L’uomo senza passato PDF 
di Mauro Brondi   

Leggendo i maestri e i miti citati in occasione dell'ultimo film di Aki Kaurismäki si direbbe che quello del regista finlandese sia tutto tranne che un cinema senza passato. Chaplin e Keaton, Capra e Bresson, De Sica, Zavattini, Fassbinder, M di Fritz Lang, L'uomo invisibile, Forrest Gump, Frankenstein, e poi film come Il grande Lebowski, Memento, L'uomo che amava le donne: questi i nomi letti in diversi articoli sparsi qua e là per il web.
Tutto vero si potrebbe dire, ma forse non proprio tutto.

L'uomo senza passato sembra più che altro un film autarchico, un film cioè che vive di vita propria, distante da tutto, così come il suo autore.
Non è che si vogliano negare delle affinità con registi che Kaurismaki stesso dice di amare, ma in effetti, l'impressione che si ha vedendo il film è quella di un cinema che se ne frega di tutto e di tutti, con grande ironia e disinvoltura.

E non si vuole negare nemmeno una certa "resistenza" e fiducia nell'essere umano che esiste nelle più nascoste profondità dei più incalliti pessimisti, ma aldilà del favolismo cieco alla Tornabuoni (sa fare…film di alto stile, divertenti, colmi di fiducia negli esseri umani e nella loro capacità di resistenza. Bravissimo. La Stampa, 7/12/2002), Kaurismäki è solo e, probabilmente, si trova nella situazione di non potersi nemmeno ancorare a tutti quei miti sopra citati.

Il tempo de L'uomo senza passato è lineare, scorrevole, senza flashback, coerentemente impossibili vista la totale assenza di ricordi di un personaggio che dopo sessanta secondi di film viene colpito alla nuca da alcuni balordi diventando così il protagonista del film.

Ed è qui la vera genialità di Kaurismäki, il suo andare quasi inconsciamente e incoscientemente controcorrente: il regista inventa un protagonista annientandolo, cancellando le sue memorie, le sue passioni, il suo dramma. L'esatto opposto rispetto alla sceneggiatura di ferro all'americana che predilige eroi forti, motivati, con una meta e un preciso obiettivo drammatico. C'è inoltre una distanza notevole rispetto a film di recente produzione americana e/o di area anglosassone come Memento o Spider, perché se i primi intendono mettere in scena un soggetto (il protagonista) indebolito e confuso alla ricerca delle proprie orme, Kaurismäki mette in scena un soggetto potenzialemnte forte (e di fatto per nulla indebolito, egli stesso si raddrizza il naso con una resistenza al dolore da film di fantascienza) che riparte da zero in un mondo popolato da personaggi arresisi al proprio destino. Tutto ciò che sta intorno è folle: non il soggetto o il protagonista in sé, ma tutta una società che si viene a costruire intorno. Ed anche in questa nemmeno-troppo-sottile polemica sta il pessimismo e la gioiosa diperazione di Kaurismäki.

Il regista non condivide pressoché nulla con il finto realismo (teatrale) della commedia popolare alla francese perchè la sua messa in scena è troppo volutamente finta e costruita contro qualsiasi forma di spontaneità artistica. Gli attori impostati, brechtiani (mito che si aggiunge alla lista), unitamente alla costruzione del quadro e ad un montaggio "statico" non permettono alcuna possibilità di immedesimazione: tutto è esterno allo spettatore, e tutto è esterno ai personaggi in un mondo che paradossalmente, anche se ridicolo e ridicolizzato, diventa reale e pesante. L'amore trovato come per la prima volta dall'uomo senza passato è sì una speranza e una promessa (e una fortuna), ma è anche un misero porticciolo dove l'essere umano si rifugia contro una società ben più grande ma sorda, vuota e sterile (altro che "film divertente e fiducioso negli esseri umani…").

Tempo lineare, recitazione da soprammobile (con i soli occhi degli attori che parlano), montaggio fatto, si potrebbe dire, di quadri-sequenza, cioè inquadrature che contengono al loro interno tutta una unità drammatica conclusa: opera interessante e coraggiosa che però non ci fa gridare al miracolo o al capolavoro; tranne la splendida fotografia di Timo Salminen, collaboratore storico del regista, che attraverso la brillantezza ci comunica che, in fondo, una bellezza del mondo esiste, e quindi una bellezza del cinema.

 


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