figlioletto verranno comunque uccisi. Da allora in poi essi saranno in completa balia del sadismo dei due aguzzini, che si divertiranno a sottoporli alle crudeltà più efferate. Quando Tom, costantemente affamato, fa cadere a terra le ultime uova rimaste, allora intuiamo che siamo arrivati al punto di non-ritorno. Difatti, di lì a poco, con cinismo inaudito, Haneke fa in modo che l'immagine del tuorlo spalmato sul pavimento venga richiamata alla mente per analogia da quella dello schermo televisivo sul quale scorre il sangue del bambino, fucilato (ma lo sparo, bressonianamente, resta fuori campo) dopo un tentativo di fuga. L'immagine agghiacciante del televisore (in onda è un gran premio di Formula Uno) inzaccherato di sangue, è una delle immagini più forti e allo stesso tempo più esplicite del cinema dell'austriaco.

Quello che era stato il tema dominante di Benny's Video (lo vedremo tra poco) si inserisce abilmente anche nel textus narrativo di Funny games. È chiaro a questo punto che quando Paul si rivolge al pubblico chiamandolo in causa ("Noi vogliamo offrire qualcosa al pubblico…Siamo ancora in onda. Non ne avete abbastanza? Volete un finale autentico?"), Haneke sta combattendo una battaglia contro lo spettatore adoperando le sue stesse armi, ovvero quel cinismo sconvolgente che fa desiderare al pubblico televisivo la visione degli orrori più indescrivibili. O come quando, poco prima, alla domanda di Anna: "Perché non ci uccidete subito?", Paul risponde: "Non dimentichi il valore dell'intrattenimento. Così nessuno si divertirebbe più". È qui che Haneke rischia di più, ma allo stesso tempo è in situazioni del genere che mostra la sua grandezza, visto che pur combattendo il cinismo con il cinismo, il rigore stilistico e la disperata fiducia nel valore etico dell'immagine, in una società nella quale lo spettacolo l'ha, di fatto, soppresso, fanno sì che scene simili nel suo cinema risultino sempre congelate e smorzate, proprio per evitare un eventuale compiacimento da parte dello spettatore. Per intenderci, siamo lontani anni luce dall'estetica pulp. Laddove Tarantino o Stone avrebbero utilizzato un montaggio vertiginoso, oppure avrebbero indugiato con autocompiacimento sugli effetti splatter, Haneke utilizza un piano-sequenza di dieci minuti, per buona parte a macchina fissa, nel quale lo stesso movimento interno all'inquadratura è assente. Ciò scongiura ogni pruderie sado-voyeuristica da parte dello spettatore, spingendolo invece a interrogarsi e a riflettere su quanto accaduto. Ma ad Haneke piace complicare le cose e non contento di avere gettato già tanta carne al fuoco riesce a fare volare il film ancora più in alto, allorché Paul, volgendosi alla coppia di coniugi, dice: "Il vento soffia dove vuole. Anche voi avete bisogno di una possibilità. È per questo che è divertente andare in barca a vela".

 

