Da Il Divo a Gomorra: esigenze e potenzialità ritrovate del cinema di denuncia PDF 
Enrico Maria Artale   

ImageIn un certo senso è possibile affermare che la denuncia e l’impegno civile siano una caratteristica essenziale del cinema italiano, almeno dal dopoguerra in poi. Se risulta infatti difficile immaginare lo spazio per una possibile denuncia cinematografica nell’epoca fascista, che pure aveva affidato al cinema un ruolo fondamentale da un punto di vista politico e sociale, ma certo non in una qualsivoglia direzione critica, appare come un dato di fatto che fin dalla frattura determinante scatenata dal neorealismo il cinema italiano non ha mai smesso di occuparsi, magari con alterni risultati, dei problemi del paese. Forse soltanto la tradizione cinematografica francese ha assunto l’impegno politico con altrettanta solerzia: ma se in Francia tale impegno, peraltro ispirato dal neorealismo stesso, si è tradotto in una costante riflessione sulla forma cinematografica, in Italia le buone intenzioni si sono andate progressivamente appiattendo sull’idea di un cinema nobilitato esclusivamente dal contenuto, arrivando alla costituzione di un genere specifico codificatosi negli anni Settanta. Se è vero che non sono mancate le pellicole di notevole respiro e interesse, è altresì evidente come gran parte della produzione sia caratterizzata da un’assoluta povertà di spunti, oltre che da carenze prettamente cinematografiche. Soltanto la richiesta del pubblico e il suo riscontro commerciale giustificano in prima analisi una produzione così ampia, il che non liquida affatto l’interesse per il fenomeno ma apre ad una serie di importanti riflessioni.

Il successo del cinema di denuncia e il pullulare di film “impegnati” risponde ad un bisogno specifico dello spettatore italiano, forse più che di ogni altro spettatore al mondo: soltanto in un’ottica superficiale si potrebbe addurre la causa di questo bisogno alle ipotetiche caratteristiche dell’italiano stesso: lamentoso, scontento, diffidente. A ben vedere queste stesse caratteristiche devono essere messe in relazione con la peculiarità della storia politica italiana, non soltanto recente. La storiografia insegna la complessità estrema della realtà politica del bel paese, che in epoca moderna la differenzia non poco dalle altre identità nazionali: la frammentazione, l’ingerenza delle monarchie estere, il ruolo del Vaticano, la strategica posizione geografica, e numerosi altri fattori hanno reso l’Italia il luogo ideale per sofisticati intrighi di potere, se non, come è stato giustamente detto, una sorta di laboratorio del politico in cui i grandi protagonisti europei hanno potuto sperimentare sistemi e metodologie. Troppo semplice quindi considerare in maniera distinta la preminenza culturale dell’Italia e la sua situazione politica, come se all’originalità della prima si opponesse l’arretratezza della seconda: a partire da Il Principe di Machiavelli, le vicende italiane e la conseguente riflessioni storico-filosofiche non hanno probabilmente eguali, in quanto ad esemplarità ed acume, nell’intero mondo occidentale. Lungi dall’essere un semplice fanalino di coda dell’Europa, il bel paese ha spesso precorso i tempi, anche e soprattutto nell’applicazione delle politiche più aberranti (e il fascismo è in questo senso l’esempio illuminante). Il rapporto peculiare del cittadino italiano con la politica, certo assai diverso dal modello inglese, risente di questa stratificazione culturale, della percezione dell’enigma quale normalità dei meccanismi di potere. Da qui l’esigenza di denunciare, di per sé positiva, e il parallelo bisogno di assimilare le proteste, assecondando in termini spesso deleteri la propria fallimentare tendenza alla lamentazione. L’ingenuità non fa certo parte del suo bagaglio personale, per quanto in molti casi si arrivi a posizioni latentemente paranoiche che, come è stato giustamente scritto, generano teorie complottiste che sono soltanto un diversivo in seno al capitalismo borghese. Ecco dunque come il confine tra l’impegno civile e il profitto sia assai più labile di quanto ci si potesse immaginare, e certamente questa ambiguità ha giocato un ruolo importante nella proliferazione di film a carattere politico negli anni Settanta.

