Dai tempi de L’attimo fuggente, film di formazione di un’intera generazione (e forse più), la poesia ha conosciuto una sorta di nuova primavera, pur rimanendo, di fatto, tra le voci più nascoste. Mezzo di comunicazione ormai tendenzialmente soppiantato dalla canzone, ha da sempre rappresentato al meglio il lato più personale ed intimo della letteratura, in grado di suscitare incontrollabili emozioni o la più glaciale indifferenza nel lettore, se non attraversata dai lampi assoluti del colpo di genio.
A tal proposito, soltanto qualche mese fa, Jane Campion offrì un’interpretazione delicata e potente della vita di John Keats, strabiliando critica, conquistando il pubblico ed arrivando perfino a fare breccia nel cuore del “cattivissimo” Tarantino, che si dichiarò, dopo la visione, convertito alla poesia. In questo senso, ed è meglio che sia chiaro fin da subito, il lavoro di Lee Chang-dong, per quanto eccellente, non rientra a pieno titolo nel novero dei lampi di genio di cui sopra. Da un lato, il cineasta coreano si trova infatti a confrontarsi con una tradizione orientale fatta di giganti e pietre miliari nel genere, dalle metafore di un Kim Ki-duk alla magia del miglior Kitano (Dolls, L’estate di Kikujiro, Hana Bi), passando per i capolavori di Ozu e Kurosawa (Il gusto del sakè e Vivere), tutti incentrati su figure di persone non più giovani costrette ad affrontare il peso inesorabile della vita. Dall’altro, Poetry sembra, a conti fatti, mantenere una sorta di distacco emotivo dal pubblico, che impedisce una reale empatia con l’evolversi della vicenda della signora Mija, nonostante sprazzi di grande coinvolgimento. Il rapporto con il nipote, in questo senso, risulta essere senza dubbio la marcia in più della pellicola, in grado di alimentare riflessioni profonde e regalare momenti di grande cinema – le partite di volano, in particolare quella che porta al confronto con la polizia –, degni di opere quali Memories of Murder e di ciò che di meglio il cinema coreano ha saputo mostrare in questi ultimi anni, perlomeno al pubblico occidentale.
In particolare, risulta curioso quanto la distribuzione italiana si sia concentrata sulla malattia della signora Mija – affetta dal morbo di Alzheimer in uno dei suoi primissimi stadi – e sul suo approccio al corso di poesia, più che sul rapporto con il nipote e sulla tragica vicenda che lo vede tra i protagonisti, legata peraltro a doppio filo con tristi vicende di attualità che viviamo e abbiamo vissuto anche nel nostro Paese. Le differenti visioni di Mija e del giovane Wook rappresentano, certo, una distanza incolmabile nel modo di approcciare l’esistenza, riassunta – in questo caso ottimamente – dal regista nelle sequenze girate all’interno dell’appartamento di Mija e nell’agghiacciante apatia che avvolge il suo giovane parente. In questo senso, l’uso della poesia assume i connotati di una sorta di riscatto etico e morale, un ritorno all’umanità perduto nel tempo e nella noia di vivere che fagocita ragazzi che dovrebbero essere sempre pervasi dal desiderio di “succhiare tutto il midollo della vita” e che, al contrario, si ritrovano ad essere esecutori non materiali di un orrore terrificante proprio perché celato dal quotidiano e dall’assoluta mancanza di valori. Come nel glaciale Elephant, qui i protagonisti della violenza si perdono così tremendamente nel loro vuoto da non giungere neppure fino in fondo, nel perpetrare il loro crimine, lasciando a genitori e nonni un testimone pesantissimo da portare in loro vece. Ma non saranno il denaro o gli accordi a mettere pace in questa storia, bensì la voce sommessa della tremante eppur granitica Mija, unica del suo corso di scrittura a presentare un componimento all’ultima lezione, quasi a comporre un’ellittica magia che possa permetterci di sperare nell’attimo di pace che la giovane vittima degli abusi del nipote e dei suoi compagni non ha avuto, e non avrà mai.
Una chiusura che trasmette tutta la forza del delicato grido di una protagonista indimenticabile, forse addirittura troppo grande per una pellicola che si consuma nei suoi silenzi senza mai giungere davvero al cuore, ma che resta, indubbiamente, una perla di cui fare tesoro per le nostre sale, sempre poco generose verso il cinema di nicchia. Un ultimo plauso va poi indirizzato alla straordinaria Yun Jeong-hie, che regala una performance in grado di eclissare regia, fotografia ed una sceneggiatura indubbiamente solida, tanto da far nascere il sospetto che, più che il premio per lo stesso script, all’ultimo Festival di Cannes sarebbe stata giusta e meritata una Palma a questa incredibile interprete, che quasi più del personaggio che interpreta pare portare sulle spalle tutto il peso di un’esistenza torbida per trasformarlo con le sue azioni in poesia pura. E il suo, senza dubbio, è il lampo di un genio.
TITOLO ORIGINALE: Shi; REGIA: Lee Chang-dong; SCENEGGIATURA: Lee Chang-dong; FOTOGRAFIA: Kim Hyun-seok; MONTAGGIO: Kim Hyun; PRODUZIONE: Corea del Sud; ANNO: 2010; DURATA: 135 min.
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