Autorialità ed adattamento nei film di Frank Darabont tratti da Stephen King PDF 
Michele Bellio   

In Frank Darabont, regista e sceneggiatore, sempre responsabile degli script delle sue opere, il concetto di autorialità assume un aspetto particolare, in quanto filtrato, almeno per quanto concerne i film più ambiziosi, dall’immaginario di uno degli scrittori più conosciuti del panorama mondiale: Stephen King. The Shawshank Redemption, film uscito in Italia nel 1994 col titolo Le ali della libertà, tratto dal racconto Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank (contenuto nel volume Stagioni diverse, pubblicato nel 1982), è il primo a rendere esplicito il livello di simbiosi tra gli aspetti cinematografici della scrittura di King e le qualità di sceneggiatore di Darabont. Per discutere sul concetto di autorialità, riteniamo sia necessario distinguere all’interno del film gli elementi legati alle intuizioni del romanziere (e quindi già ben sviluppati nel racconto originale), le necessità legate ai ritmi del prodotto filmico (tagli, aggiunte, modifiche sostanziali ai personaggi ed agli avvenimenti) e le innovazioni squisitamente cinematografiche, vale a dire le trovate di sceneggiatura in cui il solo scopo è la rappresentazione di una poetica, che è quella di Darabont.

Questa la trama dell’opera: nel 1947, nello stato del Maine, Andrew Dufresne, giovane bancario, accusato di aver ucciso la moglie ed il suo amante, è condannato a scontare due ergastoli nel carcere di Shawshank. Qui conosce Red, anche lui condannato a vita. Gli anni passano tra vari avvenimenti ed Andy diventa un utile strumento nelle mani di direttori corrotti e di secondini che approfittano delle sue competenze. La sua importanza è tale che riesce ad ottenere i fondi per creare una biblioteca carceraria di prim’ordine. La vita in galera è tuttavia violenta e dura, tanto che, dopo molti anni, Andrew prova e riesce ad evadere. Dopo qualche tempo Red esce in libertà condizionata e parte alla ricerca dell’amico.

L’adattamento del racconto ha comportato svariati cambiamenti, in apparenza poco significativi, ma in realtà perfettamente funzionali ai messaggi-chiave del film: la geometricità e la cadenza ritmica della vita carceraria, la forza delle emozioni umane che possono andare oltre i limiti imposti dalle sbarre e, soprattutto, il trascorrere del tempo, vero e proprio leit-motiv del film. Proprio in relazione al ritmo con cui passano gli anni notiamo il primo meccanismo messo in atto dallo sceneggiatore per concentrare in un unico episodio le motivazioni che spingono il protagonista all’evasione. Nel racconto Andrew evade solamente il 12 marzo del 1975, nel film decide di uscire nel 1966. La fuga del protagonista avviene grazie ad un tunnel scavato nel muro utilizzando poco alla volta un martello da roccia: nel film l’assoluta incredibilità dell’avvenimento è sottolineata, meno di 20 anni per una cosa del genere sono effettivamente pochi, tant’è che nel racconto originale sono ben 28. Nel 1965 è situato però un avvenimento significativo, caricato di uno spessore particolare nella sceneggiatura di Darabont: arriva in carcere il giovane Tommy, il quale racconta di essere stato in cella con l’uomo che sarebbe il reale colpevole del crimine di cui è accusato Andrew. Nel libro il direttore, che non può lasciare uscire Andrew dalla prigione poiché potrebbe testimoniare su tutti i suoi loschi traffici, risolve il problema trasferendo Tommy in un carcere meno duro, garantendosi così il suo silenzio. Nel film il personaggio del ragazzo rappresenta la più importante svolta narrativa contenuta in sceneggiatura: Tommy è la missione di Andy, il suo scopo è aiutarlo a prendere il diploma, cosa che nel film avviene mentre nel libro non viene data per certa. Perché concentrarsi così tanto sulla descrizione di un personaggio minore? Il meccanismo messo in atto da Darabont è molto semplice: lo spettatore deve necessariamente affezionarsi a Tommy.  Questo perché la fine prevista per il ragazzo è ben diversa da un trasferimento: convocato dal direttore per sapere fino a dove è disposto ad arrivare per aiutare Andrew, Tommy è assassinato dal capo dei secondini. In questo momento qualcosa nel protagonista si rompe e da qui la scelta di evadere. La morte del ragazzo spinge lo spettatore a convincersi definitivamente dell’innocenza del protagonista ed è spinto a tifare per lui fino ad esaltarsi alla scoperta dell’avvenuta evasione. Osserviamo qui un aspetto della scrittura di Darabont che tornerà anche nei suoi lavori successivi: il ricorso in determinati momenti ad un patetismo che sfiora a volte la retorica, aspetto tendenzialmente assente nella scrittura di King. Il lato positivo in questo modo di agire da parte del regista/sceneggiatore si può trovare nella capacità di reggere la durata del film e di tratteggiare con semplicità alcuni personaggi per i quali il pubblico possa provare simpatia: in The Shawshank Redemption abbiamo Brooks Hatleen, l’anziano bibliotecario del carcere, che rimane nella memoria per due motivi, assenti nel libro, l’amicizia con il corvo Jake ed il suo suicidio.

