Dogville PDF 
di Emanuele Rozzoni   

Osservata dall'alto, come disegnata su una lavagna nera sospesa orizzontalmente nel vuoto, la mappa di una città in cui sembrano muoversi piccoli esseri viventi. Poi lo sguardo si avvicina: riusciamo a distinguere i nomi delle poche vie scritti su un asfalto immaginario; i perimetri delle case senza tetti, senza mura, senza niente se non qualche oggetto, tracciati con un gesso bianco sulla lavagna nera; e, inscritti in quei perimetri, i nomi degli abitanti di quelle case. Le case di Dogville.

Fin dalla prima scena del nuovo film di Lars Von Trier, si impone la presenza di uno sguardo mosso dall'urgenza di dominare tutto, e che per questo, sapendosi viceversa naturalmente limitato, si è ri-costruito il suo stesso visibile isolandolo in uno spazio sospeso e irreale che lo rende dominabile. Non c'è niente dunque, nella scenografia di Dogville, che lo sguardo non possa abbracciare o attraversare, proclamando così la propria volontà programmatica, non scevra da perversione, di guardare attraverso le pareti delle case e dell'anima, di scrutare le reazioni di quei doppi di noi che sono i personaggi-uomini sullo schermo, finzioni in carne e ossa, cavie da laboratorio, al fine così di tracciare una mappa della nostra umanità, della nostra moralità.

Risolto il limite della propria non-onniveggenza, lo sguardo del regista non si pone più "ostruzioni" e si muove libero, ora contemplando tutto dall'alto, da una distanza "oggettiva", ora scendendo in mezzo ai personaggi e osservando da vicino i loro comportamenti. Significativo l'uso, in questo contatto ravvicinato, della macchina da presa a mano (quel che resta del "Dogma"), che se da un lato permette appunto di braccare i personaggi per meglio studiarli, dall'altro introduce lo spettatore nello spazio scenico, dandogli la sensazione di partecipare agli eventi, e che quegli eventi lo riguardino da vicino. E dunque: distanza (oggettiva) e vicinanza (coinvolgente) da etologo; questi sembrano essere i due poli fra i quali si muove con libertà premeditata lo sguardo di Von Trier su Dogville.

In ultima analisi: la volontà quasi ossessiva di guardare tutto e tutti da ogni possibile punto di vista si sposa con l'esigenza di studiare, comprendere e giudicare. Perversione vouyeuristica e istanza morale dello sguardo si incontrano così in Von Trier, fondendosi e generando il miracolo di una lucidità spietata dell'occhio cinematografico.

La stessa volontà di abolizione dei limiti che abbiamo visto agire a proposito dello sguardo, e che porta solo paradossalmente, quasi come necessario contraltare, a imporsi il limite di una sola scenografia fittizia completamente aperta e dominabile, sembra sostenere anche l'abolizione dei limiti generalmente attribuiti all'opera cinematografica, per favorirne un potenziamento. Ecco allora lo sconfinamento nei territori limitrofi del teatro e della letteratura, in perfetta rispondenza con quel progetto di "opera fusionale" di cui parla Von Trier a proposito di Dogville.

Dal teatro deriva innanzitutto l'allestimento scenico, una sorta di unico grande palco la cui platea è però una sala cinematografica. E su quel palco il minor numero di elementi possibile. Secondariamente, a livello dello script, le parentele con l'opera teatrale (e con la tradizione del teatro moderno) non sono meno evidenti. Ma, proprio a questo livello, avviene l'altro sconfinamento: nel territorio del romanzo, da cui deriva l'uso di una voce narrante e onnisciente, oltre alla divisione del racconto in "capitoli" (in luogo degli "atti" teatrali). Dunque cinema teatro romanzo, tutto fuso insieme, ma all'insegna dell'essenzialità, della riduzione, della povertà, del senso del limite e dell'accettazione e cooperazione reciproca che esalta e potenzia, anziché della prevaricazione e dell'eccesso che confonde e svigorisce.

