I sapori indiani vanno di moda: nella cucina, nell'arredamento e, ovviamente, al cinema. Così va di moda Mira Nair, regista indiana rivelatasi qualche hanno fa con Salaam Bombay e Mississipi Masala, e autrice del modesto Kamasutra e del sopravvalutato Monsoon Wedding, che pure le aveva fatto vincere un contestato Leone d'Oro a Venezia. Ma perché Mira Nair ha deciso di confrontarsi con La fiera della vanità, riduzione del romanzo ottocentesco di William Makepeace Thackeray? E cosa resta dei sapori indiani nel suo ultimo film?
La fiera della vanità è la storia di Becky Sharp, giovane di modeste origini che, cominciando come precettrice in famiglie nobili, riuscirà a salire di rango, non senza difficoltà economiche e sociali. Becky sceglie infatti di sposare un nobile squattrinato, sfidando la famiglia di lui che non la accetta perché non è una pari grado; per liberarsi dai debiti accetterà l'aiuto di un nobile, ovviamente non disinteressato. I personaggi si muovono sullo sfondo delle guerre napoleoniche e della battaglia di Waterloo.
Cosa può aver attratto dunque la Nair in una storia come questa? "Sharp" in inglese significa acuto, penetrante, e Becky è proprio così. È naturale che attiri le simpatie di una regista femminista, che ha sempre narrato storie di eroine in lotta per affermare se stesse. Becky insegue l'affermazione a livello sociale, ma anche l'amore, come la protagonista di Mississipi Masala, la quale sfida le differenze razziali, e come la cortigiana di Kamasutra, che ruba il re alla principessa a lui promessa, oppure ancora come la sposa di Monsoon Wedding, che si oppone alle nozze combinate per scegliere il sentimento. Proprio grazie alla sua intelligenza, al suo sex appeal, all'energia che sprigiona e alla sua cultura. La fiera della vanità allora può essere vista in chiave moderna, come trattato sull'importanza dell'emancipazione femminile, che, se in occidente è attuata, nella cultura da cui proviene la Nair si trova in una situazione ancora d'altri tempi. È un tema molto sentito dalle artiste indiane: lo ha riproposto anche Gurinder Chadha, prima in chiave sportiva con Sognando Beckham, poi proprio reinterpretando (ma in chiave moderna e Bollywood) un altro classico dell'Ottocento, Orgoglio e pregiudizio. Ma tale motivo potrebbe rappresentare anche la lotta del talento per affermarsi contro le convenzioni, della forza vitale per vincere contro le posizioni acquisite.
Sono interessanti anche i percorsi che portano alcuni attori su sentieri già battuti nella loro carriera: se Reese Whiterspoon aveva già dovuto lottare con i pregiudizi ne La rivincita delle bionde, Jonathan Rhys-Meyers, che qui è l'ufficiale che sposa Amelia, l'amica di Becky, è bello, sfrontato e vanesio come la rockstar che interpretava in Velvet Goldmine. E Gabriel Byrne, che finisce per diventare il diabolico deus ex machina della vicenda, aveva già interpretato un ruolo in cui era un affascinante e subdolo tentatore, il Diavolo, in Giorni contati.
La Nair, che fino a questo momento nei suoi film aveva dimostrato un'efficace forza visiva, ma non sempre eguale capacità narrativa, resta imbrigliata dal classico ottocentesco: il film risulta noioso, freddo, opta per soluzioni affrettate e schematiche, riduce alcuni personaggi a pure macchiette, anche se gli attori che li interpretano si chiamano Bob Hoskins e Jim Broadbent. Il romanzo di Thackeray portato sullo schermo non si distingue così da una delle tante fiction che si vedono sui nostri piccoli schermi, come Elisa di Rivombrosa o Orgoglio. Se pensiamo che dalle pagine di Thackeray è stato tratto anche Barry Lyndon, non possiamo che dolerci dell'occasione sprecata, seppur piena di buone intenzioni, della Nair.
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