Avatar: oblio o reincarnazione del visibile? PDF 
Enrico Maria Artale   

La cinepresa effettua una leggera panoramica verso destra, seguendo il movimento degli astronauti galleggianti. Ma è ancora corretto utilizzare termini come “cinepresa” o “panoramica”? Indipendentemente dalla visione sfocata per alcuni, o dalla sensazione di nausea per altri, resta l’impressione che ciò che per circa centoquindici anni abbiamo chiamato cinema sarà radicalmente modificato proprio a partire da questa inquadratura di Avatar. Forse non si tratta di una rivoluzione, ma di un compimento, già scritto, necessario, più volte rimandato. Così come Jacques Rivette diceva, liquidando ogni sorta di polemica, che il cinema, nella sua profonda aspirazione, è sempre stato a colori, potremmo affermare che il cinema è sempre stato in 3D. Che parole come cinepresa, cattura del movimento, o panoramica, relativo a tutto il visibile, implicassero nella loro stessa radice il sogno della terza dimensione. Avatar è uno di quei film che assume una valenza quantomeno duplice rispetto alla storia del cinema; come episodio narrativo non trascurabile nell’evoluzione di un genere cinematografico come la fantascienza; come momento tecnologico determinante nella storia dell’audiovisivo e della comunicazione tutta. E al di là delle prime impressioni, Cameron si dimostra un formidabile regista, capace di unire con passione, alla pari di altri suoi colleghi, Zemeckis su tutti, l’esigenza narrativa, la sperimentazione tecnologica e la furbizia commerciale.

La trama di Avatar potrebbe sembrare eccessivamente semplice, incline a cavalcare i cliché più ovvi del cinema d’azione. In realtà, appoggiandosi su situazioni narrative note, mette in gioco una stratificazione di più livelli di senso, che riesce a gestire in modo intelligente e nascosto senza evidenziare le proprie pretese. Non facciamo neanche in tempo ad entrare nel film, a riprenderci dallo shock iniziale, che già precipitiamo in una situazione drammaticamente originale, difficile: l’eroe della storia è un paraplegico, la maggior parte delle azioni che di lì a poco compirà non sono che impulsi mentali destinati al suo avatar nel sonno. Di fatto egli non si muoverà mai dal proprio lettino tecnologico, e tutto il film, o quasi, non sarà che il suo sogno tridimensionale. La metafora cinematografica è tutt’altro che velata, e rende possibile un’identificazione completa con  il personaggio: in fondo non è così dissimile dallo spettatore che inforcatisi gli occhialetti 3D cerca nello spettacolo un mondo meraviglioso in cui fuggire dalla monotonia del quotidiano, in cui annullare le proprie frustrazioni e le proprie incapacità. Certo, se immaginassimo lo stesso film girato da Christopher Nolan alcuni aspetti sarebbero stati approfonditi in modo più insistente, fino all’ossessione. Cameron preferisce lasciare sullo sfondo le grandi questioni, garantendo allo spettatore la libertà di scegliere il proprio grado di coinvolgimento, sia esso orientato verso il piacere puro, sia verso la riflessione più attenta.

