Se il titolo e la major che sta alle sue spalle potevano indurre a considerare questa pellicola come un film impegnato di Natale destinato ai bambini, vadano pure in fumo tali congetture: Il bambino con il pigiama a righe è un’opera indubbiamente coraggiosa, specie in tempi di cinepanettoni preconfezionati, di sequel animati dalle riconfermate factory e di comics movies in stile noir, che aggiunge, a dispetto della profusione di film sul tema della Shoah che hanno combinato registri e generi tanto diversi, nuovi aspetti e nuove angolazioni a una tematica che merita ancora di essere mostrata sul grande schermo. Sono passati più di sessant’anni da uno degli eventi traumatici che più hanno segnato la Storia, eppure le storie che lo ripercorrono non sono mai sature e ne rigenerano la memoria. L’immagine del protagonista nella locandina sembra fuorviare queste premesse, suggerendo una disamina che attraverso l’ironia e la leggerezza di certi toni farseschi potesse mutare, come ne La vita è bella, i canoni di un cinema che prova a smorzare il dramma con la commedia, secondo un trend oggi in voga al cinema. Il problema è che, come ricorda la bambina in rosso di Schindler’s list, anche vista da un’altezza così piccola, la tragedia lascia ben poco spazio alla risata, ed evitare di alzare uno sguardo gonfio diventa impossibile.
Alla base dell’impianto filmico, in questo caso, se ne trova uno letterario di evidente solidità e di chiara presa sul pubblico: il romanzo omonimo del giovane scrittore irlandese John Boyne è stato un best-seller apprezzato in tutto il mondo. Non ci sorprende dunque se, specie nel cast, la sua versione cinematografica gli abbia conferito un’impronta cosmopolita che emerge fin dalle nazionalità degli attori (britannici e americani) e dalle location ungheresi, utilizzate per ricostruire gli scenari del genocidio più atroce dell’umanità. La sciagura ebraica viene ricostruita attraverso gli occhi innocenti e ingenui di Bruno, un bambino di otto anni figlio di un ufficiale nazista, colpevole di aver stretto amicizia con un bambino ebreo. Bruno conosce Shmuel, che si trova in un terribile lager che l’infanzia trasforma in una fattoria i cui lavoratori indossano strani pigiami a righe, e diventa suo amico all’insaputa dei genitori, una madre che non riconosce più il padre dei suoi figli, e un padre che il Nazismo sta forgiando in un adepto del Führer e delle sue meschinità. I due bambini si fanno compagnia e si scambiano i reciproci punti di vista sui mondi cui appartengono. Bruno non comprende le differenze tra le razze, si fa domande cui risponde con innocenza e purezza; Shmuel si chiede solo dove potrà ritrovare il papà. Il loro viaggio insieme li unirà nel segno di una svolta che, come in ogni fiaba inversa, non può che avere esiti negativi. Gli adulti, dalle sfaccettature psicologiche non del tutto delineate, si trasformeranno da dinamici artefici dello spettacolo barbaro a spettatori inermi, vittime designate di un destino che non conosce distinzioni e traccia solo labili linee tra il bene e il male. I dialoghi tra i bambini trapelano con la loro immensa dolcezza attraverso una cortina di filo spinato e, con battute brillanti e perfettamente equilibrate, tramutano le loro realtà in mondi dotati di minore spietatezza. La crudeltà con cui sono costretti loro malgrado a confrontarsi viene attutita dalle loro stravaganti fantasie, ma non per questo nascosta allo spettatore dietro una patina consolatrice. Al contrario, il racconto si fa sempre più coinvolgente e il suo cinico, inaspettato, finale emerge gradualmente come un vortice che inghiotte, insieme all’azzurro degli occhioni del protagonista, Asa Butterfield, le speranze di quella tragedia che sterminò uomini e bambini senza nessuna remora.
La storia di un bambino che sogna le avventure di fronte alla guerra s’intreccia così con sinuosità con quella di un’amicizia "scorretta" quanto preziosa, che solo gli adulti con i loro giochi di potere possono rovinare. La potenza espressiva della fiaba si concentra nei movimenti eleganti di una macchina decisa che si ferma dove iniziano le violenze, come per sottrarle agli occhi dei bambini, piuttosto che indugiare per fare leva sull’impotenza degli spettatori. Onorevole la presa di posizione del regista, che non si lascia prendere la mano dal pathos in cui la situazione sarebbe potuta precipitare, ma misura con armonia e semplicità i suoi campi visivi di una realtà che, malgrado una visione tanto rinnovata, resta così dura e così tragica che il cuore continua a stringersi nel petto di ogni animo sensibile.
TITOLO ORIGINALE: The Boy in the Striped Pyjamas; REGIA: Mark Herman; SCENEGGIATURA: John Boyn, Mark Herman; FOTOGRAFIA: Benoît Delhomme; MONTAGGIO: Michael Ellis; MUSICA: James Horner; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2008; DURATA: 93 min.
|