ImageAl tempo stesso, però, non bisogna sottovalutare la specifica situazione in cui tale produzione si è sviluppata. Se prima abbiamo sottolineato come l’unicità della storia del potere nel nostro paese sia riscontrabile fin dagli inizi della storia moderna, adesso è bene sottolineare come lo scenario politico degli anni Settanta risulti così tremendamente complesso e irrisolto da non avere anch’esso eguali in Europa. In esso si intrecciano interessi molteplici, anche ascrivibili a poteri esterni, quasi che l’Italia potesse essere stata, per l’ennesima volta, un vero e proprio campo di battaglia designato. Inutile elencare in via preliminare l’inquietante serie di misteri e tragedie che avvolgono quei decenni, e su cui il mondo culturale italiano si è interrogato più volte e a diversi livelli. A distanza di anni la quasi totalità di tali eventi resta avvolta nel buio che li ha resi possibili, guadagnando in via forse definitiva lo statuto del mistero, dell’enigma, dell’indecifrabile che non dà adito a possibili spiegazioni, ma soltanto ad un perpetuarsi di ipotesi, di congetture che non fanno altro che accrescerne la forza sommessa. Determinante in questo senso resta il ruolo dell’informazione, quale ponte necessario e decisivo tra il potere e la massa nella società contemporanea. Proprio la fitta e spesso quasi imperscrutabile rete di interessi ha gettato un’ombra sul ruolo effettivo svolto dall’industria della comunicazione in Italia. Se è vero che i sospetti sull’informazione possono rientrare nell’idea ingenua di un sistema controllato da soggetti determinati, e dar vita ad inquietudini dilaganti e non sempre giustificate, così ben rappresentate da un intero filone del cinema americano, è altrettanto vero che in Italia il sospetto di un’informazione allineata con gli interessi di volta in volta predominanti, in stretta connivenza con gli organi dell’esecutivo, si è alimentato sulla base di fatti storici difficilmente liquidabili come espressioni di attitudini paranoiche. Un episodio su tutti: la morte del bandito Giuliano, anche isolata dalla strage di Portella della Ginestra. Si tratta di una paradigmatica menzogna pubblica, un perfetto esempio di falsa notizia, che come insegna il grande storico Marc Bloch costituisce un oggetto privilegiato e illuminante per la ricerca storiografica.

ImageIl cinema è dunque chiamato in causa da una parte dalla specifica realtà della politica in Italia, dall’altra dalla povertà di informazione che circonda una serie di eventi e di personaggi. Del resto l’impegno politico risponde ad una caratteristica essenziale e in parte sovrastorica del cinema, vale a dire il suo peculiare rapporto con la realtà. Ma se questa vocazione critica si è sviluppata in Italia fino a costituire un genere, con tutte le controindicazioni che ciò comporta, è principalmente per questa duplice provocazione. Il filone del cinema di denuncia però ha avuto una sua stagione, in gran parte conclusasi con la metà degli anni Ottanta, da sempre definiti, non senza una notevole generalizzazione, gli anni del disimpegno, in Italia come all’estero. Ciò di cui vorremo occuparci in questo scritto, e cioè la ripresa di un interesse verso un certo tipo di cinema, richiede una nuova disamina delle motivazioni interne, pur restando valide le premesse storiche sulla storia politica italiana e sul rapporto tipico del cittadino italiano con il potere. Anche in questo caso si può parlare di una duplice motivazione: da una parte, infatti, abbiamo un’esigenza legata al momento storico, dall’altra, forse, una consapevolezza del differente compito affidato al cinema in via potenziale. Sotto un certo punto di vista la realtà politica italiana appare in un momento di transizione: non tanto la recente transizione, tanto declamata quanto inesistente, da un modello politico obsoleto ad uno più moderno, quanto la transizione verso una possibile Seconda Repubblica, avviatasi con lo scandalo di “Mani pulite” e di fatto mai realizzatasi compiutamente. Stando ad un’analisi più profonda, capace di prescindere dalle individualità “scese in campo”, siamo invece nel segno della continuità con il passato, una continuità metodologica pressoché sistematica. L’epoca delle stragi e della strategia della tensione non è dunque terminata, nel senso che, pur nell’assenza di fatti di eguale portata, le procedure politiche che l’hanno in parte resa possibile si perpetuano in modo sostanziale, mantenendo nell’ombra e nel mistero la storia politica di quei decenni. Tuttavia, ciò che negli ultimi anni ha probabilmente spinto il cinema e parte del mondo culturale a tornare con una certa veemenza su determinati fatti è la sensazione che con questa confusa fase di transizione, e con il tramonto di una generazione che ha fatto la storia della politica italiana, l’oscurità che avvolge quel periodo di storia si appresti a diventare definitiva. È il senso del titolo del film di Marco Bellocchio, Buongiorno notte, che appare soltanto nel finale, scritto in rosso sulle immagini di repertorio del funerale di Aldo Moro, ad indicare che quell’evento saluta l’avvento della notte della politica italiana, una notte che senza alcun dubbio è tuttora in corso. E, da ultimo, anche Il Divo, di Paolo Sorrentino, condivide la stessa percezione fatale della continuità profonda tra gli anni di piombo e il presente della politica, continuità testimoniata dalla emblematica figura di Giulio Andreotti.