L’orizzonte virtuale sembrerebbe animare la storia: quello che nel film rappresenta il mondo dei sogni, il pianeta Pandora, entra sempre in contrasto con la realtà dell’astronave, meno sgargiante, meno divertente, più crudele: le luci fredde, le linee architettoniche severe, addirittura la caratterizzazione scenografica relativamente poco futurista, contribuiscono a definire l’astronave come realtà grigia e dura. Ma i termini del problema sono ben più sfumati, perché questa realtà, o supposta tale, questa realtà reale è contrapposta emotivamente al mondo sognante, il quale tuttavia si definisce come qualcosa di altrettanto reale, in costante rapporto con l’astronave stessa. Il livello del gioco, del videogioco mentale, non è lo stesso di Matrix, o di Second Life, perché la virtualità dell’azione e della visione sfocia nella fisicità di un corpo parallelo. Avatar si rivela geniale e originale nelle sue premesse filosofiche, apparentemente poco articolate: pur sapendo che Pandora è un pianeta realmente esistente, e non un sistema di rappresentazioni, inizialmente guardiamo al viaggio di Jake Sully come ad un'esplorazione puramente virtuale, in cui è salda la distinzione tra i piani: sogno e realtà, vita cosciente e trance, notte e giorno, umano e inumano. Sarà la guerra, vero e proprio scontro tra due mondi, a livello planetario, ma anche a livello metafisico tra due piani di realtà possibile, a sottolineare il cortocircuito. Lo statuto dei videogiochi di simulazione, anche i più evoluti, e dei film che li hanno ispirati, rispecchia sostanzialmente il mito platonico della caverna, dove le ombre proiettate sul muro da una realtà ignota assumono i connotati rassicuranti della normalità, al punto che l’uscita dalla caverna diventa un rischioso salto mortale per il singolo e per la comunità. In Avatar, invece, il meccanismo è differente, e mettendo in gioco questioni filosofiche assai più complesse e moderne, passa inosservato proprio perché la consapevolezza diffusa dei problemi di bioetica è relativa, e il pubblico sembra preferire la paranoia alla riflessione. Come dire, preferisce porsi il dubbio classico, cartesiano, circa l’esistenza del nostro corpo e di quello che vediamo attorno, piuttosto che fermarsi a pensare sulla possibilità di avere in dotazione un corpo di riserva, un clone genetico, bello, alto, privo dei nostri più grandi difetti, felice; un clone controllabile con la nostra mente, da sdraiati, dimenticandoci completamente della nostra esistenza umana, ma non semplicemente in vista di una realtà virtuale, ma in funzione di una nuova vita, fisica, eroica. È attorno a questa possibilità che ruota la trama di Avatar. Per il film si tratta forse di qualcosa di scontato, presentato all’inizio in modo un po’ frettoloso, probabilmente per non rubare spazio all’azione. Ma non c’è dubbio che la questione è sempre presente sullo sfondo, e sta allo spettatore attento leggerne lo sviluppo.

Inizialmente Jake Sully affronta questo viaggio come un’occasione offertagli dalla morte del fratello. L’origine del viaggio è dunque una morte, a cui consegue una sostituzione. Fin qui semplicemente uno scambio di persone. Ma questo evento si riproporrà in forma assai diversa alla fine del film, secondo un noto schema delle saghe. Se questa è l’occasione, esterna tanto quanto lo può essere la scomparsa di un fratello, non manca certo la motivazione interna: Jake Sully sogna le gambe; evidentemente il futuro non è più equo del presente, e come il protagonista non dimentica di sottolineare, la tecnologia permette di installare delle gambe nuove, funzionanti in tutto e per tutto, ma il costo è proibitivo per molti. Così il nostro eroe è un altro nato il 4 luglio, un veterano cui lo stato non ha mostrato riconoscenza. Per lui guidare un avatar significherà innanzitutto tornare ad una vita normale, tornare a correre. Così le prime esperienze somigliano in tutto e per tutto ad un gioco di ruolo, reale, ma pur sempre un gioco, un momento ludico; ogni volta che torna in astronave Jake Sully è circondato da persone che gli chiedono curiose della sua esperienza, della vita su Pandora e quant’altro. Ma ben presto Jake inizia a ritrovare nella sua esistenza da avatar non soltanto le funzioni atletiche elementari, correre, saltare, ma anche lo sfogo delle pulsioni più profonde dell’universo naturale: l’istinto di autoconservazione e quello di riproduzione. La lotta per la sopravvivenza e l’incontro con una femmina innescano lo stimolo che porterà Jake a preferire sempre di più il corpo dell'avatar al suo corpo umano. Evidentemente perché riesce così a riconquistare le sue funzioni primordiali, ormai perdute. Che sia un soldato che non può più combattere è evidente; che le sue funzioni sessuali siano radicalmente compromesse è assai più che probabile anche qui (vedasi sempre Nato il 4 luglio). Il film non lo esplicita, ma nella vita umana di Jake Sully non esiste alcuna attrazione per le figure femminili, né per la dottoressa Grace, che riveste più che altro il ruolo di una madre adottiva, fino a raccomandargli di mangiare e di lavarsi; né tantomeno per la soldatessa Trudy, il cui appeal sessuale è tutt’altro che nascosto, forse proprio ad evidenziare l’indifferenza di Jake. Non può più lottare per la propria sopravvivenza e non può più avere figli; spostando la questione dall’animale all’uomo, Jake non può lavorare, applicarsi, dare un senso pratico alla propria vita, e non può più amare, unirsi in una relazione; è un individuo distrutto tanto nella sua sfera pubblica quanto in quella privata. Ma non nel suo avatar. Così l’esistenza umana inizia ad apparire a Jake come la più insignificante delle realtà; al ritorno dai suoi viaggi è solo, triste, con la sua futuristica webcam come unico confidente possibile. Un altro sé stesso.

