L'ultimo dominatore dell'aria PDF 
Amon Rapp   

In un mondo leggendario, suddiviso in quattro grandi regni abitati da uomini in grado di controllare gli elementi naturali, un guerriero bambino, ultimo dominatore dell’aria, ha il compito di riportare l’ordine sulle terre sconvolte dalla guerra. Questo il filo che lega insieme le vicende narrate nell’ultimo film di Shyamalan, incaricato di portare sul grande schermo, con attori in carne ed ossa, la popolare serie animata statunitense Avatar. La leggenda di Aang. Aang, monaco dei nomadi dell’Aria, è l’ultima reincarnazione dell’Avatar, entità transtemporale che ha avuto, fin dalla notte dei tempi, l’onere di dare armonia al mondo, mettendo al servizio della pace il suo esclusivo potere di dominare tutti e quattro gli elementi presenti in natura. Ma il paese in cui Aang si risveglia, dopo una prigionia di cento anni, è ormai afflitto dalle continue violenze perpetrate dalla Nazione del Fuoco, che nel corso del tempo è riuscita a soggiogare quasi tutte le popolazioni del pianeta approfittando della sua assenza centenaria. Per il piccolo eroe si tratterà di intraprendere un lungo viaggio iniziatico, alla ricerca della conoscenza necessaria a risvegliare gli innati poteri dell’Avatar. Aiutato da una dominatrice dell’Acqua, Katara, e da suo fratello, Aang troverà sulla sua strada il giovane principe Zuko, divorato dal desiderio di catturarlo per riacquistare prestigio agli occhi del padre, Signore della Nazione del Fuoco.

Facendo propri gli stilemi e i topoi del genere fantasy, Shyamalan riesce a dare alla sua ultima opera, primo capitolo di un’annunciata trilogia, un ritmo inaspettato, agile e mai esitante, dosando sapientamente azione e riflessione in un intreccio che tiene sempre vigile lo spettatore. Il flusso narrativo scorre rapido e privo di ostacoli, senza risentire dei numerosi innesti retrospettivi di cui è disseminata la vicenda, mai forzati e brevi quanto basta da non apparire estranei al procedere della storia. Del resto, i suoi personaggi non sono quasi mai scontati, ma si rivelano progressivamente nelle loro contraddizioni, ancorati ad un passato che vogliono superare ma di cui non riescono mai totalmente a liberarsi. Gli antagonismi che li pongono gli uni contro gli altri si concretizzano spesso in fugaci combattimenti messi in scena da uno sguardo che si fa quasi totalmente incorporeo: sono evanescenti, raramente arrivano al contatto fisico, e si manifestano piuttosto sotto forma di danze aeree che tramutano la matericità della lotta in eterei disegni spaziali. Se dunque Shyamalan prende spunto dai wuxiapian della grande stagione del cinema hongkonghese, lo fa guardando più al cinema di King Hu che a quello di Chang Che, preferendo alla gravità del sangue di quest’ultimo, la leggerezza ellittica del primo.

Da qui una temperatura emotiva che si mantiene in equilibrio per tutto il film, evitando eccessivi surriscaldamenti, così come visioni troppo fredde e asettiche. Un’opera in definitiva ben congegnata, rivolta senza dubbio ad un largo pubblico, in prevalenza giovane, che tuttavia non rinuncia a mettere in moto opposizioni semantiche profonde, care al regista di origine indiana. Forma e materia, spirito e corpo, natura e tecnica si trovano qui a giocare un duplice movimento. Da un lato il potere di dare forma alla materia, di manipolare gli elementi, si rivela un potere di origine spirituale, tant’è che è il mondo stesso degli spiriti a regolarne l’esercizio, mantenendolo in equilibrio con l’assetto della natura. Dall’altro, nelle mani dell’uomo, da sempre preda delle passioni del corpo, questo potere rischia di asservirsi ad una logica di potenza e di tramutarsi, sotto l’egida della tecnica, in strumento di dominio. È questa la via seguita dalla Nazione del Fuoco, che, sopraffatta dal desiderio di conquista, non ha esitato a sconvolgere l’ordine del mondo e a rivoltarsi contro gli spiriti stessi, percepiti ormai come un inutile retaggio del passato. In questo quadro, l’Avatar manifesta una prospettiva diversa, la speranza di una scelta disancorata dalle passioni umane, che, parlando al cuore stesso della natura, possa liberarne la potenza senza incanalarla in un dispositivo tecnico di sopraffazione. Nella sua figura intravediamo il fascino che l’idea di una regressione ad un mondo pre-tecnologico, non contaminato dalle ambizioni dell’uomo, può ancora oggi esercitare: fascino che sfocia a tratti in una visione eccessivamente manicheista della realtà, in un ingenuo ritorno alle origini che pare non fare i conti con l’intima necessità del legame che, nel mondo umano, unisce l’abilità di dare forma alla natura alla logica del dominio e dello sfruttamento.

L’ultimo dominatore dell’aria pertanto, pur nelle sue imperfezioni e nei suoi limiti, rimane un buon prodotto di intrattenimento, abilmente confezionato, sotto la cui pelle scorrono riflessioni non banali che donano complessità ad un discorso solo in apparenza rivolto ad uso e consumo esclusivo dei più giovani. Un ultimo appunto sull’impiego del 3D. Lontanissimo dall’avvolgenza tattile dell’Avatar di Cameron, in The Last Airbender il 3D appare quanto mai una scelta discutibile, se non nella prospettiva di un facile opportunismo commerciale: privo di profondità e di magnetismo, incapace di sfruttare pienamente le potenzialità tecnologiche del mezzo, rimane sbiadito ed insapore, appesantendo inutilmente la visione senza esaltarne l’esperienza.

TITOLO ORIGINALE: The Last Airbender; REGIA: M. Night Shyamalan; SCENEGGIATURA: M. Night Shyamalan; FOTOGRAFIA: Andrew Lesnie; MONTAGGIO: Conrad Buff IV; MUSICA: James Newton Howard; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 103 min.

 


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