ImageLa volontà del cinema di denunciare oggi (nei casi migliori in modo assai diverso rispetto al passato) quei fatti della storia italiana suona come un ultimo appello della razionalità umanista alla possibilità di comprensione, nella consapevolezza che la concretizzazione semplificante di una “versione ufficiale definitiva” è ormai dietro l’angolo. Ma questa esigenza, che riguarda in modo specifico il momento attuale della politica in Italia, si muove parallelamente ad un’altra motivazione fondamentale, solo in parte giunta alla consapevolezza e alla conseguente maturazione pratica. Si tratta del rinnovato e differente ruolo del cinema nel momento in cui la società ha ridefinito in termini radicali la sua crescente medializzazione, attraverso la rete e il proliferare dei flussi visivi. Lungi dal poter rivendicare con esclusività sia il suo statuto audiovisivo, ormai condiviso da tempo e su larga scala usurpato dalla televisione prima e dalla rete poi, sia il suo porsi come unico sguardo alternativo, (di fatto il canale “ufficiale” dell’informazione alternativa - l’ossimoro va preso alla lettera - è sempre internet), il cinema sembra chiamato a riformulare proposte alternative mediante una costante ridefinizione dell’aspetto audiovisivo per come esso è stato assunto dagli standard della comunicazione. È un cinema diverso quello che oggi può affrontare determinati eventi, un cinema che paradossalmente può beneficiare di quel sovrappiù di immagine che sembrerebbe escluderlo e che invece può fornire nuovi strumenti critici. Non è detto che il recente cinema italiano di denuncia sia pienamente consapevole di tutto ciò, né sembra che si sia mosso, salvo alcune eccezioni, in questa direzione, ma certo in questa nuova proliferazione di film di impegno civile è presente la coscienza di un nuovo potere critico affidato agli autori. A tutto ciò si sovrappone la tendenza del cinema italiano, a volte anche nauseante, a ritornare indietro di alcuni decenni, agli anni Settanta soprattutto. È evidente come ciò sia dovuto ad un elemento generazionale, poiché la maggior parte dei registi di rilievo è molto legata a quel periodo di cambiamenti osservato allora con gli occhi e lo spirito giovanile. Se è certo che nell’identità culturale di un autore il vissuto e l’esperienza giovanile giochi un ruolo fondamentale, è anche vero che forse i registi italiani hanno esagerato nel focalizzare l’attenzione su un determinato periodo, talvolta  in modo quasi nostalgico, provocando speso l’accusa di non saper guardare al presente con intelligenza, al pari di autori europei o americani. Senza dubbio ci sono stati anche dei buoni risultati, sia in presenza di un progetto impegnativo e ambizioso, come è stato La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, sia relazione ad un’idea più vicina alla commedia, come ad esempio avviene in Mio fratello è figlio unico di Daniele Lucchetti. Film come questi si sono concentrati sulla ricostruzione della realtà quotidiana di persone normali, di individui anonimi, che in qualche modo però possono riassumere razionalmente ed emotivamente una moltitudine di situazioni analoghe componendo così un affresco dell’epoca. C’è l’idea di voler cogliere lo spaccato di vita particolarmente significativo, la storia esemplare eppure comune, laddove tutti o quasi potrebbero identificarsi in uno dei tanti personaggi disposti nella narrazione. Da questa idea di ricostruzione del passato, che rischia però costantemente di lasciare eccessivi spazi allo stereotipo e alla convenzione narrativa, si distingue nettamente quel cinema che punta direttamente al fatto storico, all’evento o al personaggio pubblico, cercando di guadagnare, attraverso l’analisi e la decostruzione, nuove risorse testimoniali per un’epoca tutta. È il caso appunto del già citato film di Bellocchio, o anche, e qui l’appartenenza ad un’altra generazione è determinante, dell’ultimo film di Sorrentino. In maniera forse analoga a quanto aveva fatto Todd Haynes con Bob Dylan, nel suo film Io non sono qui, seppur in un contesto tematico assai differente, l’idea fondamentale de Il Divo è che attraverso la focalizzazione, non priva di immaginazione, su un personaggio celebre, chiacchierato, su cui è stato scritto e detto di tutto, e che funge da perno per l’intera storia politica italiana compresa quella più sinistra ed enigmatica, si possa gettare uno sguardo complessivo su un sistema, su un periodo storico, su un paese. Non si tratta di una mancata attenzione dedicata alle persone comuni, quanto della consapevolezza che non soltanto i destini di queste sono intrecciati con quelli di alcuni individui