Una parte centrale più o meno accattivante. Animandosi di uno slancio di benevolenza critica, potrebbe essere questo il commento che “a caldo” genera la visione di A Royal Weekend di Roger Michell. Una pellicola per lo più mediocre, che in alcuni tratti si avvicina al discreto, ma che indubbiamente non sfiora nemmeno minimamente l’eccellente. Era stato presentato come il sequel de Il discorso del Re. Nulla di più fuorviante; non è certo sufficiente “adottare” lo stesso personaggio, con le medesime caratteristiche di toccante umanità, per ammaliare il pubblico nella visione di un film. Il cinema è ben altro: recitazione certo, ma anche ritmo narrativo, studio delle inquadrature, giusta scelta della luce.
Michell ha scelto la voce fuori campo, da sempre elemento capace di arricchire, ma che in questo caso, più che un quid, diventa una sostituzione della narrativa filmica, che va a colmare la mancanza, i buchi visivi. E anche in questo caso ha difettato. Benché la frase finale (“in un’epoca in cui il mondo permetteva ancora a sé stesso di avere dei segreti…”) sia di decisivo impatto, non è bastata a colmare la banalità con la quale la narrazione si sviluppa lungo i 90 minuti del film. Anche la lentezza delle immagini e, conseguentemente, dei movimenti dei protagonisti (evidente scelta registica) si amalgama con la defezione narrativa. Siamo nel giugno del 1939, il Presidente americano Franklin Roosevelt (interpretato da un ottimo Bill Murray) e la moglie Eleanor (Olivia Williams) ospitano nella loro residenza di Hyde Park la Regina Elisabetta (Olivia Colman) e il marito Giorgio VI (Samuel West), i primi regnanti d'Inghilterra in visita ufficiale negli Stati Uniti. L’obiettivo della visita è la ricerca di un alleato per scendere in guerra contro la Germania nazista. Un innesto storico che finisce con l’avere una rilevanza marginale. Durante la visita ufficiale, infatti, emerge quanto gli affari di Stato non cambino l’umanità di un Presidente, né tanto meno dei regnanti. Lo si evince dal rapporto tra la Regina e il marito, controverso, colmo di formalità, anche nel privato. Ma anche da come il Presidente Roosevelt vive la sua intimità: una madre invadente e un sentimentalismo disordinato. È così che gli affari di Stato si mescolano inevitabilmente con gli affari di cuore, quando tra Roosevelt e Daisy Suckley (Laura Linney), sua lontana parente e vicina di residenza, nasce un tenero legame.
Nonostante ciò, la parte più interessante della pellicola è quella centrale, nel famoso colloquio tra il Presidente e il Re, intenti nel prendere decisioni che cambieranno il corso della Storia. Scelte prese da uomini, che tuttavia sono in balia delle proprie donne, decisamente meno “difettose” di loro (il Re balbuziente, il Presidente con difficoltà motorie). Entrambi gli attori (Bill Murray in particolare) dimostrano una certa padronanza davanti alla macchina da presa. E anche la narrazione diventa più accattivante. Ma non è sufficiente a colmare le altre “defezioni”. Come quella della fotografia, che fin dai primi fotogrammi balza all’occhio: anonima, è forse l’etichetta più appropriata, che in alcuni tratti rende difficile anche distinguere tra i colori. E questo a dispetto di ambientazioni di particolare bellezza, centrate, capaci di accompagnare anche la scelta di inquadrature che, in alcuni tratti, non hanno deluso, come nel momento in cui la famiglia reale fa il suo ingresso nel “regno” del Presidente. Insomma un’occasione sprecata per Michell, che ha avuto l’opportunità, sprecandola, di dimostrare come la Storia e l’umano possano fondersi senza banalità.
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