Mito, storia, sistema e vita: Per uno solo dei miei occhi PDF 
Enrico Maria Artale   
Indice articolo
Mito, storia, sistema e vita: Per uno solo dei miei occhi
Pagina 2

Allora Sansone invocò il Signore e disse: “Signore mio Dio, ti prego, ricordati di me! Dammi forza per questa volta soltanto, o Dio, perché io mi vendichi in un colpo solo dei Filistei, per la perdita dei miei due occhi”. Sansone tastò le due colonne di mezzo, che sostenevano la casa; si appoggiò a esse: all'una con la destra, all'altra con la sinistra e disse: “Che io muoia insieme con i Filistei!”. Si curvò con tutta la sua forza e la casa crollò addosso ai principi e a tutto il popolo che c'era dentro; così quelli che uccise mentre moriva furono di più di quanti ne aveva uccisi durante la sua vita.

La lettura e l’interpretazione dei testi fondativi della cultura occidentale, dalla Bibbia alle tragedie classiche fino agli storici greci e romani, fornisce sempre alcune chiavi determinanti per comprendere la modernità. Si rischia di sostenere un’ovvietà, ma in una situazione culturale in cui la politica diventa un argomento concesso in via privilegiata a giornalisti di varia formazione, nei casi migliori, o ad opinionisti e politologi di formazione improvvisata e pressoché nulla, una rivendicazione dell’autorevolezza in senso teorico-politico della cultura classica non è priva di importanza. E ciò non perché si voglia sostenere, astoricamente, che il corso degli eventi non conosce altro che ripetizioni e analogie, né tanto meno, in uno sterile atteggiamento cultuale, che quanto era necessario affermare sulla civiltà umana si esaurisce nei testi antichi, screditando la radicale originalità della cultura moderna e contemporanea. Due tesi superficiali. Certo la ricchezza della cultura classica o religiosa è incontestabile, ed è altrettanto vero che esistono realtà in grado di manifestare affinità intrinseche con il passato, ma ciò che è di primaria rilevanza è la connessione determinante tra quelle culture e le realtà psicologiche, storiche, e filosofiche attuali, nella misura in cui elementi del mito o della storia (ma qui il confine si assottiglia fino ad essere impercettibile) sopravvivono tanto nelle istituzioni quanto nelle riflessioni del singolo, influenzando il modo di agire e di pensare delle persone.

ImageÈ questo l’orizzonte concettuale che permette di cogliere l’intelligenza del documentario Per uno solo dei miei due occhi, del regista israeliano Avi Mograbi, distribuito recentemente da Fandango alcuni anni dopo la sua presentazione a Cannes, nel 2005. La centralità del riferimento mitologico è messa in evidenza dal titolo, che cita la preghiera di Sansone riportata in esergo (Giudici, 16, 28-30; nell’edizione Nuova Riveduta però si perde il senso originario, dal momento che “vendicarmi per uno solo dei miei due occhi” diviene “vendicarmi, in un colpo solo, per la perdita dei miei due occhi”). Proprio il continuo richiamarsi alla narrazione biblica determina l’andamento del lavoro, conferendo al montaggio il compito di principale costruttore del discorso, in grado di istituire il parallelismo tra situazioni attuali e realtà mitologiche. Ma tali realtà sono chiamate in causa entro i termini della loro attiva permanenza culturale, dal momento che questi continui riferimenti passano attraverso i racconti, le lezioni, le conversazioni. Il mito o la leggenda sono oggetto del documentario in quanto potenze vive, e solo in virtù di questo potere, in quanto fatti illuminanti. Sulla base di questa ineludibile premessa concettuale è possibile addentrarsi maggiormente nello specifico del documentario, nel tentativo di comprendere il significato e lo sviluppo del discorso, come esso sia stato organizzato cinematograficamente e quale possa essere il suo contributo alla riflessione storica e filosofica. Per uno solo dei miei due occhi è per necessità un film di montaggio, nel senso che soltanto il montaggio è in grado di promuovere espressivamente