Alto tradimento: il cinema e Sir Alfred Hitchcock PDF 
Aldo Spiniello   

F.T. Ho letto il romanzo da cui Psyco è stato tratto e l'ho trovato vergognosamente falso...
A.H. Credo che la sola cosa che mi sia piaciuta, che poi mi ha convinto a fare il film sia stato il modo improvviso in cui si commette l'omicidio sotto la doccia; è del tutto imprevisto ed è questo che mi ha interessato.

(François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock)

Una doccia che vale più di cento idee illuminanti, di filosofie, tesi, ideologie. Una doccia come buco nero (abbagliante) delle proprie ossessioni. Hitch il "voyeur" al suo stato più puro, colto nella nudità del suo desiderio morboso, perché anni luce distante dal sicuro del confessionale di Rear Window. Hitch, il maestro del brivido, trema guardando. Ma ci vorrebbe ovviamente un'altra vita e un'altra pazienza, perché no, un'altra competenza, per andare a scavare nell'anima e nella mente di Alfred Hitchcock, scovandone altri risvolti che non siano già stati tradotti in immagini.

Quando il nostro caporedattore mi ha chiesto un pezzo sulle manie di Hitchcock, prendendo spunto dal nuovo biopic di Sacha Gervasi tratto dal racconto di Stephen Rebello sui segreti della lavorazione di Psycho, ho accettato un po' a cuor leggero. Innanzitutto, perché non avevo ancora visto il film in questione e ignoravo, quindi, che avrebbe agito sulla mia mente già poco vigile come un eccezionale sedativo, costringendomi a un'innocua acquiescenza. Ma soprattutto perché non avevo immediatamente realizzato che quel compito, per me, avrebbe deviato verso diversi percorsi, obbligandomi a rispondere a un'altra domanda, o meglio a dar conto a un'altra immagine. Quella di mio padre, lo Spettatore che ha visto un'infinità di film senza mai porsi troppe questioni sul perché e sul come, che gode ogni volta nel lasciarsi irretire nella trappola/prigione del cinema di Hitchcock e rimane, invece, indifferente dinanzi ad altri "carcerieri", come Kubrick ad esempio. Com'è possibile questa differenza di disposizione? Da dove può mai venire questo piacere perverso di farsi chiudere in gabbia? Dalle manie di Hitch il problema, tutt'a un tratto, si è spostato alle manie di chi guarda i suoi film. Compito ancor più improbo, ma, forse, risolvibile con un po' di artificio retorico giocando sulla coincidenza: l'identificazione non è più tra lo spettatore e i film, i personaggi, le storie, ma tra lo spettatore e Hitchcock stesso. La sovrapposizione perfetta dei due sguardi, o meglio di centinaia, migliaia, milioni di sguardi in una sola prospettiva di paura e desiderio. Ma se il vero punto non fosse più l'oggetto della domanda, ma il semplice fatto che la domanda fosse cambiata? Quello che a fatica cerco di centrare è il motivo dello slittamento, dello spostamento di coordinate: dalle manie di... alle manie di... Cioè capire perché mi sforzi a tal punto di tradire il compito che mi è stato assegnato? Per ignoranza, senz'altro. Ma, mi dico, per giustificarmi: se Hitchcock ammette candidamente che della storia di Psycho non gli interessava altro che quell'omicidio nella doccia, forse tutto il suo cinema è basato sulla necessità del tradimento.