Come un ragazzino patito della playstation il neofita Jake inizia a trascurare la sua vita per dedicarsi completamente al suo avatar; appunto, non si lava, mangia male, troppo rapidamente. E man mano che perde energie il suo corpo umano, piccolo, esposto alle condizioni ambientali e atmosferiche avverse, e per di più invalido, non autosufficiente, il suo avatar ne guadagna in capacità fisiche, in abilità; conosce un mondo nuovo, vi penetra e migliora la sua posizione sociale. La sua relazione con la principessa Na’vi si evolve al punto da unirsi finalmente a lei. Fin qui il percorso di Jake Sully è psicologico, esistenziale, ma secondo uno schema tipico del cinema americano il racconto individuale si apre progressivamente su quello collettivo. A dir la verità il percorso di Jake è fin dall’inizio politico. La scienza agisce, anche nel futuro, in funzione del potere, e le ricerche della dottoressa sono finanziate da una sorta di società petrolifera. In virtù del suo passato di marine Jake ha quindi un secondo compito, diplomatico o paramilitare: convincere la popolazione Na’vi a spostarsi, lasciando gli uomini liberi di trivellare a piacimento. Il progetto di conquista prevede anche programma di modernizzazione progressista dei Na’vi: saranno forniti istruzione, cultura democratica e beni di vario genere. Elementi a cui la società globale e civilizzata degli uomini sembra dare assai più valore rispetto ad un rapporto fondante con la propria terra. In ogni caso, se la proposta non sarà accettata, i diritti degli individui potranno tranquillamente essere cancellati, e si passerà all’uso della forza. Non si vede spesso nel cinema americano una metafora degli Stati Uniti talmente esplicita, senza uso di mezzi termini, ricca di implicazioni politiche, ma anche culturali ed economiche. Cameron non si lascia sfuggire l’occasione per tirare frecciate al modello USA, ad esempio quando Jake elenca i prodotti che i Na’vi riceverebbero dagli uomini al prezzo della loro spiritualità: coca cola e quant’altro; e non teme di cadere nel didascalico, quando il protagonista, che finora ha vissuto il viaggio quasi come una vacanza avventurosa, arriva ad affermare: “sognavo di essere un soldato che portava la pace, ma è tempo di svegliarsi”. Jake diventa così il simbolo di un’America ingenua, la stessa che ha creduto troppo a lungo al ruolo salvifico che gli Stati Uniti avevano rivestito nella seconda guerra mondiale, e che ha mandato i suoi figli ad uccidere e a morire dall’altra parte del mondo, illudendosi di rispondere così ai bisogni delle popolazioni locali.  Potrebbe sembrare cinico, ma di fatto la presa di coscienza di Jake avviene soltanto dopo l’unione con la principessa Neytiri, quasi a significare che per l’uomo occidentale il risveglio politico non è dettato ormai dal principio etico, dalla violazione dei diritti di per sé, quanto dalla minaccia personale, psicologica. Di lì in poi la storia segue come se ricalcasse gli ultimi dieci anni del panorama mondiale, con la creazione di una forza interstatale (le varie comunità Na’vi), la progettazione di una “guerra preventiva” (definita così dal colonnello in persona!), e la mossa strategica dei Na’vi di attirare i nemici nelle montagne fluttuanti, ispirate a quelle cinesi dello Hunan, ma funzionalmente più simili a quelle dell’Afghanistan. Lì gli strumenti tecnologici degli uomini non funzioneranno, e la conoscenza del territorio avrà la meglio. Il film di James Cameron ci parla dunque della contemporaneità, in modo forse un po’ affrettato o privo della necessaria portata riflessiva; resta il fatto che si focalizza su due questioni cardine del presente, la politica globale e la bioetica, avendo il merito di metterle in relazione, dal momento che proprio la filosofia contemporanea, a partire da Foucault, ha parlato di biopolitica come della prospettiva più inquietante della società attuale. E per un film destinato ad un pubblico sterminato rappresenta un impegno importante.

