Elephant PDF 
di Carlo Valeri   

Palma d'oro all'ultimo festival di Cannes e prodotto dalla televisiva HBO, Elephant di Gus Van Sant è un'opera assolutamente estranea all'attuale panorama cinematografico a stelle e strisce. Da anni non vedevamo un film così profondamente rischioso e intelligente nella scrittura e così illuminante nella sua lucidità stilistica. Van Sant, il cui talento era sempre stato superiore all'effettivo valore dei suoi lungometraggi precedenti, conferma di essere estremamente abile in un contesto produttivo indipendente e questo in parte comincia ad avvicinarlo alla figura di un altro grande autore "maledetto" del cinema americano, Abel Ferrara, uno dei più sottovalutati maestri affermatisi negli ultimi decenni, maestro soprattutto nel saper/voler operare ai margini di un'industria complessivamente omologata. E non a caso sia la filmografia di Van Sant che quella di Ferrara, preziosissime entrambe, s'affievoliscono visibilmente se inserite nel contesto delle grandi produzioni hollywoodiane (lampanti sono i casi di Finding Forrester e Will Hunting di Van Sant e quello di Body Snatchers di Ferrara).

Tema dell'ultimo film di Van Sant è il terribile massacro consumatosi al liceo Columbine alcuni anni fa, già trattata da Micheal Moore nel suo appassionato ed importante Bowling a Columbine, avvenimento nella sua angosciosa violenza barbara estremamente emblematico per la nostra civiltà occidentale. Difficile che un argomento di questo tipo non scuota le coscienze di noi spettatori ed il successo ottenuto lo scorso anno dal film di Moore sta ad indicare il notevole interesse che questo suscita su un certo tipo di pubblico. Eppure Van Sant nell'accostarsi al tema evita accuratamente l'impulso di sciorinare i micidiali quesiti che essa impone e attraverso uno sguardo di precisione clinica sfrutta a pieno le potenzialità entomologiche del soggetto, affidandosi ad una regia fatta di lunghi e morbidi piani sequenza avvolti ora nel silenzio ora in un raffinato commento sonoro. La m.d.p. pedina i giovani personaggi in modo ossessivo ed analitico insieme, si sofferma su dettagli di poetica quotidianità in apparenza insistiti ma straordinariamente carichi di intensità alla luce dell'ineluttabile tragedia finale.

L'arte della sospensione, del non detto, del pedinamento documentaristico allontana Elephant dal look barocco di molte produzioni americane delle annate ultime, avvicinandolo semmai ad un'essenzialità estetica assai più conforme a quella d'un Antonioni o dei fratelli Dardenne. Ma ciò che probabilmente rimane di più, a visione conclusa, è probabilmente la scelta del regista americano di "moralizzare" il racconto privandolo di qualsiasi approccio consolatorio e didascalico, grazie ad una visione d'autore sorprendente nella sua rischiosità. In particolar modo l'ultima parte del film, nella crudezza della sua violenza, assume caratteri umanamente disturbanti e pone lo spettatore di fronte ad un dilemma voyeristico di rara problematicità, facendoci uscire dalla sala storditi, in parte indignati, afflitti ma anche commossi e con la netta sensazione di aver visto un piccolo film indelebile, capace di tramutare la propria disperazione di fondo in uno strozzato grido d'amore.

 


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