un’associazione di idee, come insegnava già il cinema di Ejzenstejn. È ovvio come qui l’associazione non si dispieghi mediante l’accostamento di immagini o suoni, ma attraverso la messa in relazione di situazioni distanti, la cui natura, e questo deve essere sottolineato, è essenzialmente discorsiva. Da un lato due elementi eterogenei ma integrabili: la narrazione biblica della morte di Sansone, e la realtà storica dell’assedio di Masada; dall’altro il rapporto attuale tra israeliani e palestinesi. Ciò che appartiene al passato, sia esso un passato mitologico o un passato storico, entra nel film attraverso le parole di insegnanti, bambini, giovani studenti e altri individui facenti parte della comunità ebraica. Riassumere brevemente le due narrazioni potrebbe rivelarsi di aiuto. La bibbia narra che Sansone, l’eroe più fisico della cultura ebraica, ormai privo delle forze, catturato e deriso dai filistei, chieda di poter appoggiarsi alle colonne portanti del palazzo. Da lì egli rivolge la sua struggente preghiera a Dio, invocando la forza necessaria a compiere la sua vendetta, divenuta un simbolo popolare dell’autodistruzione annientatrice anche al di fuori della cultura ebraica (si pensi all’uso proverbiale della formula di derivazione biblica: “Muoia Sansone con tutti i filistei!”). Con esiti e sfumature assai diverse, ma in qualche modo a testimonianza di una problematica e decisiva presenza del tema del suicidio nella cultura ebraica, Mograbi fa riferimento alla vicenda storica di Masada, fortezza inespugnabile conquistata dagli Zeloti, che nel 70 d.C. fu oggetto di un interminabile assedio (gli storici ipotizzano due anni ininterrotti). Non riconoscendo al loro popolo alcuna possibilità di scampo e volendo evitare una schiavitù sicura, gli Zeloti, sotto la guida del loro capo Eleazar Ben Yair, scelsero il suicidio collettivo: gli uomini uccisero le donne e i bambini prima di eliminarsi a vicenda. Complessivamente le vittime furono circa novecentosessanta. Le due narrazioni si ripetono incessantemente per tutto l’arco del documentario, con sfumature, interpretazioni e conseguenze, sul piano della discussione, assai diverse. Il più delle volte si tratta di guide turistiche o professori che hanno portato le loro classi sul sito archeologico di Masada, in altri casi assistiamo a lezioni in classe, a conversazioni tra genitori e figli o tra amici, addirittura ad una canzone ispirata alla leggenda di Sansone. Senza volerci addentrare fin d’ora nella specifiche differenze e nei diversi spunti di riflessione che emergono dalle singole situazioni, è bene insistere su come il documentario ruoti attorno a tali eventi linguistici mostrandone caratteristiche e potenzialità: innanzitutto il confine tra mito e storia si fa estremamente sottile dal momento che il fine della narrazione è sempre etico e istruttivo: con ciò non affermiamo nulla di positivo, ma ci limitiamo ad indicare come non vi sia una finalità propriamente scientifica nelle lezioni (che spesso sono infatti rivolte bambini piuttosto piccoli), mentre la volontà di chi parla è quella di stimolare una riflessione morale sull’accaduto e di formare umanamente gli studenti piuttosto che informarli su una verità storica. Dunque mito e storia perdono le loro differenze reciproche non tanto o non soltanto sulla base della fede, che attribuisce al testo sacro verità pari o superiori alla vicenda storica, quanto sul potenziale stimolo riflessivo di ciò che è narrato, riguardo al quale il reale accadere storico passa in secondo piano. Ma questo rivolgersi verso l’educazione etica espone al pericolo della strumentalizzazione. Si vuole suscitare una riflessione individuale, spontanea, ma il grado di questa spontaneità resta legato in modo compromettente alla narrazione dell’insegnante, rendendo la riflessione indotta, in modo a volte inconsapevole, a volte sistematico. Vedremo come nel corso del documentario questa dinamica si manifesterà in modo sempre più radicale ed inquietante.