Se c'è qualcosa che riesce a raccontare, più nella superficie del testo che nella forma (che al cinema è sempre sostanza), l'incerto film di Sacha Gervasi è quello scarto evidente, quella frizione vertiginosa tra il bisogno delle certezze di un uomo terrorizzato dall'impossibilità di controllare la vita e il suo irrefrenabile istinto al rischio della sperimentazione. Se è vero che i film di Hitchcock sono la perfetta espressione di quel che diceva Truffaut, "i film sono più armoniosi della vita", è altrettanto vero che quest'armonia non può essere un dato acquisito, un ossequio alla regola. È una scommessa costante, un risultato da conquistare con sfide, forzature, rinunce magari. Hitchcock è, chiaramente, un manipolatore che piega le strutture consolidate del cinema alla propria visione. Non è l'unico, ovviamente. Non è l'unico sperimentatore, creatore di forme e non è neanche l'unico despota capace d'imporre un dominio assoluto della messinscena. Ma è unico il modo in cui tutto questo si traduca in uno stile consapevolmente trasparente, al servizio di quella magica "suspence", che è solo la traduzione più alta di una concezione perfetta di spettacolo. "Il suspence è prima di tutto la drammatizzazione del materiale narrativo di un film o almeno la presentazione più intensa possibile delle situazioni drammatiche". Il cinema non deve avere altro fine che quello di raccontare storie, raccordandosi all'emotività. Non c'è nulla, nei film di Hitchcock, che assomigli a un'affermazione. Come se il cinema fosse un semplice servo di una tesi precostituita, di un'idea che sta prima. Hitchcock non ha bisogno di affermare, perché non instaura un dialogo. Dirige l'attenzione degli spettatori e l'emozioni dei personaggi con la puntualità ritmica di un metronomo. La storia e il discorso coincidono perfettamente in un'unità. Quest'unità, dello stile, allora, giocando con le parole, non è più trasparente, è "opaco", proprio perché non lascia filtrare nulla oltre sé, dentro, dietro, a lato. Hitchcock costruisce gabbie di stile, vertigini di unità di forma e contenuto, entro cui imprigionare tutto, noi, i personaggi, se stesso. Ecco la coincidenza di cui parlavo. Ed è come la confessione di Heidegger che ammette di non aver fatto altro che costruire trappole per tutta la sua vita.

Ma questa è una mania, a cui fa seguito, necessariamente, un'altra mania (ed è in quest'umanissima necessità la differenza con gli altri costruttori di gabbie): trovare l'uscita, disseminare le mura del carcere di tante, piccolissime, a volte impercettibili vie di fuga. Il rischio di tradire, cioè di far passare le cose, le storie, le emozioni attraverso le sbarre del senso e proiettarle a un altro futuro. Hitchcock è il grande genio dell'impasse, che lotta contro la solida sicurezza della chiusura, della struttura. Perché converte le cose in altro. Seppur piegandole alla funzione, non può cancellare il tradimento della conversione, la trasformazione. "La tecnica cinematografica permette di ottenere tutto quello che si desidera, di realizzare tutte le immagini che sono state pensate, pertanto non c'è nessuna ragione di rinunciare o accettare il compromesso tra l'immagine prevista e l'immagine ottenuta". È qualcosa che, forse, va oltre le intenzioni dichiarate del rigore. Ma quel realismo ottenuto nell'inquadratura a prezzo di un irrealtà dello spazio vivo del set è l'espressione di un desiderio profondo di evasione: il desiderio di accordare all'immagini un altro senso. È in questa tensione la chiave d'uscita dall'impasse (produttiva, registica, esistenziale, visiva). Per questo, tutti gli innocenti perseguitati di Hitchcock, alla fine, in qualche modo, la spuntano. Solo in Psycho sono tutti condannati: ma questa stessa eccezione conferma la necessità dell'infrazione.

Ecco il vero imprevisto hitchcockiano. Il regista dell'ordine è diventato il profeta della liberazione. La profezia: è forse questa la mania? In fondo, come ora io sto piegando Hitchcock alla mia ossessione, ogni spettatore, davanti ai suoi film, non può che inseguire la sua personale via di liberazione. Per questo, il suo cinema è sempre un affare dannatamente privato. E allora capiamo lo smarrimento e il fastidio di Enzo Ungari di fronte all'improvviso, unanime tributo di venerazione di una critica fino ad allora indifferente, se non addirittura ostile: "egli è entrato nel pantheon cinematografico dei lettori del Corriere della Sera e de L'Unità, e noi ci sentiamo molto meno soli, e un po' più infelici". Da quale film stai fuggendo stasera, papà?

 


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