Oggetti. Ci sono solo oggetti nell’enorme casa della famiglia Recchi, ricchi industriali meneghini ed esponenti dell'alta borghesia più ortodossa, attenta solo alla forma e all’etichetta ma in lento, inesorabile declino. Tantissimi oggetti, e preziosi per giunta, da ammirare, da contemplare per il solo gusto di fare qualcosa quando non si ha altro da fare, molti frutto di un capriccio, quasi certamente manifestazione di opulenza. Oggetti. Cose materiali tra le quali la camera sapiente di Luca Guadagnino si districa con abilità, e sulle quali scivola via, si posa senza mai ingessare la visione, senza mai intorpidire lo spettatore, ma anzi, appassionandolo. Oggetti e ancora oggetti, e persone che vi gravitano attorno come satelliti alla ricerca di un valido punto di riferimento. Una famiglia sull’orlo dell’implosione che si regge su una sua maestosità apparente: inutili rituali da galateo, tradizioni di famiglia, una vera e propria servitù pronta a pulire, apparecchiare, accudire, mentre fuori Milano è bianca di neve. Una felicità apparente, quella di Emma, qui impersonata dal premio Oscar Tilda Swinton, musa altera, algida e raffinata come non mai, madre di tre figli nonché moglie del patriarca ricco e freddo, e che s’innamora perdutamente di Antonio (Edoardo Gabbriellini), cuoco di altra e inferiore estrazione sociale con il quale il figlio Edoardo sta per aprire un ristorante.
È questo il cinema che Luca Guadagnino, già regista di film di fiction, anche stroncati (e giustamente) dalla critica come Melissa P., ci porge davanti agli occhi con Io sono l’amore: un soggetto “vecchio”, ossia quello di una moglie ricca e mantenuta che riscopre la passione con un uomo più giovane e proletario, che potrebbe sembrare l’inutile reiterazione di un assurdo e stantio clichè letterario (ma non solo). E invece no, non è così. Guadagnino cambia le carte in tavola, sovverte tutto, parla una lingua diversa, fatta di immagini, luci e colori, questi vivi, accesi, che quasi friggono su celluloide. Il suo è un discorrere senza parole ma con solo immagini in movimento, ritmo, scene da raccogliere, rielaborare e, spesso, applaudire, che sanno rendere insolito, scardinandolo dall’interno, anche un vecchio e logoro topos letterario di cui si è fatto largo abuso, anche nel teatro e al cinema. Insolito al punto tale che per l’eccessiva novità può arrivare anche a infastidire. Guadagnino è bravo e ci sa fare: parla e dice senza parlare né dire, ma affidando tutto al linguaggio non verbale delle immagini. Bellissimo il modo in cui ha reso lo spaesamento di Tilda Swinton dopo aver scoperto l’omosessualità della figlia: l’ha fatta girare a vuoto tra le guglie del Duomo di Milano, tra gli spigoli di un pensiero che ha perso fluidità e che è in crisi d’identità. Meravigliose poi le scene di sesso, venate di quell’amore brutale proprie dell’onda della passione, in particolare quella in cui i protagonisti Antonio ed Emma, di nascosto come Paolo e Francesca, fanno l’amore in mezzo al prato: qui quasi non c’è censura e i loro corpi sono bianchi per quanto sono illuminati dal sole. L’apice della felicità e della realizzazione che corrisponde all’inondazione della luce.
Sarebbe interessante, in proposito, sapere quanto Guadagnino si sia rifatto all’arte pittorica di un Caravaggio, di un Vermeer o di un Michelangelo, tre grandi maestri che hanno dimostrato al mondo come si possa utilizzare la luce per dare senso a un’immagine. Il primo per conferire maggior pathos a scene dall’elevata drammaticità, il secondo per inondarvi letteralmente atti della vita quotidiana, e il terzo per dare maggior plasticità alle figure che dipingeva. Noi non sappiamo quanto Guadagnino vi faccia riferimento, ma possiamo dedurre, vedendo il film, che possa aver preso la lezione un po’ da tutti e tre. E poi c’è il cinema, tanto cinema in Io sono l’amore, attraverso omaggi, riferimenti, in particolare a Visconti, nella scena iniziale della cena, ad Antonioni, nei piani sequenza, nei silenzi e nell’incedere lento, e anche ad Hitchcock, nella scoperta della passione da parte di lei, nel dare un gusto vintage alla pellicola, nell’utilizzo dell’elemento onirico e della colonna sonora. C’è espressamente un chiaro riferimento a La donna che visse due volte nelle scene girate a Sanremo, nei pedinamenti di lei e nell’indugiare del regista sulla sua acconciatura a spirale, così come faceva il maestro del brivido con la sua Kim Novak.
Tutto è una festa per gli occhi, un tripudio visivo, un brulicare d’immagini penetranti che gettano finalmente un sassolino nelle acque stagnanti dell’attuale cinematografia nostrana. Strepitosa la fotografia di Yorick Le Saulx che scolpisce figure che sembrano uscire dallo schermo come in un bassorilievo. Eccellenti gli attori, tutti, e in particolare lei, Tilda Swinton, che qui sembra quasi l’unica donna rimasta sulla faccia della Terra. Un film che attanaglia e convince pienamente, eccetto che per il deludente finale. Perché ogni volta che una donna si ribella, e riscopre il desiderio, deve pagare un prezzo così alto? Perché le rivoluzioni, in particolare quelle portate avanti dalle donne, devono sempre essere distruttive?
TITOLO ORIGINALE: Io sono l’amore; REGIA: Luca Guadagnino; SCENEGGIATURA: Barbara Alberti, Ivan Cotroneo, Walter Fasano, Luca Guadagnino; FOTOGRAFIA: Yorick Le Saux; MONTAGGIO: Walter Fasano; MUSICA: John Adams; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2009; DURATA: 120 min.
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