ImageIn alternanza con queste situazioni letteralmente narrative Mograbi inserisce realtà quotidiane del fronte israeliano-palestinese. Anche qui si tratta il più delle volte di relazioni discorsive tra soldati e civili, o magari tra lo stesso regista e un ignoto interlocutore telefonico, di cui sappiamo ben poco, se non il fatto che senza dubbio è un abitante dei territori. Anche in questo caso non è secondario che il documentario si concentri in modo così ostinato sulla parola e sul linguaggio. Intanto testimonia la costante asimmetria di queste relazioni tra israeliani e palestinesi, la ripetizione delle domande e l’assenza delle risposte, la chiusura intersoggettiva, ricordando involontariamente certe situazioni tipiche del cinema di Kiarostami; in secondo luogo rende più salda la costruzione dell’idea e la formulazione dell’interrogativo, che lentamente inizia a farsi largo nello spettatore, sulla conciliabilità dei discorsi, sulla possibile integrazione reciproca, il dialogo etico ed educativo da un lato, quello politico e pratico dall’altro. Il coinvolgimento dello spettatore è lento, perché segue una progressione associativa che acquista forza attraverso una reiterazione il cui senso non è immediatamente comprensibile, ma si costruisce nella stratificazione verbale operata dal montaggio. Progressivamente emerge una riflessione sul legame che unisce le gesta suicide di Sansone e degli Zeloti con gli attentati terroristici che insanguinano costantemente le zone più calde di Israele, e il quadro concettuale assume ben presto la connotazione del paradosso: secondo un’interpretazione neanche troppo forzata la vendetta di Sansone ha tutti i connotati per essere definito l’archetipo dell’atto terroristico, dal momento che un uomo solo sacrifica la propria vita facendo crollare il palazzo, uccidendo così più persone di quante ne aveva uccise in tutta la sua vita. Se dunque Sansone è una figura fondamentale della cultura ebraica sembrerebbe possibile una particolare capacità di comprensione degli attentati suicidi da parte degli israeliani. D’altra parte, di fronte alla cruenza della vicenda storica di Masada, le tesi che parlano di una cultura della morte come elemento caratterizzante della cultura islamica risultano quantomeno parziali e superflue. Le condizioni di vita della popolazione palestinese accrescono la forza e la ricchezza del parallelismo: innanzitutto la situazione di accerchiamento, che accomuna gli abitanti dei territori agli Zeloti asserragliati nella fortezza circondata da un vallo la quale ricorda non poco le recinzioni attraverso cui i palestinesi sono oggi costretti a passare; in secondo luogo l’incertezza profonda che domina l’esistenza quotidiana, laddove non soltanto non vi possono essere previsioni ragionevoli sulla realtà politica del domani, ma non è possibile neanche organizzare una vita interamente calata nel presente, dal momento che non sono previsti orari di apertura del cancello o regolamenti precisi che stabiliscano le modalità del passaggio, né tanto meno normative eccezionali per veicoli d’emergenza come le ambulanze, lasciando tutto all’arbitrio dei soldati che pattugliano il fronte. Tutto ciò determina una condizione di fondamentale spaesamento, che il film documenta in modo estremamente significativo soprattutto in una scena, quando cioè alcuni uomini palestinesi osservano i movimenti delle truppe israeliane nel tentativo vano di poter comprendere cosa stia accadendo e dunque cercare una possibile via di fuga. Spaesamento, incertezza, accerchiamento. Gli stessi vissuti plausibilmente sperimentati dagli Zeloti nei momenti decisivi che portarono alla scelta estrema. D’altro canto la derisione è un altro elemento chiave per comprendere una rivolta la cui ragion d’essere è evidentemente svincolata dall’integralismo islamico, ma che trova le sue radici nello stato di assoggettazione ingiustificato di un popolo: così come i filistei schernivano Sansone, ormai cieco e privo di forze, i palestinesi, per lo più poveri e ignoranti, sottomessi, sono derisi dai soldati israeliani che li obbligano a controlli assurdi e a punizioni che violano un concetto di dignità umana di cui l’occidente sembra ritenersi custode integerrimo (ma che la radice di questa custodia vada ricercata nella democrazia è un’ingenua illusione, violentemente disattesa, ad esempio, dalle recenti vicende di Guantanamo).

