TFF 27/Documenti dal Giappone. Nagisa Oshima, tra storia e autobiografia PDF 
Davide Morello   

Accanto alla produzione più celebre di Nagisa Oshima, la retrospettiva a lui dedicata al 27° Torino Film Festival ha proposto, come si conviene, quelle opere minori abitualmente trascurate e inedite, destinate, quando va bene, al circuito televisivo. Lavori che contribuiscono ad approfondire l'approccio che l'intellettuale ed esponente di punta della Nouvelle Vague e del cinema giapponese intrattiene con la realtà e le tematiche a lui più care. La guerra e i conflitti, la memoria storica, quella personale, il tema della morte, l'identità, la fede o la superstizione, il confronto con il mondo occidentale, la funzione stessa del cinema nella società, rappresentano tutte problematiche e figure che è possibile individuare a più riprese nell'intera sua opera.  Alcuni dei suoi documentari divengono così strumenti inediti per indagare il rapporto che il regista intrattiene con la storia del suo paese, il suo impegno, il suo metodo di analisi critica, di scrittura filmica, anche in funzione di un mercato produttivo alternativo alla sala cinematografica.

Per la serie TV Il Mondo Sconosciuto Oshima ha girato e montato documentari che vertono su battaglie e guerre di cui l'impero del Sol Levante si vide coinvolto a partire dalla cessazione della sua politica di isolamento: The Battle of Tsushima (1975), Graves at Sea (1976), The Island of the Final Battle (1976). La necessità di documentare gli eventi bellici conduce l'autore ad assemblare, in queste produzioni, testimonianze e drammatici ricordi degli stessi protagonisti sopravvissuti alla tragedia degli scontri navali del 1905 contro la potenza Russa, quelli della Seconda Guerra Mondiale nell'area del Pacifico, le battaglie del 1942 (delle quali si esplora il cimitero sottomarino fra relitti e materiale bellico di ogni genere, resti umani compresi), e l'invasione della vicina isola di Saipan nell'arcipelago delle Marianne, occupata dagli Stati Uniti nel 1944. Le parole, le espressioni, i ricordi, alquanto eloquenti, dei superstiti affiorano di fronte allo sguardo attento e sensibile del regista, pronto a cogliere nelle individualità dei soggetti un forte spirito collettivo che esalta i valori di un impero dalla dottrina rigorosa. La soggettività di uomini e donne si fa strada per mezzo dei loro racconti, ricordi evocati che si accumulano insieme a immagini di repertorio, fotografie ingiallite, censurate, documenti, stampe dell'epoca, riprese sottomarine. Parlano i volti, i silenzi, i piani fissi che colgono lo sfogo di un'emozione, di una commozione non trattenuta, e le domande del regista, discreto, animato dal progetto di ricostruzione storica, incuriosito dalle vicende che tracciano il destino di un Paese e ne segnano il carattere forte e dominante. Maggiormente articolato il primo, The Battle of Tsushima, che struttura un impiego eterogeneo di materiali iconici, di repertorio, fotografie animate da un semplice commento sonoro, arricchito da documenti cinematografici, illustrativi, i quali si dinamizzano ed elaborano un prodotto destinato al consumo televisivo e contraddistinto da un intento che travalica la documentazione impersonale o didascalica. L'esplorazione subacquea del secondo (Graves at Sea), che accosta il fascino dei relitti al profondo sentimento di tristezza, condivide invece con l'ultimo (The Island of the Final Battle) il grande spirito di sacrificio, il rito del suicidio per l'onore in alternativa alla vigliacca resa, il tema politico, sociale, ma anche religioso di un'identità nazionale che affiora tra le vicende storiche impresse sulla pellicola nell'intento di contrastare l'oscura ombra dell'oblio.

I libri non dedicano pagine a questi avvenimenti, i ragazzi non studiano la battaglia di Tsushima, commenta l'autore con un reduce ultra-novantenne, denunciando l'inevitabile sorte che annebbia le singole imprese storiche. La grande guerra dell'Est asiatico è quella che il Giappone ha condotto nel pacifico a partire dall'anno 1941 e a cui è dedicato, nella varietà dei più famosi eventi storici, il documentario omonimo (The Greater East Asia War del 1968). Qui immagini e commenti sono unicamente materiale di repertorio, grandi parate, culto nazionalistico, propaganda radiofonica e cinematografica, attuata a 360 gradi nella società tutta, chiamata ad una partecipazione massiva che coinvolge l'esercito, le donne lavoratrici, i bambini che si arruolano in tenera età per la difesa del proprio paese. Segmenti montati con maestria che, nella prima parte, illustrano le dinamiche di esaltazione e culto dei valori e delle imprese belliche della nazione, e che sottolineano, nella seconda, il coraggio e la dedizione della popolazione, quando la svolta della guerra ribalta il vantaggio dell'Impero costretto alla graduale ritirata, fino al famoso discorso dell'imperatore Hiroito che annuncia la resa incondizionata come unica soluzione attuabile in seguito allo sgancio delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Immagini generalmente conosciute dalla Storia, che ha visto i grandi regimi farne ampio utilizzo in una retorica di culto che travalica ogni oggettiva considerazione sugli eventi reali, ma affrontati qui con obiettività, spirito critico, a tratti sorretto da intento demistificatorio, in cui il materiale assemblato non omette errori e debolezze del governo nipponico, osserva dal punto di vista del nemico le imprese suicide dell'aviazione, la disperazione e il sacrificio di un popolo orgoglioso indirizzato verso la sconfitta. Segmenti di chiusura che dilatano gli avvenimenti in un meccanismo di ridondanza di immagini e suoni sull'azione dei kamikaze. La voce radiofonica che illustra il rapporto del quartiere generale dello stato maggiore scandisce freddamente le tappe del conflitto e simultaneamente regge la struttura unitaria in quanto leitmotiv dell'intero documento, il cui criterio di montaggio, in primo luogo, diviene  meccanismo di scrittura, di ri-produzione di senso e di analisi storica. Documentario efficace nella sua originalità, che al tempo è parso alla critica giapponese come guidato da uno stile nuovo rispetto alle convenzioni del genere: “Oshima ha fatto una cosa inedita, ha montato vecchi documenti della propaganda imperialista, così com'erano, utilizzando anche l'audio originale. A distanza di anni, vedere quelle immagini e sentire quelle parole e quel linguaggio ormai dimenticati ha provocato un impatto molto forte tra i giapponesi […] Nessuno, prima di lui in Giappone, aveva pensato di montare spezzoni di altri documentari e utilizzarli così com'erano” (1).