particolari, ma anche che nella stessa quotidianità anonima la riflessione o l’immaginazione risente di quei meccanismi del potere mediatico ormai costituitivi della società e della politica. Ecco innanzitutto perché film di questo secondo tipo possiedono un capacità più incisiva di effettuare quel passo, o quel salto mortale, di fronte al quale il cinema di denuncia non dovrebbe mai tirarsi indietro, e cioè l’apertura sull’universale, l’uscita dall’orizzonte del fatto storico specifico in direzione di un discorso potenzialmente rivolto a chiunque, anche a chi potrebbe non essere particolarmente interessato all’evento specifico, come ad esempio il cittadino di un altro paese. Un’apertura che di fatto rende improvvisamente sterile la categoria di film di denuncia perché li inserisce in un orizzonte che il grande cinema apre costantemente, oltre le distinzioni di genere. Non è un caso che nei due film citati finora (in cui volutamente non siamo entrati in merito sulla qualità complessiva restando sul livello di una discussione intorno all’idea centrale), Buongiorno notte e Il Divo, il respiro sovrastorico della vicenda è reso possibile a partire da un decisivo allontanamento dalla realtà (evidente e provocatorio nel primo, sommerso dalla messa in scena nel secondo). Se la camminata di un Aldo Moro fuggitivo, capace di elevare il film oltre l’ipotesi della ricostruzione, costituisce una sorta di dichiarazione in questo senso, la terribile confessione rivolta allo spettatore da Giulio Andreotti, volutamente inverosimile tanto nei temi quanto nei toni, non è da meno: improvvisamente la riflessione del film si sposta dalla storia italiana alla relazione tra il potere e il legame indisgiungibile tra Bene e Male, che pure la storia stessa aveva posto in luce. Nelle parole del presidente riecheggia addirittura la Leggenda del Grande Inquisitore, da I Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Singolare la possibile associazione che ne consegue, probabilmente involontaria, tra il bacio di Cristo, e il bacio di Totò Riina…

ImageDunque l’esigenza di nuovo cinema di denuncia, che non si limiti a ricostruire un periodo storico ma sia in grado di affrontare eventi epocali e personaggi chiave della storia repubblicana, richiede una sapiente gestione cinematografica della complessità, complessità messa in gioco dalla storia stessa. Per ora abbiamo sottolineato soltanto l’importanza del contributo immaginativo ai fini di un allargamento del discorso, ma ciò è soltanto una parte del lavoro a cui sono chiamati gli autori, ossia quella continua ricerca linguistica e narrativa che, senza sfociare nel manierismo, risulta assolutamente imprescindibile. Ciò che è deleterio per un cinema che vuole riconquistare un impegno civile, ciò che è stato e che spesso continua ad essere la causa del fallimento complessivo di questo cinema (fallimento dal quale solo pochi autori, e vedremo in che misura, riescono ad esimersi), è il falso ideale del cinema di contenuto, ossia la presunzione che possa esistere un cinema giustificato e nobilitato esclusivamente dalle proprie buone intenzioni e dall’importanza civile dell’argomento trattato, autorizzato ad esimersi da una qualsivoglia riflessione formale. Non si tratta di un problema esclusivamente nostrano, ma forse all’estero non si sono avuti risultati talmente dequalificanti, o semplicemente non sono giunti fino a noi. Non è una ricerca a cui è obbligato tutto il cinema, ed anzi il cinema di intrattenimento, anche il migliore e il meno sterile, ha tutto il diritto di fare a meno di tale ricerca, lavorando su modelli predisposti ad esso. Ma un autore che voglia accostarsi a soggetti di un certo tipo non può limitarsi ad una costruzione del film indifferente al soggetto stesso, e l’idea di un’onestà tecnico-professionale è del tutto insufficiente: non è possibile affrontare seriamente un tema politico pensando di raccontare una storia semplicemente, in modo tecnicamente ineccepibile ma formalmente in linea con una buona fiction televisiva. Non soltanto si rischia, attraverso il passaggio per la standardizzazione, di far ulteriormente decadere la qualità del film, perdendo di vista le vere possibilità lasciate ad esempio al montaggio o alla fotografia, anche in senso tradizionale, ma si contribuisce all’inserimento del politico nel flusso indistinto dell’immagine tenue, non problematica, fruibile e dimenticabile, assimilabile senza bisogno di alcun metabolismo. Se si vuole realmente evitare questo rischio, e capire come alcuni tra i migliori registi italiani sono riusciti in parte ad evitarlo, è bene comprendere cosa si intende per ricerca linguistica.