La narrazione di Avatar non si esaurisce tuttavia in quanto fin’ora descritto, poiché la caratterizzazione del mondo Na’vi è altrettanto interessante. Anche qui, la banalità è apparente: per quanto si vestano in modo elementare e usino l’arco e le frecce, non si tratta di una popolazione indigena primitiva, assimilabile ad esempio agli aborigeni australiani o agli Indiani d’America. O meglio, vi è una radicale differenza. Come tali popolazioni i Na'vi entrano in contatto profondo con la natura, ma questo contatto non è puramente spirituale, affidato cioè ad una fede, ad una religione o ad uno stato di alterazione della coscienza. È un contatto fisico-chimico, quantificabile scientificamente secondo i criteri degli uomini, al punto che la dottoressa vorrebbe studiare il fenomeno. Non si tratta quindi di un popolo rimasto allo stato delle antiche popolazioni umane, ma di una specie che ha seguito una diversa evoluzione. Cameron ribalta il cliché degli alieni che arrivano dall’alto con le astronavi, ma solo a prima vista li descrive come meno evoluti dell’umanità. I Na’vi infatti hanno accesso tramite una sorta di fascio nervoso che gli pende dai capelli alle reazioni sinaptiche di animali e piante, stabilendo con queste un legame che gli permette di esercitare un controllo e una comunicazione reale; è esattamente quello che la civiltà umana è riuscita a fare con le macchine, dotandosi di androidi robotici che riproducono fedelmente i movimenti del corpo. L’ossessione specifica di Cameron, il rapporto singolare tra l’uomo e la macchina, si confronta qui con un rapporto altrettanto potente ed evoluto, quello tra l’animale e la natura, o meglio, tra l’individuo e il tutto. L’evoluzione alternativa non è un’altra scienza, ma un’empatia istintiva e spirituale con il mondo circostante; si fa forza su un sentimento irrazionale, sullo stato di trance in cui piombano tutti i Na’vi quando riuniti attorno agli alberi sacri si abbracciano e ondeggiano in un moto dionisiaco. Per l’umanità, che ha orientato la proria evoluzione sulla razionalità, sull’apollineo, lo sviluppo tecnologico è la conseguenza necessaria e irreversibile, con tutti i rischi che ne conseguono, rischi a cui Cameron ha consacrato altri suoi capolavori. Il mito di Prometeo, il destino degli uomini, la storia antropologica che Kubrick ha saputo sintetizzare con pochi eguali nella storia della cultura occidentale all’inizio di 2001. Per i Na’vi il regista ha pensato ad un’altra strada, ispirandosi certamente alle culture induiste e animiste, e portandole ad una radicalizzazione fisiologica.