Bresson, ancora lui. Perché queste che potrebbero sembrare parole sibilline risultano in realtà chiare a chi abbia una certa dimestichezza con il regista francese. "Il vento soffia dove vuole" avrebbe dovuto essere il titolo di Un condannato a morte è fuggito, poi retrocesso a sottotitolo. È tratto dal discorso di Cristo a Nicodemo (capitolo 3 del Vangelo secondo Giovanni) e allude, evidentemente, al vento dello Spirito, alla Grazia. A questo punto è chiaro che Haneke combatte una battaglia su più fronti. Oltre allo spettatore, ad essere chiamato in causa è anche Bresson, tant'è vero che Funny Games, per certi versi, può essere considerato quasi come la perfetta antitesi di Un condannato a morte è fuggito. Entrambi i registi concepiscono l'esistenza umana come una prigione dove il libero arbitrio di ciascuno si scontra con il Destino o il Caso (71 frammenti di una cronologia del caso è il titolo di un altro notevole lavoro di Haneke), ma mentre Bresson, all'epoca del film di cui stiamo parlando, credeva ancora che all'uomo fosse data una possibilità di salvezza sottoforma dell'intervento di una volontà superiore e imperscrutabile (la Grazia, la divina Provvidenza), Haneke non crede a nulla e fa sì che i suoi personaggi siano come dei burattini in balia di un'entità superiore bicefala (Tom e Paul), malvagia e indifferente alle suppliche delle proprie vittime. La pascaliana "scommessa su Dio" si dimostra un gioco inutile, perfido e crudele come quello del gatto col topo (Paul chiede ad Anna di recitare una preghiera per farsi aiutare dal buon Dio e aggiunge che se la reciterà correttamente potrà scegliere di che morte morire!). Ma il culmine della crudeltà Haneke lo raggiunge di lì a poco, quando Anna, approfittando di un momento di distrazione di Paul, si appropria del fucile e spara (sempre fuori campo) a Tom. A quel punto, inaspettatamente, Paul afferra il telecomando e riavvolge letteralmente il film che stiamo guardando, riportandolo indietro fino a un attimo prima della sua distrazione, in modo da poter intervenire, bloccare Anna e spazzare via definitivamente ogni speranza di salvezza dall'orizzonte dei due coniugi ma anche degli spettatori. La conclusione del film è il corollario del teorema enunciato all'inizio. Anna, legata ed imbavagliata, verrà gettata nella acque del lago dalla barca a vela (si ricordi cosa aveva detto l'aguzzino a tale proposito) e Tom e Paul sono pronti per ricominciare daccapo il "gioco" con una famiglia diversa, ma, immaginiamo, identica per sorte, alla precedente. Ma prima c'è ancora il tempo per un dialogo straniante fra i due riguardo la falsità della realtà e la realtà della finzione: nella società dello spettacolo ciò che conta è quello che appare sullo schermo. Quando Haneke giunge a queste conclusioni è già forte dell'esperienza di Benny's Video (1992), che non esiterei a definire come uno dei film più importanti del decennio appena trascorso.

Benny's Video si apre con un prologo che precede i titoli di testa ed è già una dichiarazione d'intenti, inaugurando in tal modo una tendenza che nei film successivi diventerà stile. Altra caratteristica del prologo, poi anch'essa ripresa in altri film del regista - vedi l'ultimo Caché - è quella di confondere lo spettatore facendogli credere che ciò a cui sta assistendo è già il film, mentre in realtà si tratta di un film nel film. Le prime immagini sono difatti quelle di un video girato dal protagonista, Benny, che mostra il padre insieme a dei contadini mentre uccidono un maiale con una pistola tubiforme. È una scena molto forte, al limite dell'insostenibilità, ed è, come si è già detto, una dichiarazione di intenti. Il tema chiave di Benny's Video è proprio quello dello stupro mentale che operano le immagini nella società dello spettacolo. Benny è un adolescente di buona famiglia. Svolge una vita apparentemente normale, simile a quella di molti suoi coetanei. In realtà i contatti che Benny riesce a stabilire col mondo esterno sono sempre filtrati da un videoschermo. I genitori gli hanno regalato un'apparecchiatura che consente di riprendere quello che accade fuori dalla finestra della sua stanza e quando non è impegnato in questa attività voyeuristica, Benny trascorre buona parte del suo tempo davanti al televisore a fissare con sguardo inespressivo gli horror più cruenti. Quando invita nella sua stanza una ragazzina conosciuta in un videonoleggio, non esita a mostrarle il video del maiale e la pistola tubiforme che ha sottratto ai contadini. Da lì all'omicidio il passo è breve. Si tratta ancora una volta di una delle scene cruciali che gettano luce su tutto il cinema di Haneke. La mdp, immobile, riprende una porzione della stanza di Benny nella quale non accade nulla di rilevante, ma anche lo schermo della telecamera che invece è orientata sul delitto. Mi pare sia una scelta di regia assolutamente significativa e notevole.