ImageInnanzitutto è bene specificare, per quanto la terminologia qui possa generare confusione, che non si tratta di una ricerca stilistica, nel senso di una particolare cura delle inquadrature, del montaggio, della musica etc, o almeno assolutamente non in senso esclusivo. In senso esclusivo sarebbe manierismo ai limiti dell’autoreferenzialità. Si tratta di modi e procedure, assolutamente eterogenei tra loro, a volte incompatibili, attraverso i quali autori diversi tentano di intervenire sulla realtà storica, trovando una tensione critica o testimoniale in quell’inevitabile alterazione reciproca dello sguardo e del guardato, misconosciuta dalla versione semplificata del cinema veritè o del neorealismo cui tanto scadente cinema di denuncia vorrebbe richiamarsi. Il discorso esula dal cinema strettamente di denuncia, o forse ne mette in discussione la categoria tradizionale: difficile (e inutile) stabilire se Nuovomondo di Emanuele Crialese sia o meno un film di denuncia (certo non manca la memoria storica). Ma se questo è uno dei migliori prodotti del cinema nazionale degli ultimi anni è perché in esso sono attive, almeno in parte, procedure di scambio e determinazione reciproca tra osservazione e realtà, tra soggettivo e oggettivo. Non che si voglia sminuire con questo la maestria dimostrata dal regista nelle grandi sequenze della partenza dalla Sicilia o della tempesta, sequenze che fanno certamente la grandezza del film, ma forse sarebbero state di per sé insufficienti. Fermo restando che la bellezza ha margini soggettivi e che può esservi bellezza anche quando questa non sia ricercata, la bella inquadratura o la bella illuminazione non sono l’obiettivo del lavoro formale. Il che non vuol dire affatto che la forma passa in secondo piano in vista del contenuto, ma significa ch la ricerca determinante non concerne il bello o il piacere che da esso consegue, ma piuttosto un piacere della riflessione e della comprensione che proviene dal riconoscimento di una complessità (o anche un turbamento, un dispiacere dovuto all’impossibilità della comprensione stessa). È in questo senso che va intesa la ricerca linguistica, ed è in questo senso che acquistano un particolare valore film come Buongiorno notte, o anche, in maniera differente, Il caimano di Nanni Moretti. Nel film di Bellocchio, che sotto certi aspetti può risultare tecnicamente irrilevante o superficiale nella descrizione di alcuni personaggi, ciò che assume importanza in tal senso è l’aspetto mediale, l’utilizzo reiterato ed originale delle immagini di repertorio, il riferimento costante, diegetico e non, al video, alla televisione. Non è soltanto un elemento che contribuisce alla ricostruzione del periodo storico, alla caratterizzazione dell’atmosfera dell’epoca. È invece un continuo decostruire la realtà stessa, un continuo chiamare in causa il presente quale consunto spettatore del passato, dell’archivio, della storia filmata (la lezione di Godard e delle Histoire(s) du Cinema è in questo senso imprescindibile). Dunque qui è l’aspetto intermediale, per usare un’espressione di Pietro Montani, ad entrare prepotentemente in gioco nella costruzione del film, che fa dialogare immagini appartenenti a statuti diversi nel tentativo di operare una ridefinizione reciproca che possa aprire nuovi scenari alla comprensione storica. Recentemente è stato Brian De Palma a radicalizzare questa procedura nel suo film Redacted, per quanto lì il materiale sia interamente ricostruito, preso da un archivio possibile e reso realmente archiviabile (o impossibile da archiviare, a seconda dei