Passione PDF 
Marco Doddis   

“Qui, la musica è come una preghiera”. Lo rivela John Turturro quando il suo Passione sta volgendo al termine. Ed è con questa battuta che il regista e attore americano, dopo quasi un’ora e mezza di proiezione, lancia allo spettatore la più appropriata chiave interpretativa della sua ultima fatica: c’è un che di mistico, di propriamente religioso nel rapporto tra la cultura partenopea e la musica, e di questo dobbiamo renderci conto. Non siamo dalle parti di pizza&mandolino, ma in un territorio assai più sofisticato. Del resto, l’intenzione di John Michael Turturro da Brooklyn era chiara sin dalla fase di progettazione della pellicola: mosso dall’intenzione di ridare un po’ di smalto ad una reputazione internazionalmente compromessa da monnezze e Gomorre, l’autore ha deciso di approcciarsi con “curiosità e con una grande umiltà nei confronti di una città meravigliosamente complessa”. Ha dichiarato altresì Turturro: “uno degli aspetti che più mi stavano a cuore durante le riprese del film era quello di evitare cliché e stereotipi, sfuggendo lo sguardo del turista”.

Messe in conto queste premesse, molte cose risultano più chiare, a partire da quella frase sulla preghiera. La “passione” a cui fa riferimento il titolo non è dunque quella componente di colore e calore della napoletanità nota in tutto il mondo. Qui, passione indica calvario, sofferenza, e fa riferimento a una gamma di sentimenti difficili da spiegare a chi non è di quelle parti. Turturro sembra suggerire che la musica è il calmante di un dolore profondo, è l’insulina di un diabete che inquina le vene di ogni partenopeo nel suo percorso di vita. È, insomma, un rimedio necessario per superare difficoltà che affondano le proprie radici nella storia, nella società e persino nel clima. “Canta che ti passa”, direbbe qualcuno. In quest’ottica, si spiega perchè il discorso di Turturro, a tratti gravato da una certa didascalicità, chiami in causa l’intera storia di Napoli, con i suoi vicoli misteriosi, le sue architetture secolari, le sue accorate sceneggiate, i suoi colori vividi e i suoi sbiaditi bianco e nero. La musica è ciò che più genuinamente condensa tutto ciò. Interpreta lo spirito partenopeo, ed è questa la ragione per cui l’infinito repertorio canoro della città è praticamente immortale: la storia non si può cancellare, al massimo può essere reinterpretata in chiave attuale (si veda, ad esempio, come alcune pietre miliari del calibro di Nun te scurda’ e Comme facette mammeta vengano rilette attraverso travolgenti videoclip).

In Passione non c’è una trama, non c’è un ordine narrativo, si procede per accumulazione, per caotica sovrapposizione di suoni, voci e volti, in perfetta sintonia con lo spirito del luogo. Il risultato finale è indubbiamente riuscito. Si possono anche perdonare certi bozzettismi e certe stonature (non sempre la rilettura è all’altezza del classico di riferimento): d’altra parte Turturro non intendeva proporre un serioso trattato sociologico, ma, prima di tutto, voleva intrattenere. Anche un confronto con Carosello Napoletano, chiamato in causa da qualcuno con rimpianto, risulta francamente fuori luogo. Tra le varie stazioni di questa allegra Via Crucis, ve ne sono alcune memorabili. Di sicuro, la più propriamente cinematografica è quella in cui Massimo Ranieri e Lina Sastri rifanno Malafemmena: la napoletanità (unita alla bravura, ça va sans dire) dei due attori e la divertente dinamica della sceneggiata fanno sì che l’operazione riesca senza che il Principe De Curtis debba rivoltarsi nella tomba. Molto divertenti sono poi i due episodi in cui lo sguardo del regista si esplicita maggiormente (uno sguardo in cui si apprezza la raffinata educazione presso l’“accademia Coen”): il primo, un poco surreale, è quello in cui i tre fratelli Esposito, anziani discografici, discutono su Enrico Caruso e Fernando De Lucia, non trovando un accordo su chi sia stato il migliore; il secondo, davvero esplosivo, è il duetto Turturro-Fiorello per Caravan Petrol di Carosone.

Sul piano canoro, invece, la voce che più cattura l’attenzione è quella di M’Barka Ben Taleb. Questa cantante tunisina è una scoperta entusiasmante per il grande pubblico: canta meravigliosamente ‘O sole mio e si esibisce in uno strepitoso duetto con Peppe Barra per Tammurriata nera, qui proposta in chiave arabeggiante. Il messaggio è sin troppo chiaro: la storia della musica napoletana è di tutti e può travalicare i confini della Campania. Appartiene al profondo Maghreb di M’Barka, ma anche, in direzione opposta, alla Lombardia di Mina, la cui Carmela apre la lunga teoria di canzoni della pellicola. Può addirittura attraversare l’oceano, spingersi fino a Brooklyn e stregare con la sua “passione” Mister Giuà Turturro, colui che, nei titoli di coda, appare accreditato come regista.

TITOLO ORIGINALE: Neapolitan Songs; REGIA: John Turturro; SCENEGGIATURA: John Turturro, Federico Vacalebre; FOTOGRAFIA: Marco Pontecorvo; MONTAGGIO: Simona Paggi; PRODUZIONE: Italia/USA; ANNO: 2010; DURATA: 95 min.

 


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