In my country PDF 
di Eva Maria Ricciuti   

Ubuntu è un nobile principio.
Ubuntu è il riconoscimento della pari dignità di quanto, e di chi, è diverso da sé; è la consapevolezza della propria responsabilità in ciò che accade nella società e alla società.
Ubuntu implica che fare del male a qualcuno equivale a nuocere a se stessi.
Ubuntu è, in ultimo, il principio in base al quale nel 1995, per volere di Nelson Mandela e dall'arcivescovo Desmond Tutu, in un Sudafrica appena uscito dalla realtà dell'apartheid furono istituite le Commissioni per la Verità e la Riconciliazione; una sorta di tribunale itinerante il cui compito non era tanto quello di denunciare i crimini commessi dal regime sudafricano (era di dominio comune quali fossero le dirette ed inevitabili conseguenze di una politica basata sulla sopraffazione e sulla segregazione razziale), ma soprattutto di mettere i colpevoli a confronto con le loro vittime nell'intento di produrre una sorta di rito catartico che permettesse di creare le migliori condizioni per il transito da un regime di violazione sistematica dei diritti umani ad una forma legittima di democrazia.

Ma fino a che punto tale nobile principio è condivisibile? Fino a che punto è possibile perdonare chi ti ha sottratto la dignità sottoponendoti a tortura, chi ti ha sottratto persino la capacità di sentirsi un uomo? Fino a che punto una madre può ascoltare il racconto del martirio del proprio figlio e perdonarne l'artefice?

In un continuo alternarsi di testimonianze e riflessioni, In my country presenta la storia del martirio di un popolo, perpetrato in nome di una presunta superiorità razziale, adottato come credo politico, interpretato come missione divina da zelanti individui la cui unica (e vile) giustificazione di fronte al mondo aveva l'agghiacciante suono di poche e lucide parole: "Ho solo eseguito degli ordini".

In my country è forte della testimonianza e della dignità delle vittime, della forza primitiva e primigenia dell'Africa e del suo popolo; un popolo nobile nel corpo e nello spirito, un popolo capace di grandi gesti, tanto dignitoso da perdonare i propri carnefici a patto che ammettano le proprie colpe, al punto di offrire una possibilità di riabilitazione persino ad individui il cui pentimento era per lo più simulato, strumentale, volto alla conquista dell'amnistia in un ultimo e disgustoso tentativo di gabbare la giustizia.

In my country non è propriamente un film, si tratta piuttosto di una sorta di documentario romanzato nel quale la trama è solo un pretesto per offrire al pubblico testimonianza di una realtà (purtroppo) ancora sconosciuta ai più. La pellicola di John Boorman non narra, non rappresenta, ma presenta la realtà così com'è, così com'è stata, e per far questo ci pone di fronte ai tormenti, ai sensi di colpa, alla rabbia, alle lacrime, all'aggressività, alla follia di tre personaggi la cui essenza rappresenta simbolicamente la reazione di tre aspetti della realtà africana: i protagonisti ignari, gli spettatori e i carnefici.

E spontanee si accavallano parecchie domande. Fino a che punto è possibile penetrare la realtà storica dell'epoca nella quale si vive? Fino a che punto un singolo cittadino può ritenersi responsabile delle efferatezze compiute dal proprio governo in nome di ideali la cui applicazione origina situazioni al limite della umana capacità di sopportazione? Come può il senso di colpa storico di una ristretta cerchia aiutare a combattere il ripetersi delle atrocità di una Storia che sempre più spesso sembra avvolgersi su se stessa e ritornare sulle proprie tracce, macchiate di sangue, odoranti di sofferenza, buie come una camera per le torture?

