Bandiere capovolte: il cinema di Paul Haggis PDF 
Aldo Spiniello   

La stagione 2004/2005 consacra definitivamente Paul Haggis nel panorama del cinema americano. Tutto grazie a un’accoppiata vincente. La sceneggiatura di Million Dollar Baby, ennesimo colpo al cuore di Clint Eastwood,  e lo script e la regia di Crash – Contatto fisico, film trionfatore degli Oscar 2006, con tre statuette vinte: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura originale. Ma, prima di allora, Haggis aveva già scritto e diretto un lungometraggio (Red Hot, 1993) e messo in piedi un curriculum di tutto rispetto come creatore, regista e sceneggiatore di centinaia di episodi di serie TV (in particolare Walker Texas Ranger, trionfo repubblicano di Chuck Norris). Una carriera cominciata agli inizi degli anni Ottanta e portata avanti con una continuità e una coerenza di fondo che hanno fatto di Haggis uno degli sceneggiatori (e autori) più autorevoli di Hollywood, impegnato a tratteggiare una sorta di compendio critico di questi anni tempestosi degli Stati Uniti e a condurre una riflessione teorica sul senso e i limiti della sceneggiatura nel cinema del XXI secolo.

Del resto già Crash definisce, senza mezzi termini, il predominio della scrittura rispetto all’immagine, della struttura narrativa rispetto alla messa in scena. Ed è l’incipit anticipatore (che tornerà in The Next Three Days) ad affermarlo immediatamente. Qua si gioca col testo: non c’è margine d’errore. Haggis ambisce al ritratto di una metropoli multirazziale, Los Angeles, carica di odio e solitudini. E per questo mette insieme più (micro)storie, personaggi di diversa origine, estrazione, razza, lingua, religione, che si sfiorano o meglio si schiantano l’uno con l’altro, provocando scintille, crisi, tragedie, dolori, ma anche rinascite e speranze. L’impatto è notevole, anche perché lo sguardo è sempre alla ricerca del momento forte e il meccanismo della scrittura pare a prova di bomba. Ma se il film conferma le doti dello sceneggiatore, mostra anche i segni di uno stile di regia alla ricerca della propria cifra personale in un’immagine-azione (per dirla con Deleuze), che si fonda su indizi ed equivoci. Haggis riafferma così  anche sul piano visivo il primato della scrittura. Lascia tracce, dettagli significanti che torneranno necessari nella narrazione. E gioca con il senso (segno positivo o negativo) delle immagini, lasciando presagire sviluppi e implicazioni poi puntualmente negati un fotogramma dopo, nella dinamica “dialettica” e contraddittoria del montaggio. La bambina salta in braccio al padre e parte il colpo di pistola. La bambina è morta? No, sebbene tutto ci porti a crederlo. La pistola era caricata a salve, perché la figlia di Farhad, infuriata con l’armaiolo, si era fatta dare la scatola di proiettili sbagliata. E così a seguire ... Il ragazzo nero mette le mani in tasca e il poliziotto spara. Il nero aveva una pistola? Sì e no ... Doppio equivoco. Dei personaggi che prestano fede ad un’immagine, a un’apparenza immediatamente smentita dalla realtà. E degli spettatori, le cui attese sono continuamente smentite e, proprio per questo, alla lunga rispettate. Perché in effetti, il gioco a sorpresa alla fine mostra la corda. È questo il difetto fondamentale di Crash: l’evidenza disturbante del meccanismo, che facendo risaltare i segni della struttura, ne denuncia la finzione. Il film finisce per girare a vuoto, non consentendo più quella partecipazione che la regia sembra cercare a tutti i costi. Non resta che una serie di scene madri messe una di fila all’altra, singolarmente potenti, ma complessivamente disarmate dagli eccessi virtuosistici della sceneggiatura.