Soffermiamo adesso l'attenzione sulla scena del delitto. Benny uccide la ragazzina, ma è un caso (e sottolineo la parola Caso) che le cose siano andate così, perché avrebbe potuto essere il contrario, dal momento che la vittima sembra talmente assuefatta ad ogni forma di violenza dalle immagini che le impone la società dello spettacolo che avrebbe potuto essere lei a premere il grilletto. Quando Benny le mostra il video del maiale, ciò che la ragazzina nota non è l'atrocità della scena o le urla strazianti del maiale, ma il fatto che nevica. Oppure ancora, alla vista della pistola, il suo commento è: "Fico!". Benny non è da meno quando, commentando il video, dice: "Era solo un maiale. In tv ho visto i trucchi che usano per gli effetti speciali. È solo ketchup e plastica!". In Benny's Video c'è un'altra immagine forte ed esplicita al pari dello schermo televisivo insanguinato di Funny Games. Dopo aver trascinato il corpo inerte della ragazzina per la stanza, Benny con un lenzuolo asciuga il sangue della vittima sul pavimento. Quando lo riappende al suo posto, dopo averlo lavato, esso non ne reca più alcuna traccia: è come uno schermo televisivo sul quale scorrono gli orrori più inenarrabili senza lasciare impronta. Si ricordino a questo proposito le parole di Casetti citate in apertura. Le immagini nella società dello spettacolo scorrono senza lasciare traccia. Ma solo apparentemente, perché l'eredità che lasciano è ben più grave e si risolve in una vera e propria violenza esercitata sulla mente di chi le guarda. Ecco la morte dell'etica dell'immagine, e non a caso più volte nel corso della pellicola lo sguardo di Benny si sofferma sull'accozzaglia di quadri appesi l'uno accanto all'altro, senza alcun criterio, sulla parete del soggiorno.

Benny's Video è, quindi, un film sull'orrore. L'orrore della televisione e della società dello spettacolo (Haneke insiste, e lo farà anche in altri film, nel mostrarci telegiornali con cronache di guerra, di attentati o di guerriglia urbana), l'orrore del denaro, tant'è vero che i primi dieci minuti della pellicola sono quasi esclusivamente incentrati sul flusso del denaro da una tasca all'altra (siamo ancora una volta dalle parti di Bresson, L'argent, ma anche Pickpocket) e per finire l'orrore del microcosmo familiare, ovvero l'orrore che si cela dietro la rispettabilità borghese. Perché ciò che più sconvolge nel film è la reazione dei genitori di Benny quando assistono al video dell'omicidio. Se il padre era stato capace di rimproverarlo aspramente per un semplice taglio di capelli, in questo caso la sua unica preoccupazione è quella di trovare un modo per sbarazzarsi del cadavere. Deciso: mentre la moglie e Benny andranno in vacanza per una settimana in Egitto, lui resterà a casa, affetterà in minuscoli pezzettini il cadavere e lo farà passare dallo scarico del bagno. Credo non ci sia bisogno di commenti. Se non che, ovviamente, tutto questo Haneke non lo mostra. Riprende invece la settimana egiziana di Benny e della madre. E ancora una volta mi pare che il regista abbia compiuto una scelta importante. Durante il viaggio, e il segmento dura circa una ventina di minuti, non accade nulla di significativo, perché ancora una volta è il fuori campo a calamitare l'attenzione dello spettatore (la casa, dove il padre si suppone sia impegnato nella sua macabra operazione). Il film si conclude con l'arresto dei genitori, denunciati da Benny che come prova mostra alla polizia un video nel quale aveva ripreso segretamente la conversazione (ancora una volta fuori campo) su come sbarazzarsi del cadavere. Ma non sappiamo se la decisione di Benny derivi da un suo reale pentimento o se sia uno dei tanti atti dovuti a quell'atteggiamento di indifferenza e di cinismo che è solito mostrare nei confronti del resto del mondo.

L'ultima immagine della pellicola, sulla quale scorrono i titoli di coda, mostra uno schermo vuoto e per ambiguità sembra anticipare quella dell'ultimo Caché. Cosa può rappresentare uno schermo vuoto? L'angoscia dell'esistenza? (Si ricordi la scena in cui Benny rovistando nei cassetti di casa trova delle scatole cinesi e resta perplesso quando apre l'ultima di esse e la trova vuota). Oppure un ravvedimento di Benny, dal momento che per la prima volta nel corso della pellicola su di un videoschermo non corre l'orrore?

 


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