Se il rapporto con il volatile si può leggere come un velato omaggio di Darabont a Birdman of Alcatraz di John Frankenheimer, la scena dell’uscita dal carcere dell’anziano personaggio ha un peso sconosciuto al racconto. La sequenza prende il via da un colpo di scena: il vecchio ha afferrato uno dei detenuti suoi amici e minaccia di tagliargli la gola. Si tratta di un disperato tentativo di ottenere l’annullamento della libertà sulla parola, prima di dover abbandonare il luogo che ormai è tutto il suo mondo. Andrew convince Brooks a non fare pazzie e successivamente ci viene mostrata la sua nuova vita fuori dal carcere. Qui diventa esplicita l’incapacità di adattarsi ai nuovi ritmi, il disagio nei confronti delle altre persone, la paura di vivere da soli in un mondo sconosciuto. Da qui la decisione di suicidarsi come scelta di massima dignità. Si tratta di un espediente volto a coinvolgere le emozioni dello spettatore, per poi richiamarle in una scena successiva: nel caso specifico affrontiamo lo stesso percorso di Brooks nel momento in cui dal carcere esce finalmente Red. Ricapitolando: Andrew evade nel 1966 e nel 1967 Red ottiene la libertà sulla parola e va a vivere nello stesso appartamento in cui si è suicidato Brooks. I dubbi, le angosce e le paure sono le stesse, tant’è che fino al colpo di scena finale (in cui Red trova il modo di raggiungere Andrew) lo spettatore teme che non ci sarà lieto fine. La tensione creata da questo momento giustifica la visibilità data al personaggio dell’anziano bibliotecario, si tratta di un espediente di scrittura basato sulla ripetizione e sul facile riconoscimento degli ambienti da parte dello spettatore. La decisione di Red, che sceglie di vivere, ci porta quindi lungo la costa del Pacifico e ci pone di fronte al piccolo tradimento che Darabont opera nei confronti del racconto.