La memoria è anche il tema strutturale di Kyoto, My Mother's Place (1991), che già dal titolo dichiara la sua profonda natura autobiografica. È un percorso a ritroso che l'autore compie nel proprio passato alla ricerca e alla scoperta dei propri affetti e delle proprie inquietudini, che tendono a coincidere. La città della madre, la tradizione, gli usi, il provincialismo di una Kyoto che lo stesso Oshima detesta, da cui fugge da giovane per potervici ritornare e conoscere le sue radici e che, attraverso la pratica filmica, che è anche una sorta di pratica terapeutica, permette a paure e sensi di colpa di emergere. Il rapporto contraddittorio con la città, come lo è quello con la madre, sembra il risultato di un percorso in divenire in cui il regista scopre insieme allo spettatore l'ambivalenza dei propri sentimenti, la natura dinamica che il tempo attribuisce agli eventi, al passato, al ricordo, alle considerazioni attuali. Critico nei confronti di una cultura di imposizioni e sottomissioni, attraverso la figura della donna defunta, che viene ricordata con fotografie, interviste e il continuo commento in prima persona, esplora lo stile di vita della città, il modo di essere e le consuetudini dei suoi abitanti: dall'arredamento delle abitazioni, al loro significato sociale, alle rigide regole che vincolano i rapporti tra marito e moglie, tra vicini, fino ad espandersi a morale e filosofia diffusa che ruotano intorno al concetto di pazienza. I templi e i rituali religiosi, i ricordi personali di un'adolescenza inquieta in tempo di guerra. Qui Oshima mette in gioco se stesso, e in piena libertà rende conto in modo approfondito e poetico della storia di una comunità che si intreccia con il proprio sentimento più intimo. La riflessione propone il risvolto celebrativo di un'identità, di uno spirito di appartenenza che emerge nell'indagine del proprio tessuto culturale con quella sfumatura nostalgica che si riscontra a più riprese nella struttura tematica della pellicola, la quale si accosta a quel diffuso sentimento di ribellione e che ruota intorno al dominante tema della morte, centrale nell'opera del regista. Così come la contrapposizione fra Oriente e Occidente crea un parallelismo, a cui ci abitua l'autore, che verte sulla fede e sui costumi, che allarga l'orizzonte di una critica culturale, la quale sfugge ad una linea interpretativa univoca per sollecitare costantemente un confronto fra mondi coesistenti.

Altro documentario di indubbio interesse sotto un profilo intimistico, ma anche per quanto riguarda l'uomo di cinema, è la conversazione-intervista del regista russo Sokurov, Rushes from a dialogue between Nagisa Oshima and Aleksandr Sokurov (1996). Formalmente trascurata nei suoi piani prolungati e statici, con i suoni d'ambiente talvolta fastidiosi, il nucleo verte sul contenuto di un dialogo amichevole fra i due autori. L'inquadratura è sempre occupata dal maestro giapponese, eccetto che in rari spostamenti su un fondo neutrale, quando la situazione tende a privilegiare la continuità delle battute, o nella conversazione di fronte al giardino di casa in cui Sokurov appare a lato e di spalle. Tema del film, dallo stile amatoriale, che lascia spazio a indugi, alla realtà della registrazione, è ancora una volta la cultura giapponese, il punto di vista occidentale che indaga la visione dell'interlocutore. Poche ma salienti le battute sul cinema, in cui Oshima viene condotto a riflettere sui concetti di pensiero ed emotività che guidano il processo artistico rivelando una tendenza prevalente nel suo cinema e nel suo patrimonio culturale, che tende a celare l'emozione, piuttosto che considerarla stimolo creativo e spunto per il lavoro. Forse è proprio il sentimento nascosto, il non visto e il non detto, che la critica dovrebbe individuare nei suoi film, invece di ribadire cosa egli voglia esplicitamente esprimere, dice il regista. La carenza di tradizione pittorica nipponica nel cinema nazionale è dovuta al fatto che la settima arte nasce in Giappone come importazione di una pratica prettamente occidentale, statunitense ed europea. Una considerazione pessimistica sul cinema giapponese contemporaneo mette in luce le difficoltà dei giovani registi di cui egli stesso è rappresentante in patria. Critica verso un sistema produttivo, industriale e consumistico che l'autore conduce ormai da anni nei suoi scritti e nelle sue interviste.

Frammenti di una produzione secondaria che affronta problematiche appartenenti all'universo culturale e alle questioni di maggior interesse affrontate dal regista, il quale, anche nei suoi prodotti televisivi, firma con stile personale e critico l'analisi della storia e della società nipponica e, con tono estremamente confidenziale, nei due documentari successivi attesta la funzione pedagogica e sociale del cinema, nonchè il suo utilizzo inteso come  strumento di scrittura autobiografica.

Note:
Cfr. Intervista a Tadao Sato, 14 novembre 2009, Lettera 22 htm

 


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