punti di vista). Nel film di Moretti, che forse possiede ancora più difetti nella costruzione dei personaggi o delle scene, o nella scelta abusata e infelice della crisi matrimoniale come trama di fondo, il meccanismo della denuncia chiama invece in causa le procedure della finzione, della messa in scena cinematografica (l’autore sembra in questo caso più debitore di Kiarostami che non di altri). Non soltanto il film è costellato da alcune sequenze che ricostruiscono in chiave spesso grottesca episodi della vita di Silvio Berlusconi, sequenze la cui relazione diegetica con il film non è esplicitata, per quanto sappiamo che il progetto di un film su Berlusconi sia al centro del film stesso. Ma nel finale, giustamente apprezzato come momento migliore del film e in qualche modo in grado di riqualificare tutta l’opera, è lo stesso Moretti ad interpretare Berlusconi (è vero che la storia ci prepara alla possibilità che ciò avvenga, ma è altrettanto evidente la presenza di uno scarto improvviso, che rende la sequenza finale quasi indipendente da tutto il resto). Anche qui lo scarto con la realtà è determinante e lo scenario futuro prospettato dal film non viene mitigato, ma anzi guadagna la forza decisiva dalla esplicitazione della costruzione filmica, enigmaticamente rafforzata dalla identificazione ossimorica Moretti-Berlusconi, laddove resta pressoché indecidibile se ad interpretare Berlusconi sia il personaggio a sua volta interpretato da Moretti, o non sia piuttosto Moretti stesso, in quanto autore e soggetto politico, a vestire i panni dell’attuale Presidente del Consiglio.

ImageUn altro film che merita sufficiente attenzione tra quelli usciti negli ultimi anni è senza dubbio Segreti di stato, di Paolo Benvenuti. Il film, che ha avuto un’eco senza dubbio minore rispetto a quelli citati in precedenza, vuole riportare l’attenzione sulla strage di Portella della Ginestra, cui in parte era già stato dedicato Salvatore Giuliano, il film di Francesco Rosi che rappresenta forse il vertice espressivo della cinematografia d’impegno civile degli anni Sessanta, assieme a La battaglia di Algeri, proprio per la capacità condivisa con il film di Pontecorvo di rivoluzionare la messa in scena assorbendo gli stilemi del documentario (entrambi i registi non riuscirono mai neanche ad avvicinarsi ai risultati ottenuti in questi due lavori, il che rende conto dell’esigenza radicale che li sosteneva). Segreti di stato, tuttavia, si ritaglia uno spazio ed una prospettiva diversa rispetto al film di Rosi, che pur indicando il mistero non si avventurava esplicitamente in una ipotesi concreta: tutto il contrario per l’opera di Benvenuti, concepita come un’inchiesta giudiziaria in forma di dialogo. Anche in questo caso vengono rese manifeste le procedure rappresentative: non si tratta però di quelle specificatamente cinematografiche (anche se forse, nella scena del processo, la presenza di proiettori cinematografici nell’inquadratura va in questa direzione), ma piuttosto di qualsiasi procedimento di ricostruzione simbolica. Così nel film si utilizzano plastici, oggetti d’uso, carte da gioco e quant’altro nel tentativo quasi ossessivo di ricostruire l’accaduto. A questa brillante scelta di regia, che culmina nell’ipotesi del complotto mondiale, Benvenuti associa il suo stile asciutto e inattuale mutuato dall’ultimo Rossellini e da Bresson. Il rapporto cinematografico con la strage non è pensabile se non indirettamente, mediante disegni, documenti, e testimonianze vocali. Non è possibile una ricostruzione, ma soltanto una ricostruzione delle ricostruzioni.