Non possiamo tralasciare il fatto che il termine avatar, prima della semplificazione occidentale che lo intende come alter ego, addirittura un’immagine logo per i social forum, ha un suo significato preciso nella religione indiana. Avatar indica l’incarnazione di un Dio in un corpo fisico, concreto; non soltanto, gli induisti credono che il dio Vishnu si incarni in un avatar ogni qual volta la giustizia del mondo è minacciata dalle forze del demonio; in questo senso, l’avatar più famoso della religione induista è Krishna. E almeno per una parte di questa religione, anche Buddha è un avatar. Il film di Cameron si mostra tutt’altro che inconsapevole di tutto ciò, tanto che in ultima istanza potremmo definire Avatar un vero e proprio film religioso. Poiché l’umanità di cui parla Cameron è essenzialmente occidentale, l’utilizzo che fa del termine avatar è ben diverso; si tratta per l’appunto di un mondo secolarizzato, un mondo in cui come dire, la morte di Dio è un dato di fatto. Chi eserciterà il controllo su questo corpo fisico non è dunque certamente un dio, ma un uomo, un uomo comune, per giunta un debole. Ma in questo risiede anche tutta la radice culturale cristiana, radice che nella conclusione del film svolge un ruolo determinante, mischiando un po’ le carte in tavola con un po’ di cultura new age, per cui anche lo stesso Gesù sarebbe definito un avatar. Lo scontro dei mondi descritto nel film è anche e soprattutto lo scontro tra un mondo senza dio, e un mondo in cui la sacralità divina permea qualsiasi cosa. Jake ha scoperto questa sacralità ma resta vincolato alla sua esistenza umana, proprio perché il processo evolutivo non è reversibile: la comunicazione dei due mondi non è possibile. Tutto ciò è testimoniato dalla scena meravigliosa in cui Neytiri trova nel container distrutto il corpo umano di Jake, ormai in fin di vita. Qui Cameron ci offre la chiave del film ponendo l’accento sull’aspetto religioso, che si rivelerà fondante per ogni livello di lettura. La grande Neytiri, bellissima, blu, in lacrime, che tiene il misero corpo di Jake, invalido, pressoché esanime, è l’immagine della Pietà. E la cristologia finale del personaggio di Jake diventa lampante: dopo aver assunto il ruolo di profeta, l’uomo è oggetto di una vera e propria trascendenza, e sacrificando il suo corpo umano viene assunto nel mondo divino, attraverso una vera e propria reincarnazione. La differenza fondamentale con il cristianesimo sta nel fatto che questo mondo divino non è un paradiso delle anime, ma un mondo fisico in cui l’essere spirituale, Eywa, è tutto. Di fatto comunque, Avatar è la storia un uomo che diventa Dio, cancellando sostanzialmente le colpe degli altri uomini. Il tema del sacrificio che già animava il grandioso finale di Terminator 2, dov’era la macchina a sacrificarsi per la salvezza dell’umanità, ritorna qui nella forma di un abbandono del corpo senza Dio in vista di un unione panteista. Ecco perché Avatar, oltre a raccontare un percorso psicologico e una presa di coscienza politica, è soprattutto la saga di un rinnovamento spirituale.

Rinnovamento appunto. Ma non parlavamo del film come di una tappa importante nell’innovazione degli audiovisivi? Forse che Cameron è stato talmente furbo da unire i due valori del film, quello narrativo e quello storico-tecnologico, in modo così stringente? Difficile credere che ciò sia frutto del caso… Il film inizia palesando da subito il doppio livello, la narrazione vera e propria e la metafora cinematografica: come Jake entra nella sua bara e sogna la vita tridimensionale di un avatar, lo spettatore mette i suoi occhialetti 3D ed entra nel magico mondo di Pandora. È un mondo colorato, fatto di trasparenze e giochi di luce, visivamente straordinario, al contrario dell’astronave, simile, seppur nel progresso, ad un moderno ufficio, o laboratorio. Quando escono sul pianeta gli uomini devono indossare delle maschere per poter respirare, non sono autosufficienti senza questi supporti. Gli abitanti del mondo di Pandora, al contrario, hanno un contatto sensoriale con il mondo circostante maggiore; la loro profonda forma di comunicazione si esprime attraverso il detto: “Io ti vedo”. Visione e conoscenza sono da sempre associate nel pensiero occidentale, a partire dai greci; ma il compagno di Jake non si dimentica di spiegare che in questa frase è contenuta una sfumatura imprescindibile per i Na’vi, qualcosa come: “Io ti vedo dentro”. Dentro. In profondità. Mentre Jake impara a vedere dentro i Na’vi e gli esseri della natura, anche lo spettatore impara a vedere in profondità, come forse non aveva mai fatto prima.  Ed effettivamente il lavoro fatto su 3D di Avatar va proprio in quella direzione: non punta sull'"effetto Lumière" di un oggetto che viene contro il pubblico, ma stupisce per la profondità affascinante delle immagini. Così entrambi, Jake e lo spettatore, sviluppano un percorso visivo, iniziano a vedere in un nuovo modo, fino al momento che, rinunciando al vecchio corpo, e alla forma superficiale della visione umana, aprono nuovamente gli occhi. Come fosse la prima volta.