King non chiude la sua storia in modo sicuro, si ferma sulle parole di speranza del suo protagonista: «Spero che Andy sia laggiù. Spero di farcela a passare il confine. Spero di vedere il mio amico e stringergli la mano. Spero che il Pacifico sia azzurro come nei miei sogni. Spero» (STEPHEN KING, Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank in Stagioni diverse, Sperling & Kupfer, XV Edizione Paperback, Milano, 2000, p. 112). Darabont, portando all’estremo il patetismo di cui accennavamo in precedenza, ci mostra Red sorridente su di una spiaggia messicana mentre si avvicina ad Andy che sta riparando una vecchia barca. I due amici si vedono e fanno per corrersi incontro, ma in questo preciso momento un fermo-immagine li blocca consegnando quella frazione di secondo all’eternità. La trovata colpisce indubbiamente nel segno, ma si tratta di un’ulteriore furbesca concessione allo spettatore, quasi come se il regista/sceneggiatore avesse avuto paura di lasciare il pubblico con quella maestosa ripresa aerea sull’oceano. Un altro aspetto dell’opera appare fondamentale per comprendere l’autorialità di Darabont. Si tratta di una sequenza cinematograficamente epica, inventata dallo sceneggiatore, trasformata nel cuore emotivo del film e, contemporaneamente, nel momento di massima mitizzazione del protagonista: si intravede in questo momento la simpatia che viene richiesta allo spettatore nei confronti di Andy, da qui iniziamo a convincerci della sua innocenza. La sequenza in questione è questa: Andy ottiene un contributo per la biblioteca del carcere e scopre che gli sono stati inviati alcuni scatoloni contenenti libri e vecchi vinili da aggiungere alla sua attuale fornitura. Approfittando della distrazione di una guardia, Andy accende il giradischi e, tramite il microfono del direttore, diffonde dagli altoparlanti un’aria da Le nozze di Figaro, causando l’improvvisa immobilizzazione di tutti i detenuti del carcere, che ascoltano rapiti rimanendo come sospesi. L’impatto della scena è notevole, il tasso di patetismo altissimo. Il nostro protagonista non può essere colpevole, non c’è il lui la rassegnazione al carcere che ci si aspetterebbe da chi sa di aver ottenuto ciò che meritava. Grazie alla musica Andrew è libero e noi possiamo percepirlo soltanto come innocente. La scelta di caratterizzare in modo così accurato l’estraneità del protagonista al mondo carcerario è propria del regista: lui muove la trama ed il resto dei personaggi in relazione al destino che ritiene giusto per Andy. Per Darabont Andy è innocente, quindi anche per lo spettatore deve essere così.

Il secondo film che Darabont trae da Stephen King è The Green Mile, in italiano Il miglio verde, un romanzo pubblicato originariamente a puntate. Una breve sinossi: dalla residenza per anziani di Georgia Pines, negli anni Novanta, Paul Edgecomb ripercorre con la mente il periodo in cui era capo secondino al penitenziario di Cold Mountain, in Louisiana. Sua era la responsabilità del braccio della morte, chiamato il miglio verde a causa del colore del pavimento, e suo era il compito di presenziare a tutte le esecuzioni, effettuate tramite la sedia elettrica. Nel 1935 arriva nel braccio della morte John Coffey, un gigantesco uomo di colore condannato a morte per aver violentato e ucciso due bambine bianche. Col passare del tempo Edgecomb scopre però che l’uomo è tutt’altro che violento: è buono, gentile, timido e, soprattutto, dotato di miracolosi poteri taumaturgici. Iniziamo dicendo che il film è sostanzialmente fedele al libro e per essere tale sfrutta una durata inusitata per un film destinato al grande pubblico, ben 180 minuti. I primi e gli ultimi sono dedicati alla cornice narrativa contemporanea, il resto dell’opera è sostanzialmente un lunghissimo flashback.