ImageCon straordinaria intelligenza il documentario di Mograbi sceglie la via del parossismo e dell’ironia, se non altro perché ha il merito di coglierla nei fatti e nelle persone: un palestinese si lamenta di essere costretto a tenere i piedi su un sasso per ore, ma poi ha sufficienti risorse per buffoneggiare, assumendo strane pose o restando sul sasso con un piede solo, mentre intanto indica un altro uomo che, a distanza di alcuni metri, è anch’egli fermo su un sasso, senza motivo: una circostanza a dir poco beckettiana. La derisione quindi, e la privazione immotivata di tutto ciò che è strettamente necessario, dalla possibilità di lavorare fino a quella di avvalersi di un soccorso medico presente nel luogo, in una scena su cui avremo modo di tornare. L’intensità di queste sequenze trova la sua risonanza nelle lunghe conversazioni che il regista intrattiene telefonicamente con un uomo di cui sappiamo poco o nulla, ma che presumibilmente vive in prima persona la realtà dei territori occupati. L’identità sconosciuta conferisce a questi dialoghi uno straniante potere di astrazione dal contesto spaziale, quasi fossero dei dialoghi filosofici sul sistema politico, sul mondo contemporaneo, su Dio e sulla morte. Ma prima di osservare nel dettaglio cosa emerga in questo senso, è bene sottolineare un punto che costituisce il fulcro dell’intero ragionamento sotteso al documentario, la ragion d’essere della sua strategia: l’interlocutore sottolinea con grande lucidità come, a fronte di una sorta di circolo vizioso determinatosi nel rapporto tra israeliani e palestinesi, che vede un’alternanza sistematica di attentati e ritorsioni, chi ha gli strumenti e di conseguenza il compito di interrompere questo meccanismo verso una nuova direzione sono proprio gli israeliani, dall’alto della loro cultura, del loro benessere, del loro potere. Non certo i palestinesi, troppo inferiori per istruzione, per possibilità economiche, troppo abituati ad un inaccettabile stato di vessazione. Se qualcosa si deve muovere, si deve muovere in Israele, sostiene l’interlocutore del regista, dal momento che Israele stesso si pone, non senza una decisa arroganza intellettuale, come lo stato più evoluto. E nel film Mograbi, israeliano, accetta pienamente questa tesi, anzi fonda su questa tesi la vera motivazione del suo lavoro, consapevole che se qualcosa si deve muovere nel suo paese, ciò deve avvenire al livello delle coscienze. Mograbi si pone l’obiettivo di educare il suo popolo al rispetto attraverso una disamina di alcuni fondamentali elementi culturali, elementi che permetterebbero di capire, almeno in parte, le ragioni degli attentatori suicidi, inducendo per convesso ad assumere atteggiamenti diversi nei confronti dei palestinesi, sia ad un livello politico istituzionale che a un livello privato individuale. Se l’eroe ebreo Sansone è il primo kamikaze della storia, per quale motivo dovrebbe risultare incomprensibile agli ebrei il suicidio di un giovane palestinese, che forse potrebbe essere aizzato dall’integralismo islamico, ma soltanto nella misura in cui il sentimento religioso costituisce la ragione strumentale a cui è drammaticamente sottesa una ragione più profonda e marxianamente strutturale? La situazione socioeconomica. Il regista insiste dunque con forza sulle responsabilità degli israeliani, prendendo decisamente le distanze ad esempio dalla posizione assunta da Saverio Costanzo nel suo importante film d’esordio, Private. Seppur in un sostanziale atteggiamento di condanna verso la condotta dell’esercito e la politica militare israeliana, il regista romano aveva scelto di ritagliare ampi spazi per far emergere l’umanità dei soldati, giovani ragazzi con atteggiamenti un po’infantili, disposti anche a chiudere un occhio su alcune violazioni delle regole imposte agli abitanti della casa occupata. In un certo senso in Private anch’essi sono vittime di scelte compiute al di sopra di loro. La prospettiva di Costanzo è certamente legittima, non soltanto da un punto di vista poetico e narrativo, ma forse, nonostante gli approfondimenti e l’interesse personale, la sua estraneità alla realtà del luogo lo spinge ad attribuire alcune qualità umane ai soldati, qualità che essi non posseggono perché parti di un processo strumentale di de-umanizzazione. Questo spiega l’assoluta distanza che, pur nella eterogeneità cinematografica dei due progetti, corre tra il film di Mograbi e quello di Costanzo rispetto alla responsabilità individuale dei soldati: per il regista israeliano i soldati non hanno ragioni, la loro scelta personale, pur essendo in buona parte determinata da un’istruzione propagandistica istituita dal potere, deve essere condannata.



 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.