Fin dalla sua nascita il cinema, sia quello visionario, sia quello realistico in senso stretto, sia Méliés che i Lumière, si è sempre orientato verso un crescente realismo. La testimonianza ovvia sta nell’invenzione del sonoro, del colore, del cinemascope, e quant’altro. Le eccezioni significative a questa tendenza sono state di volta in volta dirottate verso territori altri, sperimentazione, video arte, ecc. Le innovazioni tecnologiche, comunque, sono state utilizzate anche per battere la concorrenza comunicativa della televisione, secondo esigenze di tipo commerciali. In quest’ottica il 3D è stato sperimentato altre volte, con risultati non soddisfacenti; e il motivo fondamentale per cui oggi, nell’epoca di internet, viene ritirato fuori, è probabilmente lo stesso. Tuttavia, con buona pace di vecchi registi e critici, di nostalgici, conservatori, e autori di resistenza, l’aspirazione alla terza dimensione è scritta nell’invenzione del cinema stesso, o molto più a fondo, nella storia dell’uomo che vuole sostituirsi a Dio. Si concretizzerà necessariamente. Forse non è ancora il momento, e se sono ancora gli interessi economici l’unico motore del discorso, il 3D scomparirà di nuovo per riapparire tra qualche anno. Ma probabilmente non accadrà; Avatar ha cambiato qualcosa, perché il 3D non è più un effetto ottico, ma il risultato di un processo di cattura dell’immagine; ecco perché il film pone con una certa urgenza un problema, e l’apertura di quei due grandi occhi gialli può assumere un significato epocale. Perché il problema non è il perfezionamento del 3D, il problema è il cinema. Il film è stato pensato appositamente per l’Imax, che permette un angolo di visione maggiore, introiettando gran parte del campo visivo all’interno dell’immagine; questo perché il primo elemento fondamentale ad essere messo in discussione dal 3D è proprio l’inquadratura, e con essa la composizione intesa in senso tradizionale. Oggetti e personaggi di quinta diventano inutili, fastidiosi, tolgono profondità invece di conferirla; muta il ruolo del fuoricampo: un’immagine tridimensionale contrasta con l’idea pittorica di un’immagine delimitata ai bordi; la questione diventa piuttosto architettonica. Vale la pena aprire una parentesi, per ricordare come già nel 1936 Walter Benjamin parlava di un rapporto fondante tra il cinema e l’architettura; oggi le sue intuizioni sono ancor più profetiche: se pensiamo alla sua idea di fruizione distratta, immersa, capiamo come forse parte della tecnologia contemporanea stia proprio riscoprendo qualcosa di cinematograficamente originario, che risale addirittura ai tempi del muto, dove non a caso proliferavano esperimenti di multivisione con schermi giganteschi. Con buona pace di quella cultura che ha cercato di trasformare il film in qualcosa di cultuale ed elitario, come se la celluloide avesse la stessa aura di un Caravaggio.

