Non solo look: Boy meets girl e l’autorialità poetica di Leos Carax PDF 
Piervittorio Vitori   

Prima sono venute le parole. No, le emozioni. Film spiazzante ed epifania di un cineasta, Leos Carax, destinato sostanzialmente a rimanere una figura a sé stante nel panorama contemporaneo, Boy meets girl viene salutato nel 1984 a Cannes da un diffuso favore di critica. Ad un lustro di distanza, tuttavia, i caratteri peculiari dell’opera - se non il suo livello artistico - appaiono ridimensionati dal conio dell’etichetta di ‘cinéma du look’, ad indicare un insieme di titoli transalpini coevi più preoccupati del loro aspetto formale che di quello contenutistico. L’esordio caraxiano finisce così in uno scaffale a fianco di Rosso sangue (1986), opera seconda del regista di Suresnes, e dei lavori di altri due emergenti: Subway di Luc Besson e Diva di Jean-Jacques Beineix.

Ma se è possibile tracciare dei parallelismi tra questi ultimi tre titoli, la cifra stilistica di Boy meets girl presenta tratti di originalità che da subito permettono di operare dei distinguo rispetto a Subway e Diva, mettendo in luce la maggior personalità autoriale del 24enne Carax. Indubbiamente il bianco e nero fortemente contrastato di Jean-Yves Escoffier, sodale del cineasta anche per i suoi due titoli a venire, può rivendicare buona parte del merito nella fascinazione che le immagini esercitano sullo sguardo dello spettatore. Va d’altro canto ricordato l’apprendistato critico del regista presso i Cahiers du cinema di Serge Daney, ciò che fa sì che Vincent Canby non abbia torto quando scrive che il film pare l’opera di “qualcuno che continua a passare più tempo dentro la Cinematheque Française che fuori.” (1) Mentre, infatti, nelle pellicole di Besson e Beiniex salta agli occhi l’influsso degli anni ’80 e dell’estetica del videoclip, sarebbe impossibile decifrare correttamente Boy meets girl senza i riferimenti alla nouvelle vague e al muto. C’è infatti molto Godard (gli inserti in nero e i jump cut, solo per fare gli esempi più elementari) e c’è, forse ancor più, l’idea che il cinema sia “un anziano sclerotico che ha bisogno di rinascere. Il mio unico modo di lavorare consiste nel credere che tutto sia già stato fatto, e che ritornando ai film muti ed imparando molto da essi sia possibile trovare nuove forme nuovi modi di raccontare storie.” (2)

Un chiaro riflesso dell’amore per quel cinema è la fallacia della comunicazione verbale, tratto evidente già nelle prime tre scene della pellicola: Maité che, in auto, non riesce a parlare con Henri; Alex che svela a Thomas di aver scoperto il tradimento di Florence da una frase che lei aveva frainteso; il dialogo tra Bernard e Mireille. Più avanti, lo stesso elemento verrà enfatizzato nella scena della telefonata di Bouriana dal bar e, in maniera ancora più esplicita, dall’incontro alla festa tra il protagonista e l’anziano operatore sordomuto. “I giovani sono troppo silenziosi,” segnala questi ad Alex, “avete dimenticato come si fa a parlare”. E il postulato sembra essere tanto vero, per Carax, che qua e là nel film sono i brani in colonna sonora a farsi carico di esprimere le istanze dei personaggi, con un espediente che rischia di risultare fin troppo didascalico (Je suis venu te dire que je m’en vais di Gainsbourg nella prima scena, When I live my dream di Bowie sulle immagini della passeggiata notturna di Alex). Di contro, l’accento viene posto con forza sull’espressività dei personaggi, a seconda dei casi esasperata (la gestualità ed il dinamismo di Alex; la danza di Mireille, la sfuriata telefonica di Bouriana…) o al contrario azzerata (gli invitati alla festa). Una scelta, questa, il cui carattere spiccatamente antirealistico fa sì che l’idea di rappresentazione soppianti quella di narrazione.