Ma proprio a questo punto, come in uno script perfetto, ecco la sorpresa. Il grande successo di Crash avrebbe indotto chiunque a un’immediata replica: formula vincente, non si cambia. Eppure Haggis cambia strada, forse spinto anche dalla collaborazione con Eastwood, per cui, dopo Million Dollar Baby, scrive la sceneggiatura di Flags of Our Fathers e il soggetto di Lettere da Iwo Jima. E, difatti, i segni dell’economia eastwoodiana appaiono, evidenti, nel terzo film di Haggis, Nella valle di Elah. Eppure la sostanza del metodo non sembra cambiare. L’idea di fondare tutto il racconto sulla dolorosa e “inutile” indagine privata del vecchio Hank Deerfield conferma la predilezione di Haggis per la piccola forma (ancora Deleuze), storie che vanno avanti per indizi, azioni che svelano a poco a poco le situazioni e le verità del disegno complessivo. Ma, rispetto a Crash, cambiano decisamente i toni e i risultati. Perché la scrittura di Haggis abbandona ogni tentazione virtuosistica per ritrovare la tensione morale dei suoi momenti migliori (quelli per Eastwood?) e scavare nelle pieghe segrete di una nazione ferita e impaurita. E soprattutto lo sguardo del regista rifugge dall’emotività sbandierata e ricercata a ogni costo, lavora sottovoce, affidandosi all’incredibile volto segnato di Tommy Lee Jones, all’intensità di Susan Sarandon, alla bellezza (eterna) di Charlize Theron. Un grande racconto che coniuga la forma dei classici alla problematicità critica della contemporaneità. Il salto è compiuto e dopo un altro episodio delle avventure di James Bond, Quantum of Solace, scritto dallo stesso collettivo di Casino Royale (Haggis, Neal Purvis e Robert Wade), arriva il suggello definitivo dell’idea di cinema e di mondo del regista e sceneggiatore canadese.

The Next Three Days è l’apoteosi della scrittura che si fa metafora scoperta, il racconto di un piano, cioè di un “disegno”, che segue le linee narrative del suo creatore, capace di riportare nei binari di senso unidirezionale anche gli imprevisti. Non avevamo capito che la festa era allo zoo? Poco male: c’è sempre una coppia di anziani a portata di mano. Haggis ritenta la dichiarazione teorica e poetica di Crash, ma alla luce dell’esperienza morale e politica di Nella valle di Elah. E riesce a dar vita a una perfetta simbiosi tra l’autore e il personaggio, facendo saltare tutti i confini. Al punto da non consentirci di capire se stiamo seguendo la sceneggiatura del professor John Brennan o il piano di evasione e fuga di Paul Haggis. Il virtuosismo è portato all’estremo, con tutto il suo gioco di indizi ed equivoci. Indizi: una moneta cade a terra? Dovrà tornare, prima o poi, rientrare nel sistema. Una giacca double-face: perché? Un sacco della spazzatura lasciato vicino casa. Perché? Equivoci: i due vecchi turisti in auto, mai inquadrati se non nel momento decisivo (sovvertimento delle regole di montaggio), il palazzo presidenziale di Haiti come depistaggio, e così via, sino alla fine. Cinema già scritto, ma anche cinema di volti intensi e indimenticabili: Brian Dennehy, Jason Beghe, Elizabeth Banks e soprattutto Russell Crowe, il più grande attore vivente, capace di sottrarsi alla sua essenza di divo, di muoversi sottopelle, per riesplodere in tutta la sua dolente umanità. Ed è grazie anche a questi volti se The Next Three Days diviene un nuovo grandissimo apologo morale, un racconto sulla necessità e il dolore della fede nell’altro, fede in una verità intuita nel profondo del cuore (tutti credono alla loro verità, Brennan, ma anche il poliziotto veggente, magnifica figura inverosimile, che sembra uscita dalle follie di Johnnie To e Wai Ka-fai).

È vero: al virtuosismo della scrittura non corrisponde sempre una regia adeguata, ma poco importa. Perché, in fondo, Haggis racconta proprio questo: l’immagine che rincorre la scrittura, come gli spettatori e i personaggi rincorrono il disegno del narratore/creatore, sempre dieci secondi più avanti dei suoi inseguitori. È vero: certe soluzioni narrative possono apparire eccessivamente esplicite, come la scelta di rimostrare l’omicidio per svelare definitivamente la realtà dei fatti. Ma questa evidenza della verità, delle dinamiche e delle metafore è sempre stata tipica di Haggis: la bandiera capovolta Nella valle di Elah, il fondamentale apparato retorico del suo cinema (che poi era il punto della questione in Flags of our Fathers), l’esplosione melodrammatica di Million Dollar Baby, a stento trattenuta da Eastwood. Tutto rientra proprio in quell’idea di “unidirezionalità” del senso, che è il fine ultimo del disegno, della scrittura, aldilà del gioco equivoco dei percorsi. Haggis non ha bisogno di fingere una problematicità da intellettuale. È capace di usare trucchi e magie come nessun altro, ma crede fermamente nel principio che film e sceneggiatura debbano comunque veicolare un’idea forte. Che è, fondamentalmente, la sua idea degli Stati Uniti, un paese ammalato di retorica, ipocrisia, razzismo, violenza e follia, ma pur sempre capace di guardare in faccia i suoi paradisi perduti e fare i conti con la propria debolezza. La famiglia può ritrovare pace solo altrove, magari in un albergo di Caracas. Ma la fuga è solo una parentesi, prima del ritorno. Perché la frontiera del cinema corre ancora lungo le strade d’America.

 


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