Così come salterà l’inquadratura, probabilmente entrerà in crisi la passività ricettiva dello spettatore in funzione dei meccanismi di interazione. E questo per lo stesso motivo, ossia perché la sete di realismo è assieme un elemento psicologico e un deterrente economico troppo potente. Già nella cinematografia attuale il rapporto tra il cinema e i videogiochi sta acquistando sempre più importanza, più del rapporto tra il cinema e l’arte, la musica, o il teatro, che quando non si avventurano nelle sperimentazioni autoreferenziali si trovano spesso costretti a ritornare su forme di narrazione, espressione e rappresentazione classiche, ormai ampiamente vampirizzate dal cinema stesso. Invece il videogioco, sviluppando la grafica tridimensionale utilizzata poi nel cinema è da tempo un referente costante e un motore di ricerca parallelo; lo sarà ancora di più nel momento in cui il cinema tenterà la via dell’interazione, arrivando forse ad un’ibridazione completa, un cinegioco 3D proiettato sulla retina dello spettatore. Certo non accadrà tra un anno, ma forse tra meno di trenta. Del resto il compito fondamentale dell’industria militare nella ricerca tecnologica non si è arrestato, e anzi volge proprio in quelle direzioni, ad esempio con la progettazione di droni sostitutivi controllati a distanza, laddove l’effetto di realtà può risultare determinante per la vita delle persone. Come dire, chi ha da investire i soldi in queste ricerche lo farà, purtroppo. Lo scenario cinematografico non potrà che essere sconvolto da mutamenti di questa portata, ed è ipotizzabile che si riorganizzi secondo una nuova scissione; da una parte un cinema tridimensionale, interattivo, una sorta di realtà virtuale interamente progettata in senso informatico e quindi affidata alla creatività totale di un regista, di un programmatore, o quant’altro; è il sistema a cui probabilmente sta già pensando James Cameron. Dall’altra un cinema più simile a quello che conosciamo noi, fatto di cose e persone reali, probabilmente legato a vecchi modelli espressivi. Di fronte a questa scissione, la distinzione labile tra cinema di finzione e cinema documentario apparirà assolutamente secondaria, con quest’ultimo necessariamente ricompreso nella seconda sfera. Il primo tipo di cinema porterà a compimento le aspirazioni dell’uomo nei confronti del realismo della visione, con un paradosso non indifferente, quello cioè di non avere più alcun contatto con la realtà stessa. La creatività artistica assumerà un livello titanico, demiurgico e totale, di memoria wagneriana, e probabilmente, data la grandezza dei mezzi necessari, il numero di autori e di opere resterà ridotto; questo farà sì che alcune di queste potranno essere conosciute da un numero elevatissimo di persone e di conseguenza costituire un riferimento culturale per l’epoca. L’altro cinema, invece, se sopravvivrà, erediterà l’elemento conoscitivo, testimoniale; farà leva sul fatto che il cinema è sempre stato, fin dalle origini, qualcosa di essenzialmente non creativo ma piuttosto ricettivo, capace di impressionare una realtà su un supporto fisico. Resterà a stretto contatto con il reale, ma il suo giro economico potrebbe diminuire al punto da farne un fenomeno frammentato e locale, legato soprattutto alle forme private di fruizione. In poche parole anche questo cinema arriverebbe al paradosso; pur restando a contatto con la realtà, non avrebbe più alcun impatto potenziale su di essa, alcuna capacità di determinare cambiamenti culturali su larga scala, poiché il numero di spettatori sarebbe troppo esiguo e arbitrario. Finché qualcuno dirà: del resto, se era un’invenzione senza futuro c’era da aspettarselo; tanto vale versare due lacrime e non pensarci più… 

Così il cinema come lo conosciamo noi, con il suo complesso apparato mondiale, produttivo e organizzativo, sembra già un castello di carta. Una mano gigantesca è pronta a farlo cadere giù, con una schicchera. E se Avatar assume un ruolo importante in questo momento non è perché esso sia rivoluzionario al punto da spazzare via tutto quello che c’era prima, ma perché annuncia in modo inequivocabile il cambiamento. Avatar non è il dito della mano che farà crollare il castello; è soltanto l’ombra di quello stesso dito. C’è tempo, l’ombra è lunga, il sole è basso nel cielo. Se sia un’alba o un tramonto è difficile a capirsi.

 


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