Anna Malan (una fragile Juliette Binoche), poetessa di origini afrikaner e, in occasione dell'istituzione delle Commissioni, corrispondente radiofonica, è una dei protagonisti della nostra storia. Donna di nobili ideali, all'inizio della pellicola appare forte, certa della giustizia di quanto sta avvenendo, pronta ad esserne diretta testimone. Lentamente viene piegata dalla scoperta di una realtà che (forse volutamente) ignorava, posta di fronte all'evidenza della colpa del suo popolo e, in ultima analisi, della presenza nella sua stessa famiglia di uno dei colpevoli; disarmata e priva della forza di reagire, schiacciata dal senso di colpa, sussurra: "sono stata educata al rispetto della gente di colore, non potevo fare di più…non posso sfuggire, non posso rinnegare, e tuttavia, devo".

Anna Malan rappresenta quella parte di popolazione che pur essendo a conoscenza di quanto accadeva, pur sospettando l'illegittimità di alcuni "provvedimenti", pur percependo la sofferenza della popolazione di colore, si è limitata a seguire gli eventi, a far finta che nulla di cattivo potesse accadere nel proprio paese.

Accanto a lei un duro e disilluso reporter statunitense: Langston Whitfield (interpretato con notevole intensità da Samuel L. Jackson). Inviato del Washington Post, Whitfield arriva a Città del Capo col compito di seguire le sedute delle Commissioni; è un uomo duro, arrabbiato con il mondo e convinto che la realtà abbia solo due colori: il bianco ed il nero. I bianchi e i neri sono per lui entità distinte, realtà la cui complementarietà si è persa (o forse, più semplicisticamente, non è mai esistita) per colpa dei bianchi. Whitfield è avvezzo alle situazioni limite, conosce la crudeltà del razzismo e lo vive ogni giorno della sua vita di cittadino afroamericano; tuttavia le confessioni dei carnefici sorpassano largamente, per bestialità e brutalità calcolata, l'immaginazione del giornalista, e le testimonianze e ancor più le reazioni delle vittime lo sconcertano.

Lo scontro tra i due diventa inevitabile e se in un primo momento è odio, successivamente e lentamente si trasforma in amore. Un amore clandestino, nato all'ombra di una tragedia e forse consumato proprio per sfuggire alla tragedia. Un amore che apre le menti dei due protagonisti e che li spinge al confronto, ma che inevitabilmente si esaurisce. Un amore la cui evoluzione segue lo svolgersi delle sedute della Commissione e che pertanto, quale simbolica rappresentazione della riconciliazione (tra i due protagonisti, tra le etnie africane, dello stesso Whitfield con le proprie origini africane e della Malan con la propria identità di afrikaner), non poteva che esaurirsi con la condanna del criminale per eccellenza: il colonnello De Jagger, il più tristemente noto dei torturatori del regime sudafricano. Uomo dalla mente raccapricciante, affatto pentito delle proprie efferatezze, De Jagger (cui presta la corpulenta fisicità Brendan Gleeson) è il simbolo stesso dell' Africa dell'apartheid: è la mente, la mano e la follia del regime ed insieme è il capro espiatorio, gettato in pasto alla folla e abbandonato da chi lo aveva spalleggiato, incoraggiato e persino elogiato per la perizia con la quale eseguiva gli ordini.

Ma per quanto l'Africa possa essere un grande continente e gli africani siano capaci di grandi gesti, appare evidente l'impossibilità di applicare la logica dell'Ubuntu a chi gli ordini li dava e pertanto, se da un lato il colonnello viene riabilitato e perdonato dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, dall'altro viene condannato dal tribunale. Perfetta simbiosi di due sistemi (l'ubuntu e la giustizia) che finalmente e dolorosamente diventano complementari.

In my country rappresenta un coraggioso primo passo nell'affrontare una tematica ancora troppo poco conosciuta, sebbene vicina nel tempo: ha la stessa lucidità e dignità di Vincitori e Vinti, e sebbene la pellicola non mostri le efferatezze compiute dal governo, non cada nel tragico con accorati appelli o scene strappalacrime, la forza di alcune immagini rimane scolpita nella memoria, come una barra di ferro coperta da un preservativo, come lo scheletro di una ragazza abbandonato in un campo assolato.

 


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