Lo Hobbit: serialità e bulimia del Signor Jackson PDF 
Maurizio Ermisino   

Il cinema hollywoodiano oggi è per sua natura seriale. Tolkien, a suo modo, è stato uno scrittore seriale. Ergo, Tolkien è perfetto per il cinema hollywoodiano (seppur Made in Nuova Zelanda) di oggi. Si capisce allora che il ritorno sul grande schermo dell’universo creato molti anni fa da Tolkien sia un affare per tutti. Un affare economico, visti i successi della trilogia tratta da Il Signore degli Anelli, per chi produce e distribuisce (Hollywood ha tentato, a volte con un qualche successo, a volte invano, di trovare surrogati all’altezza della saga tolkeniana in questi anni d’assenza dal grande schermo). Un affare probabilmente di cuore per Peter Jackson che, come si vede dalle prime scene di Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, è rimasto sicuramente legato ai suoi personaggi e a quel mondo. Ma Jackson che rapporto ha con la serialità? Non sembra essere un aspetto fondamentale per lui, se togliamo l’affare Tolkien. Nel resto della sua carriera ha sempre ragionato per progetti unici, anche se in alcuni casi, come in King Kong, ha denotato una certa prolissità e una certa mancanza di sintesi. E che quindi, in un racconto spalmato su più film, può trovare spazio per la sua narrazione “extra large”.

Lo Hobbit è un’opera che Tolkien aveva scritto prima de Il Signore degli Anelli: è un libro più breve, e anche più semplice. E se la trilogia, e quindi la serialità, è sembrata da subito la soluzione naturale - e anche l’unica possibile - per la trasposizione in immagini de Il Signore degli Anelli, che è composto da tre lunghi libri (ma magari, se fosse finito in mano ai produttori di Harry Potter o di Twilight, Il ritorno del Re sarebbe stato sdoppiato in due film…), vedere Lo Hobbit diventare prima un doppio film, e poi addirittura una trilogia, lascia un po’ sorpresi. Come scrive Marianna Cappi su MyMovies, “se ne Il Signore degli Anelli il materiale per una trilogia c'era tutto - tanto che persino il romanzo era stato diviso in tre volumi prima di riconquistare l'unità voluta dal suo autore - nel caso de Lo Hobbit non si può dire lo stesso. Più breve, leggero e non ancora carico di quell'epica e di quello straordinario lavoro sulla lingua e sul mondo che è la cifra della produzione a venire, Lo Hobbit, per soddisfare la misura scelta dei (prima due e poi) tre lungometraggi, ha richiesto un lavoro di sceneggiatura inedito, che, per i non filologi, non è di per sé una cattiva notizia”. Il lavoro di sceneggiatura è consistito in questo: prendere spunti non solo dal libro in sé, ma da altre fonti tolkeniane, come l’appendice de Il Signore degli Anelli, e altri scritti dove ci sono retroscena e altri personaggi. In questo modo da un libro di trecento pagine si è arrivati a tre film. Ed è in base a questa spiegazione che Jackson parla di una decisione creativa e non commerciale. C’è da credergli, sapendo come ama il cinema e le sue creature. Ma certo anche chi avrà curato l’aspetto commerciale avrà sorriso all’idea.

Ed è proprio questo amore per le sue storie e per i suoi personaggi che in alcuni casi ha portato Jackson a una sorta di bulimia narrativa. Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, come King Kong, soffre della tendenza di Jackson a voler infilare nei suoi film troppe storie, troppi personaggi, troppe situazioni, a volersi dilungare a dismisura su certe scene, come un bambino che non vuole smettere di giocare con i suoi giocattoli preferiti. Perché il cinema non è un luogo dove il “di più” è sinonimo di “meglio”. Anzi, trovare la giusta misura è sempre necessario. Come scrive sempre Marianna Cappi, “Jackson lotta invano per portare Lo Hobbit al regime di grandeur de Il Signore degli Anelli senza possedere gli strumenti di base per farlo, vale a dire un racconto altrettanto complesso e dei personaggi adatti”. In questo modo, tutta la prima parte del film, con la festa dei nani a casa Baggins e i loro canti, finisce per essere troppo lunga e tediosa, un certo umorismo appare forzato per lo stile del film e non pienamente nelle corde del regista. Anche perché, quale sia il cuore del mondo tolkeniano/jacksoniano, quello che rimarrà nella storia e non ci scorderemo mai, lo abbiamo chiaro quando, dopo due ore di film, entrano in scena i grandi protagonisti della storia: l’Anello e Gollum. La sequenza della sfida ad indovinelli tra Bilbo e Gollum è di quelle che da sole valgono il prezzo del biglietto. E proprio questa che ci fa pensare a quanto sarebbe stato interessante un film più conciso.

Insomma, Lo Hobbit “tripartito” di Jackson ci fa riflettere su quanto siano ormai prevedibili le formule del cinema mainstream di oggi. È ormai troppo scontato pensare ogni film moltiplicato per tre, o tornare ogni volta all’inizio di una storia dopo averne visto la fine. Che ogni volta debba per forza essere trilogia e/o prequel, che questi siano approdi scontati per ogni progetto. Proprio un artista geniale come Jackson avrebbe potuto per una volta rompere queste leggi di Hollywood, sfidarle, reinventare il modo di pensare e distribuire il cinema. In un certo senso, il lavoro di Jackson fa venire in mente quello di George Lucas (lui sì, un convinto Autore seriale). Due trilogie collegate, tre film più tre, con la seconda trilogia che è ambientata precedentemente alla prima. In un certo senso, Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato soffre dello stesso problema dell’Episodio 1 di Star Wars, La minaccia fantasma: la lontananza. Si fa un po’ fatica a tornare molto indietro nel tempo, dove ci sono solo alcuni dei personaggi che conosciamo (Jackson a dire il vero fa di tutto per collegare i due progetti al meglio, con l’introduzione in cui appaiono Ian Holm/Bilbo e Elijah Wood/Frodo e con altri trucchi), e quando i fatti che seguiamo sono ancora troppo lontani da quelli che abbiamo visto. Ma poi quella trilogia di Lucas, anche se a fatica, è cresciuta, soprattutto con il terzo episodio. E, se ci pensiamo, anche La compagnia dell’Anello aveva lasciato interdetto qualcuno, e la trilogia de Il Signore degli Anelli aveva poi dato il meglio nei restanti due episodi. Anche Lo Hobbit potrebbe crescere. E se il “serial director” Peter Jackson avesse avuto ragione?

 


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