Quasi del tutto opposto è invece il caso dell’ultimo lavoro di Sorrentino, Il Divo. Sorrentino, infatti, ricostruisce tutto, lasciando ampi margini alla stilizzazione e al grottesco: gli omicidi, i personaggi, i dialoghi. E lo fa utilizzando fino in fondo i clichè del cinema contemporaneo, soprattutto del cinema di azione (straordinaria in questo senso la sequenza in cui viene presentata la corrente andreottiana). Se prima avevamo detto che la ricerca linguistica non dovrebbe arrivare al manierismo incentrandosi soltanto sullo stile, il film di Sorrentino svolge la funzione di un geniale paradosso: concentrandosi in modo maniacale sugli aspetti formali e stilistici, sulla sontuosità della messa in scena come sul virtuosismo di alcune soluzioni tecniche, Sorrentino lavora sul proprio manierismo, che era forse quasi di peso nei film precedenti, spingendolo oltre se stesso, finalizzandolo in relazione al soggetto. Il Divo sembra essere talmente un esercizio di stile da non poter essere più considerato tale: in questo caso tutt’altro che vuota, la forma straripante ed esplosiva del cinema di Sorrentino trova nella figura di Giulio Andreotti una chiave per penetrare nell’idea stessa del potere. Tutti gli orpelli stilistici non fungono da contorno decorativo, ma partecipano intelligentemente proprio perché il loro statuto di clichè è palesato dal film stesso. Un clichè cinematografico che stride con l’immagine che abbiamo della politica, immagine anch’essa costruita secondo clichè (televisione, internet, ma anche cinema d’inchiesta). Se, in parte, il finale de Il caimano, con il fuoco che divampa alle spalle di Moretti/Berlusconi, anticipava la strada percorsa da Sorrentino, Il Divo rappresenta un enorme sviluppo pluridirezionale: al contrario di Benvenuti, a Sorrentino non interessa intraprendere un’inchiesta sul passato, poiché di fatto il suo film non dice niente di inedito sul conto di Andreotti, ma interessa ridefinire la nostra percezione audiovisiva del personaggio (e con lui di una intera classe dirigente), scardinarla violentemente dal quadro televisivo in cui la nostra immaginazione indotta la relega. Il suo film perfetto e chiuso su di sé si fonda in realtà sulla dialettica con l’immagine pubblica che la nazione ha di Giulio Andreotti, tenuta viva nel fuoricampo dall’immagine mentale presente nello spettatore. In questo senso si tratta di un lavoro estremamente originale ed intelligente, basato in tutto e per tutto sul paradosso: la violenza reiterata, ad esempio, non è gratuita soltanto perché adopera in modo manifesto il clichè stesso della violenza gratuita, ricontestualizzandolo. Di fronte a quella sensazione di cui parlavamo in precedenza, e cioè che certi avvenimenti appaiono in procinto di essere definitivamente relegati nell’oscurità, dimenticati o archiviati secondo la versione ufficiale, Sorrentino ha scelto, come ultimo rimedio, di effettuare un’operazione di riprogettazione immaginifica della storia (nel senso che ridefinisce l’immagine e al tempo stesso usa l’immaginario per ridefinire) che possa provocare l’effetto di un salutare pugno nello stomaco. E l’effetto è garantito poiché, pur risultando spiazzante e incredibile, risponde visivamente ad un’idea inquietante del potere che il cittadino italiano ha sempre in un certo senso percepito, dietro la maschera bonaria mostrata dalla classe politica.

ImageAnche Gomorra di Matteo Garrone possiede un impatto violento sul pubblico, ma ciò avviene in virtù di ben altri elementi. Difficile immaginare due film più diversi. Intanto il film di Garrone, nel complesso tentativo di trasportare cinematograficamente il contenuto del libro di Roberto Saviano, non si concentra ovviamente su un singolo personaggio, ma offre lo spaccato di vita, l’intreccio delle storie anonime legate in un modo o nell’altro alla camorra. Il senso dell’operazione è però ben più importante rispetto a quelle ricostruzioni nostalgiche di cui in precedenza avevamo sottolineato i limiti. Gomorra risponde innanzitutto ad un’urgenza, in una misura che non ha eguali nel cinema italiano contemporaneo, e forse europeo: è un film che in un certo senso, quasi fosse l’eccezione alla regola, parte già legittimato dai suoi propositi, dalla relazione con il libro, dalla incomparabile urgenza del problema civile. Il regista ha evitato di proseguire la ricerca stilistica intrapresa con L’imbalsamatore e Primo amore (non del tutto convincente per alcuni), lavorando in un’altra direzione: camera a mano, assenza di musica non diegetica, uso dello sfocato, e altri stilemi tipici di un certo di cinema d’impegno (più all’estero che in Italia). In questo modo ha adattato intelligentemente la forma filmica alla natura della storia e del problema: la miseria, la crudeltà, la freddezza, sono esaltate espressivamente in modo ammirevole. Tuttavia, pur nel riconoscimento della qualità e dell’assoluta importanza del film, è bene