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Roberto Castrogiovanni   

ImageViene da chiedersi dove siano finiti gli Angry Man, gli “uomini arrabbiati” che comparivano nel titolo originale del capolavoro di Sidney Lumet, sostituiti in questo remake di Nikita Mikhalkov dalla semplice ed essenziale freddezza di un numero – 12 –, veicolo tra l’altro di un ben preciso valore evangelico. Certo, la rabbia finisce per tracimare, e in abbondanza, anche attorno al tavolo cui si riuniscono i dodici giurati di Mikhalkov, dal verdetto dei quali dipende la vita di un ragazzo ceceno accusato di aver ucciso il padre adottivo, un soldato russo. La rabbia, però, non è forse il sentimento predominante: rassegnazione, disincanto, perfino disperazione, sorretti tuttavia da una pietas cristiana e da una fede nella giustizia divina, piuttosto che in quella terrena, sono le principali componenti che emergono nel monumentale affresco bizantino e simbolista del regista russo. E se c’è una differenza tra originale e remake, questa va ricercata soprattutto nelle architetture, nello spazio, nella cornice che circonda i soggetti del quadro, dato che questo nuovo film appare, almeno in superficie, quasi una parafrasi del testo originario. La parola ai giurati di Sidney Lumet si apre e si chiude con i protagonisti immersi nelle imponenti architetture di un palazzo di giustizia americano, dallo stile simmetrico e razionalista, quasi un robusto sostegno “fisico” alle idee e ai cristallini principi teorici di democrazia e uguaglianza. Nel film di Mikhalkov, invece, il tribunale non si vede che per pochi attimi: causa problemi di ristrutturazione i giurati sono costretti a formulare il loro verdetto nella vecchia palestra di una scuola attigua. Subentra una nuova metafora: la scuola – e più ancora la palestra, luogo principe dell’educazione classica e “ginnasiale” – come spazio della formazione, della coltivazione e della maturazione del sé. Ma si tratta di una palestra polverosa e scricchiolante, le cui tubature disastrate, risalenti agli anni Sessanta, sono solo le cadenti testimonianze di antiquati apparati di stato ormai in rovina. In questo luogo, dai contorni quasi apocalittici, a un certo punto finisce per mancare perfino la corrente elettrica: come a dire che si spegne definitivamente “la luce dell’ideologia” e che le linee guida per una condotta morale non vanno più ricercate in istituzioni e apparati esterni, ma solo dentro le proprie coscienze. 

Tra 12 Angry Man e 12, insomma, c’è tutta la differenza che passa in cinquant’anni di storia, d’Occidente e d’Oriente. Tutto il divario che intercorre tra pragmatismo post-bellico americano e disfatta post-ideologica sovietica. L’esordio di Sidney Lumet, datato 1957, è pieno, sì, di rabbia per le miserie, le discriminazioni e i soprusi della società contemporanea. Ma lo scontro accanito degli Angry Man si trasforma in energia positiva, proteso verso un futuro speranzoso in cui già si intravede il nuovo corso di John F. Kennedy. Una schiettezza e una lucidità che si rintraccia anche nello stile secco e asciutto di Lumet, ancora di derivazione classica. Agli stringati 96 minuti del film americano si contrappone il tracimare dell’opera russa, vero e proprio film-fiume di 153 minuti, in cui il pragmatismo e la razionalità laica dell’originale cedono il passo a una visione mistica e simbolista di matrice orientale. Nei protagonisti del film di Mikhalkov domina piuttosto il disorientamento e l’incertezza post-moderna, tipica di chi non riesce a risolvere le contraddizioni del proprio tempo. Il regista sovietico adatta i personaggi della piéce originaria alle circostanze della “nuova Russia”, disponendo una scacchiera teorica su cui si fronteggiano tutti i rappresentanti di una Nazione in crisi d’identità: il democratico moderato contrapposto al nostalgico comunista, il capitalista mammone che ha studiato ad Harvard contro il proletario impiegato delle metropolitane. Il mosaico si allarga fino a comprendere le diverse componenti etniche del melting pot sovietico: il reduce ebreo, il georgiano emigrato a Mosca e divenuto chirurgo, l’ex-funzionario corrotto arricchitosi con il business dei cimiteri, l’artista in tournée. Non manca neppure lo stesso Mikhalkov, che si ritaglia la parte meta-narrativa di presidente della giuria e di “regista” del dibattito.

Il richiamo all’attualità e alla questione cecena è solo la sintomatologia di un disagio interiore più profondo e universale, dove tuttavia riesce a trovare posto ancora un residuo di umana comprensione. Non si rintraccia più l’incrollabile fede per la legge e le istituzioni democratiche che sorreggeva il capostipite del 1957: l’unica ancora di salvezza rimane la riscoperta di un sentire umano. Il finale, forse fin troppo conciliante, è, più che una speranza, un monito: eliminare la rabbia, farsi contagiare dallo spirito di compassione, ricostruire insieme una Nazione in rovina, magari facendosi trasportare proprio dalla danza collettiva che suggella il film.

TITOLO ORIGINALE: 12; REGIA: Nikita Mikhalkov; SCENEGGIATURA: Nikita Mikhalkov, Vladimir Moiseyenko, Aleksandr Novototsky; FOTOGRAFIA: Vladislav Opelyants; MUSICA: Eduard Artemyev; PRODUZIONE: Russia; ANNO: 2007; DURATA: 159 min.

 


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