Accettazione e cooperazione, si è detto. Non è forse un caso, allora, che sia proprio la parola-tema "accettazione" a essere scandita più volte nella prima parte del film, come una sfida posta agli abitanti di Dogville dall'apparizione improvvisa di Grace, la straniera capitata nel paese fuggendo da un gruppo di gangster che la inseguono, non si sa bene perché (e nemmeno noi spettatori lo sapremo, se non alla fine, poiché non siamo onniscienti tanto quanto il narratore-regista, che così ci mette nella stessa identica situazione dei personaggi sul palco-schermo, regalandoci attraverso l'imposizione di questo limite la possibilità di fare una ricognizione della nostra mappa morale: rendendoci cavie di noi stessi). Grace rappresenta la "grazia" della diversità, che inizialmente accettata dagli abitanti di Dogville si trasforma in ricchezza e bellezza per tutti. Tutti, a Dogville, sono grati a Grace per i servizi che offre loro in cambio dell'ospitalità ricevuta. Tutti sembrano sentirsi arricchiti interiormente.

Ma l'idillio dura poco. Dall'accettazione si passa all'appropriazione. Basta che la polizia giunga in paese ad affiggere al muro una taglia su Grace, guarda caso nel giorno del Ringraziamento, perché la posizione di ricattabilità in cui la ragazza si trova a scivolare favorisca lo svelarsi dell'ipocrisia della comunità. L'arma del ricatto è impugnata per alzare il prezzo dei servizi che Grace deve garantire in cambio della sua permanenza, secondo una logica del profitto tipica di una società capitalistica, e forse, suggerisce con lucido pessimismo Von Trier, connaturata all'uomo stesso. Dal ricatto alla riduzione in una schiavitù più o meno dichiarata il passo è breve. Certo, su questo piano, la vicenda di Grace si presta anche come cartina tornasole per mostrare la dinamica di ogni moderno processo di immigrazione (e non serve allontanarsi dal nostro paese per averne prova).
Nel suo accettare senza ribellarsi le vessazioni e gli abusi (di ogni tipo) crescenti a cui la malvagità di uomini, donne e perfino bambini di Dogville la sottopone, Grace sembra ripercorrere la parabola sacrificale dei personaggi femminili di altri film di Von Trier (Le onde del destino, Dancer in the dark). Ma quando il racconto sembra avviato a una conclusione prevedibile, ecco che tutto si ribalta e si riapre. I gangster che inseguivano Grace vengono richiamati dagli abitanti di Dogville, su iniziativa di quel Tom, piccolo scrittore e piccolo moralista, innamorato della ragazza (neanche l'amore, per Von Trier, sembra salvarsi dalla logica del profitto e, se deluso, della vendetta). Ma una volta arrivati in paese i malviventi, si svela l'arcano della vera identità di Grace, finora nascosta. La giovane è in realtà la figlia ribelle del capo dei malavitosi, interpretato non a caso da una delle icone del gangster-movie hollywoodiano: James Caan. E con il padre-padrino fa il suo ingresso in scena il "potere".

La storia riecheggia a questo punto accenti biblici, fondendo Vecchio e Nuovo Testamento. Il padre (una sorta di Dio degli eserciti) promette alla figlia (Grace – grazia – amore) di cederle il potere, che potrà usare come meglio crede, fin da subito. Ciò comporta il fatto che potrà scegliere cosa fare di Dogville. Perdonare, seguendo i propri primigeni ideali, o fare giustizia, una giustizia di piombo tinta di rosso vendetta, riabbracciando così la logica paterna "del taglione", da cui era fuggita. Tutta la parte finale del film si dibatte proprio nella dialettica lacerante fra queste due logiche.
Alla fine la "grazia", assunto il "potere", sceglie la "vendetta" invece che il "perdono". Il passaggio è tutto sul volto della Kidman, che da angelo di bellezza si trasforma in angelo della morte. La strage finale è certa, scientifica, agghiacciante.

Dunque non c'è più perdono possibile per Dogville, per quella piccola e ipocrita, falsa Dogville sospesa nel vuoto che è il mondo occidentale (di cui gli U.S.A. sono solo la casa più grande, in cui le contraddizioni sono più evidenti); e nemmeno salvezza, se anche la Grazia, rifiutata, una volta divenuta Potere, rinuncia a se stessa e sceglie la vendetta.
Non c'è nessuna buona novella in Dogville. Nessun vincitore: tutti perdenti sotto lo sguardo di Von Trier. Uno sguardo che si vuole onniveggente e onnisciente, che si intuisce perverso, che si esige morale. Uno sguardo disperatamente lucido. Dolorosamente necessario.

 


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