Emerge qui il secondo carattere che contribuisce a definire l’autorialità di Carax e a tracciare un confine rispetto al ‘cinema du look’: l’urgenza di mettersi in gioco, che la cura stilistica non castra ma viceversa asseconda. In altri termini, una soggettività in cui l’autore finisce per confondersi con l’attore e con il personaggio. Sappiamo che Alex è l’abbreviazione del nome all’anagrafe del regista; che questi presenta una discreta somiglianza con colui che iniziava a diventare il suo alter ego sullo schermo, Denis Lavant; che all’epoca Mireille Perrier era la sua compagna (come in seguito lo sarebbe stata Juliette Binoche, ai tempi di Rosso sangue e poi di Gli amanti del Pont-Neuf). Tutti indizi, sovrapposizioni tra schermo e realtà, che si legano a una considerazione più saliente, per quanto attiene all’analisi del film: Alex è anch’egli un regista. Al di là del fatto che si presenti come tale a Mireille, egli è proposto come un osservatore che con il suo sguardo rimodella la realtà circostante: buona parte del suo lavoro di ‘regia’ consiste infatti nel rendere oggetti scopici gli altri (in primis la ragazza - con il salotto dell’appartamento che è di fatto un palcoscenico -, ma anche gli ospiti a casa di Helen, la coppia sul Pont-Neuf, gli orientali al flipper del bar…), ma anche se stesso. “Mi piace spiarmi come se fossi un estraneo”, dice. “Se cambiassi distorcerei l’esperimento”. Il protagonista dunque adatta a sé quanto lo circonda: ‘sceneggia’ il monologo di Bernard, al citofono con Mireille; fa diventare il foulard della scena iniziale, perso da Maité e raccolto da Thomas, quello di Florence; fa coincidere - e questo è probabilmente il dato più significativo - la mappa di Parigi con la propria biografia. Le stesse coordinate spazio-temporali sono perciò assoggettate all’istanza rappresentatrice: la Parigi di Boy meets girl è, più che un luogo fisico oggettivamente dato, una serie di luoghi di messa in scena; e, quanto all’aspetto temporale, il rifiuto di una narrazione classica ne mina la credibilità. Il film si muove tra due paletti che - a questo punto non sorprenderà - attengono strettamente alla figura del protagonista: la fine della storia d’amore con Florence e l’inizio del servizio militare. Ciò che troviamo in mezzo a questi due punti è un qualcosa che, declinato in maniera irrazionale, ambientato in un set prevalentemente notturno e mediato quasi interamente dall’osservatore, assomiglia molto al sogno. Ne dà conferma, peraltro, lo stesso Alex, quando dice a Mireille “Non ho mai cercato di realizzare i miei sogni migliori. Solo di ri-sognarli.”

L’amour fou e il senso di alienazione e di distacco vengono quindi affrontati da una prospettiva assolutamente personale. I protagonisti di Beineix e di Besson agiscono nel mondo, un mondo che è inequivocabilmente quello reale (pur scavandosi al suo interno degli spazi di marginalità attraverso i quali veicolare quel po’ di ‘opposizione sociale’ presente nelle due opere). Alex/Carax, al contrario, con il suo sguardo agisce sul mondo, rimodellando le relazioni che lo compongono davanti ai propri occhi. Il regista sviluppa così un discorso esistenziale più sottile e più difficilmente afferrabile, che richiede all’adesione dello spettatore di andare oltre il mero dato profilmico, ma che al contempo, proprio per questo, è dotato di maggiore profondità. Ecco in fin dei conti perché, se per i momenti più felici di Diva e di Subway possiamo forse spendere in senso cinematografico la nozione di prosa poetica, per Boy meets girl possiamo a pieno titolo parlare di poesia.

Note:
(1) V. Canby, Boy meets girl: a Tale of Love by Leos Carax, The New York Times
(2) L. Carax, cit. in J. Quandt, Films in Modern Love: The Films of Leos Carax

 


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