sottolineare come l’operazione stessa di Garrone risenta in un certo senso di un manierismo speculare rispetto a quello di Sorrentino, ma meno significativo da un punto di vista autoriale. È stato detto, anche giustamente, che di fronte ad un film come Gomorra risulta sterile mettersi a discutere in merito a montaggio, fotografia, etc. Certo discussioni di questo genere rischierebbero di perdere di vista proprio l’esigenza profonda che è alla base del film, e che è continuamente attestata dal film stesso. Ma non si può tralasciare, neanche per Gomorra, un discorso su ciò che Pasolini chiamava l’“idea formale”, qualcosa che non si riduce affatto ad un elenco di procedure stilistiche, ma che determina concettualmente l’opera, anche e soprattutto in relazione a quelle che sono le esigenze etiche dell’opera stessa. È in questo senso che Gomorra è un film poco personale, forse troppo poco per essere considerato tout court un capolavoro. Garrone ha compiuto alcune scelte privative fondamentali, ma ciò può non bastare: egli cade per così dire in una differente retorica, in un differente clichè visivo (appunto camera a mano, sfocati, nessuna musica) senza riuscire a radicalizzarne la forza, concedendosi quasi alcune cadute di stile in termini di rigorosa coerenza visiva (una su tutte il dolly sui corpi dei camorristi uccisi). Pur individuando le procedure giuste per accostarsi al tema, egli non arriva mai a possedere, ad esempio, la forza cinematografica di un film dei fratelli Dardenne. O per fare un altro esempio calzante, e ugualmente affine quanto ad utilizzo di determinate tecniche, si potrebbe pensare ad Elephant di Gus Van Sant, dove lo shock prodotto dalla vicenda reale è portato all’impatto massimo dallo shock assoluto determinato dalla radicale originalità della messa in scena. Ciò non avviene in Gomorra, la cui grandezza è piuttosto dovuta al lavoro sugli attori e sulle location, alla brillantezza di alcune sequenze, al taglio dato alla storia.

ImageIl film, pur non essendo così significativamente autoriale, non rischia comunque di cedere a quel falso ideale del cinema di contenuto che prima indicavamo come uno dei peggiori feticci concettuali in campo cinematografico. Cedimento che costituisce invece quasi la regola per gran parte della produzione italiana d’impegno. Non che i registi trascurino deliberatamente gli aspetti formali dell’opera, ma si limitano a ricercare una fotografia ed un montaggio ben fatti, una sceneggiatura ben scritta, una buona recitazione. Indipendentemente dai giudizi che si possono dare in merito ai risultati non è certo questo un approccio con cui si può pensare di affrontare cinematograficamente temi di una certa rilevanza etica: film come Alla luce del sole di Faenza, Placido Rizzotto di Scimeca, I cento passi di Giordana, per non parlare dei molti qualitativamente inferiori, risentono di un’idea di cinema filosoficamente assai povera, per quanto possano aver meritoriamente posto l’attenzione su personaggi esemplari della lotta alla mafia. Allo stesso modo, anche film incentrati sugli spaccati sociali e criminali possono sì richiamare l’attenzione su un problema (ma tanto questi richiami dell’attenzione sarebbero comunque frequenti, sono le modalità del richiamo ad incidere), ma possono offrire poco a proposito perché viziati da una fatale carenza riflessiva. È il caso di Luna Rossa di Capuano o Pater Familias di Patierno. È anche il caso di Romanzo criminale di Placido, mitigato dalla differente aspirazione del film, che certo si indirizzava più verso l’intrattenimento che verso l’impegno, e che comunque resta, pur nella bravura degli attori, nell’eleganza della fotografia, nel respiro della messa in scena, un film che non ha assolutamente niente da dire o da mostrare.

Ecco allora che subentra un altro elemento, inevitabile rovescio della medaglia di un cinema che si vorrebbe di denuncia e di impegno civile, e che al di là delle proprie buone intenzioni è reso possibile da qualcosa che in un modo o nell’altro è indubbiamente più in sintonia con l’industria della comunicazione: la vendita. La vendita della denuncia, la vendita dell’impegno. Non che le opere migliori siano necessariamente incommerciabili, poiché altrimenti la loro distribuzione sarebbe minima e resterebbero colpevolmente prodotti di nicchia, ma esse non rinunciano ad introdurre una riflessione complessa al di là degli standard dell’industria culturale, costringendo in un certo senso quest’ultima ad accoglierle in virtù di una eccezionalità incensurabile. Pur attraverso procedure diverse come utilizzo dei media, esplicitazione dei meccanismi rappresentativi, stilizzazioni esasperate, o rigore della visione, questi film mantengono il loro margine di resistenza etica al regime contemporaneo dell’immagine, configurando formalmente in tale resistenza realtà e necessità del cinema di denuncia.

 


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