Il film prende il via con Edgecomb che cammina nei prati della casa di riposo e poi è seduto davanti al televisore insieme agli altri ospiti. Qui un uomo cambia canale e si sofferma su di una sequenza di Top Hat di Mark Sandrich, film non a caso uscito nel 1935. L’anno è importante poiché è stato appositamente modificato dallo sceneggiatore per poter costruire questo episodio, in origine John Coffey arriva in carcere nel 1932. La scena che si vede in tv è il duetto di Fred Astaire e Ginger Rogers sulle note di Cheek to cheek di Irving Berlin. Edgecomb la osserva e qualcosa in lui si rompe, tant’è che scoppia a piangere. Più tardi, questo suo crollo emotivo lo spingerà a raccontare all’amica Elaine il triste segreto del suo passato. Che cosa collega la pellicola a Edgecomb? Semplicemente il fatto che John Coffey avesse chiesto come ultimo desiderio la possibilità di vedere un film, naturalmente si trattava di Top Hat. Abbiamo ancora una volta un espediente narrativo che dà il via al racconto. Curiosamente, nel romanzo è un altro film, e per motivi ben diversi, che riporta Edgecomb indietro nel tempo. Questa differenza è dovuta al maggior spessore dato da King alla cornice narrativa. Ad esempio nella residenza di Georgia Pines l’anziano ex secondino si trova a dover combattere quotidianamente con uno degli infermieri. La connessione che Edgecomb fa immediatamente è quella di paragonare quest’uomo al giovane e raccomandato ragazzo che tanti problemi gli aveva creato lavorando con lui ai tempi di John Coffey: Percy Wetmore. Non si tratta dell’unico rimando al passato: il film che riporta il protagonista indietro nel tempo lo fa generando in lui non commozione, bensì terrore puro. La pellicola in questione è Kiss of Death di Henry Hathaway, uscito nel 1947.

Riportiamo di seguito il passo del libro che descrive la scena:
«Capelli biondi», ho sussurrato.
«Morbidi capelli biondi. L’ho guardato fino al momento in cui spinge una vecchia in carrozzina giù per una rampa di scale, poi ho spento».
«Ti ricordava Wharton?»
«Era Wharton», le ho risposto. «Fatto e finito»
(STEPHEN KING, Il miglio verde, Sperling & Kupfer, I Edizione Paperback, Milano, 1998, pp. 174-175).

William Wharton è il detenuto che arriva al braccio della morte di Cold Mountain subito dopo John Coffey e che si scoprirà essere il crudele esecutore del crimine di cui è accusato il gigante di colore. Il terrore con cui Edgecomb se ne ricorda è una sensazione che aleggia costante nella parte del libro ambientata a Georgia Pines. Il protagonista è costantemente sotto pressione, si sente debole, troppo vecchio per reagire ai soprusi dell’inserviente, troppo solo per poter affrontare l’ansia che lo accompagna ogni notte. La sua sola amica è appunto Elaine. Personaggio importante del romanzo, Elaine rappresenta in un certo senso la reincarnazione della moglie di Edgecomb, della quale è descritta la terribile morte in un incidente stradale anni prima. Da quell’incidente il marito esce illeso: è un’ulteriore testimonianza del destino a cui è condannato per aver giustiziato John Coffey, una vita innaturalmente lunga, trascorsa a veder morire una alla volta le persone amate. Nel film tutti questi rimandi sono eliminati, la cornice ha un valore strettamente narrativo. Uno degli avvenimenti più importanti del romanzo è la trasmissione da parte di John Coffey di una piccola scintilla di lunga vita al protagonista. La stessa cosa avviene ad uno dei personaggi secondari più importanti: il topolino Mr. Jingles.
Nel libro, una volta che Paul ha rivelato ad Elaine l’esistenza di Mr. Jingles, il piccolo topo muore davanti ai loro occhi, a testimonianza del fatto che la sua condanna non sarà infinita. Nel film questo cupo sottofinale è assente e il tutto si chiude con le immagini del funerale di Elaine e con le angosce di Edgecomb. La scelta di Darabont è chiara e rispetta il tono sommesso e sostanzialmente sensibile dell’intero film: già la prima volta che il topolino muore (schiacciato da Percy, poi sarà rianimato da Coffey), il pubblico si trova profondamente scosso in quanto ormai affezionato al personaggio, inoltre poco prima del finale ha dovuto dire addio al gigante che sa essere innocente.

Mostrare la morte di Mr. Jingles sarebbe stato solamente un inutile appesantimento di un finale già di per sé abbastanza pessimista. E il pessimismo accompagna in vario modo l’intera storia del guaritore. Uno dei punti cardine della trama è, infatti, una triste e sostanziale resa della giustizia nei confronti di una società ignorante e razzista: anche ci fossero delle possibilità di far ottenere un nuovo processo a Coffey per cercare di dimostrare come in realtà egli sia innocente, lo stato non avrebbe mai alcun interesse a salvare un uomo di colore. Curiosamente nel film questo aspetto viene affidato soprattutto alla componente soprannaturale del personaggio: Edgecomb avverte dentro di sé che Coffey non è colpevole, tant’è che in cella al suo arrivo gli stringe la mano, ma non ha mai elementi sufficienti per cercare di scagionarlo. In una scena il secondino viene messo di fronte alla verità: Coffey lo costringe a vedere nella mente di Wharton e lo convince così della sua innocenza. Ma non c’è modo di provarlo. Nel libro, invece, Edgecomb indaga e trova qualche indizio a favore del gigante, dei quali rende partecipi anche i suoi amici. Si tratta di una precisa scelta di sceneggiatura, la volontà di rendere più privo di speranza il destino del gigante e più terribile l’angoscia di Paul.

Una conclusione ben mitigata dalla confezione del film, ma un interessante preludio alla crudele maturità di scrittura che giungerà nel successivo The Mist, tratto dal racconto La nebbia, pubblicato nella raccolta Scheletri nel 1981. Il film, realizzato nel 2007 ed uscito in sala nel 2008, è passato stranamente sottotono. I motivi della scarsa fiducia dei distributori e del poco felice impatto con il pubblico sono rintracciabili fra le scelte attuate da Darabont, per la prima volta forse veramente libero da ogni tipo di costrizione. Appare utile, a nostro avviso, riportare alcune parti di una breve intervista rilasciata da Darabont a CIAK nell’ottobre del 2008, momento di uscita del film in Italia.

Ancora Stephen King, perché? È un insuperabile storyteller. Erano oltre vent’anni che volevo girare The Mist. Quando feci Le ali della libertà, l’alternativa era proprio The Mist. Ma quel film e il successivo Il miglio verde mi trasformarono in un filmmaker di successo, più raffinato di quello che io mi sento. Ecco perché per The Mist ho abbandonato il mio stile bello e pulito, influenzato dal mio amore per Kubrick e Spielberg, per uno da guerrilla movie, quasi documentaristico. (MARCO GIOVANNINI, Intervista con Frank Darabont, in CIAK, n. 11, Mondadori, Milano, Ottobre 2008, p. 94).

Il regista/sceneggiatore si è reso conto che non poteva più mantenere il suo stile raffinato ed elegante per raccontare l’inquietante racconto di King: l’aria da ottenere era quella di un secco B-Movie. La trama: in un piccolo villaggio del Maine scoppia una terribile tempesta ed una strana nebbia avvolge tutto. L’illustratore David Drayton va con il figlioletto Billy al supermercato per fare provviste, ma dalla nebbia iniziano ad emergere tentacoli e chele di creature mostruose ed assassine. Intrappolati nel negozio insieme ad altre persone, i protagonisti devono trovare il modo di sfuggire agli esseri soprannaturali che li circondano e, contemporaneamente, devono tenere sotto controllo la signora Carmody, una folle ed ossessiva religiosa, che cerca di convincere tutti dell’arrivo dell’Apocalisse e della necessità di un sacrificio umano per salvare le loro anime. Nella trama ritornano tutta una serie di rimandi ai canoni dell’horror moderno: la situazione di stallo che favorisce aristotelicamente il crescendo narrativo, la divisione tra scettici e credenti, la stupidità e la codardia dei militari (tutto parrebbe essere stato causato da misteriosi esperimenti sulle altre dimensioni). Che cosa allora ha creato qualche perplessità in un pubblico abituato a prodotti dalla simile struttura narrativa? In una parola potremmo dire il pessimismo tragico e diffuso. Il film, fatti alcuni tagli e piccole modifiche non particolarmente significative, rispetta quasi alla lettera l’andamento del racconto. Arriva però a tradirlo completamente nella parte finale, sprofondando il tutto in una spirale d’orrore di gran lunga superiore a quella costruita durante l’arco di tutta l’opera. Pellicola e racconto si differenziano dopo il momento cruciale del prefinale: David, il figlio e alcuni altri personaggi riescono a fuggire dal supermercato con l’auto del protagonista e decidono di fare quanta più strada possibile per cercare di uscire dalla nebbia. Nel libro, King, per bocca del protagonista, fa una specifica dichiarazione con cui si accinge a chiudere il racconto:

Questo è quello che accadde. O almeno quasi tutto – c’è un’ultima cosa a cui arriverò tra un momento. Ma non dovete aspettarvi una qualche conclusione precisa. Non c’è un: E sfuggirono dalla nebbia nella bella luce del sole di un nuovo giorno; o: Quando ci svegliammo la Guardia Nazionale era finalmente arrivata; e neppure quella vecchia grande soluzione: Era tutto un sogno. È, immagino, quello che mio padre con cipiglio chiamava sempre «un finale alla Hitchcock», intendendo con questo una conclusione ambigua che permettesse al lettore o allo spettatore di decidere lui in che modo le cose finivano
(STEPHEN KING, La nebbia, in Scheletri, Sperling & Kupfer, II Edizione, Milano, 1989, p. 134).

Questa la scelta effettuata dal romanziere, lasciare aperto il finale, con una nota, se possibile, di speranza. Totalmente opposta l’interpretazione della storia offertaci da Frank Darabont: dopo aver vagato inutilmente nella nebbia fino al termine del carburante, l’auto del protagonista si ferma. A bordo si trovano cinque persone e David ha una pistola con soli quattro proiettili. L’ultima immagine che ci è concesso vedere prima del tragico gesto è lo sguardo terrorizzato del bambino; seguono un’inquadratura in campo lungo della vettura, quattro colpi d’arma da fuoco, l’urlo disperato del protagonista. Già così il finale potrebbe essere il più crudele che si possa immaginare, ma subito dopo sopraggiunge una beffarda, ulteriore conclusione, che amplifica il senso di frustrante e tragica impotenza di fronte al destino. Mentre David, disperato, scende dalla macchina nella speranza di farsi uccidere da uno dei mostri, la nebbia lentamente si dirada ed appare un carro armato, seguito da vari altri mezzi dell’esercito. Molti portano in salvo diverse persone, atri incendiano le carcasse di vari esseri mostruosi. Il protagonista si rende conto di aver agito un attimo prima della salvezza e si accascia disperato al suolo, sotto lo sguardo imbarazzato di due militari. Questa la conclusione che lo sceneggiatore Darabont sceglie deliberatamente di dare al proprio racconto: in netto contrasto con le canoniche regole del cinema commerciale, che pure in parte aveva accontentato con Le ali della libertà, e perfino con le scelte di Stephen King. Si tratta probabilmente, a nostro avviso, della massima espressione dell’autorialità del regista, in grado di rimaneggiare il materiale pre-esistente per piegarlo alle proprie necessità. Appare opportuno riportare il segmento dell’intervista dedicato al finale:

Il finale senza speranza è passato liscio? Appena l’ha letto Stephen King mi ha mandato una mail dicendo che era geloso, avrebbe dovuto pensarci lui. Per me era l’unica soluzione possibile, al passo coi tempi che viviamo: l’inizio del secolo non è stato certo incoraggiante. Per questo avrei voluto anche girare il film in bianco e nero, come La notte dei morti viventi, per dare subito l’idea di un B-Movie a basso costo
(GIOVANNINI, Intervista, p. 94)

A nostro avviso questa visione apocalittica e negativa ha comportato lo scarso successo del film. Eppure si tratta probabilmente del tradimento più significativo che Darabont abbia mai effettuato nei confronti dell’amico Stephen King ed è innegabile come questa coraggiosa scelta finale obblighi a leggere il film in un’ottica sicuramente più efficace e vicina alla contemporaneità rispetto alla morbida ed incerta conclusione del racconto. L’autorialità di Darabont si esprime al suo meglio nei quattro colpi di pistola che chiudono The Mist.

 


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