TOFIFE 2005/Masters of Horror PDF 
di Alessio Gradogna   

Uno dei principali eventi della XXIII edizione del Torino Film Festival è stato senza dubbio il Masters of Horror. Tredici grandi registi del cinema dell'orrore riuniti insieme, per un film di un'ora ciascuno, destinati alla TV via cavo statunitense "Showtime", e acquistati per il mercato italiano da Sharada Films. Dei tredici episodi, girati in low-budget, per i quali i rispettivi registi hanno goduto di assoluta libertà creativa, senza interferenze da parte dei produttori, i primi sette sono stati presentati in anteprima europea a Torino. In più cinque grandi autori (Garris, Argento, Dante, Coscarelli e Landis, mancavano purtroppo Hooper e Carpenter) hanno personalmente presenziato al festival, e si sono resi protagonisti di una bellissima conferenza collettiva in cui hanno amabilmente chiosato in merito a tanti temi riguardanti l'horror e le loro rispettive gloriose carriere.

Andiamo dunque ad analizzarli, questi sette episodi, in ordine crescente di qualità. Ad aprire le danze, in veste sia di produttore esecutivo, sia di regista, è Mick Garris, con Chocolati, l'episodio più debole dell'intero lotto. Tema portante del mediometraggio l'ossessione per la cioccolata, che conduce il protagonista ad uno sdoppiamento di personalità talmente estremo da condurlo ad un'immaginifica fusione con il corpo femminile di una donna misteriosa. Nella caccia disperata a questa donna (ir)reale si attua l'unica possibilità di salvezza per una vita destinata al fallimento. Soggetto interessante, che Garris non padroneggia con la giusta intensità e compattezza, scontando una regia para-televisiva non adeguata. Il sardonico John Landis (mattatore assoluto della conferenza, un vulcano di umorismo e idee), si abbandona ad un puro divertissement semi-parodistico con Deer Woman, nel quale rappresenta l'antica leggenda pellerossa della donna cervo. Il tono è lieve e goliardico, l'inizio del film, giocato sulla rielaborazione della stessa sequenza scompaginata in differenti punti di vista, è indubbiamente esilarante, lo sviluppo della storia non offre particolari spunti innovativi

Positiva, e sorprendente, la prova di Dario Argento, con Jenifer. Dopo gli ultimi a dir poco sbiaditi lavori, il rappresentante nostrano dei Masters si riappropria dell'antica intelligenza visiva, e di una dose di cupa crudeltà che non gli si riconosceva più. In una storia d'amore tragico e assoluto, nel volto sfatto di una donna freak che cerca l'approdo all'umanità ma che è condannata a restare in eterno ingabbiata nella propria ferina bestialità, Argento sviluppa sequenze estreme, ricche di gore, brutali e scioccanti, e recupera fasti impolverati di precisione stilistica. Ben fatto il make-up della creatura, evidente la presenza di un sano gusto per la codificazione dell'orrore puro, stonate e a dir poco obsolete le musiche di Claudio Simonetti. Standing ovation: ecco la reazione che il pubblico ha tributato a Joe Dante dopo la visione del suo Homecoming. I soldati americani morti in guerra riemergono dalle tombe per affermare il loro diritto di voto e la loro protesta per un conflitto stupido e inutile, finendo a influenzare gli esiti delle elezioni presidenziali. Dante scaglia un pesantissimo atto d'accusa contro il governo americano, confezionando un film che, per bocca dello stesso Argento, in Italia sarebbe stato impossibile realizzare. Il tutto è condotto ad un livello satirico (le innumerevoli sequenze comiche) e autoreferenziale (gli omaggi a Tourneur e Romero), l'operazione è intelligente e coraggiosissima, ma a livello puramente cinematografico il film sconta qualche banalità e alcune battute "a effetto" non particolarmente ricercate né originali. In ogni caso, in Homecoming, si esplica la corretta definizione di film "politico", per ridere e riflettere allo stesso tempo, liberando ogni freno inibitorio e lasciandosi trasportare dalla rabbia soffocata per tutti i ragazzi morti nel modo più insulso e atroce.

Se Argento stupisce con una ritrovata voglia d'orrore, Tobe Hooper sconvolge e lascia inebetiti: il suo Dance of the Dead, tratto da un racconto di Richard Matheson e sceneggiato dal figlio Christian, è un pugno nello stomaco, un'orgia visiva, un viaggio acido e adrenalinico nei meandri della follia umana, un rave movie sparato alla velocità di un disco heavy metal. Ambientato in un futuro post-apocalittico in cui l'anarchia regna sovrana, e l'orrore è parte integrante della realtà quotidiana, la scena poggia sulle spalle di un luciferino e straordinario Robert Englund, gestore di un locale in cui i morti sono tenuti "in vita" grazie ad una potente droga che riattiva le fibre muscolari, e fatti "ballare" per il divertimento della gente. Marcio, sardonico, crudele e trionfante Englund, come e più che in Nightmare e in The Mangler, regia delirante e inarrestabile, musiche tecno-metalliche di Billy Corgan, effetti speciali stranianti, un film esagerato e fracassone, difficile da digerire al primo impatto, una colata lavica di pazzia che (ri)porta Hooper all'apice della sua carriera, dopo la crisi degli anni '90 e i segnali postivi già colti in Toolbox Murders. Molto positiva anche la prova di Don Coscarelli, nell'attesa di vedere anche in Italia il suo già cult Bubba Ho-Tep, tratto da Lansdale. Con Incident on and off a Mountain Road, il regista di Phantasm mette in gioco paure ataviche, mostruosità repellenti, sequenze shock, e, sullo sfondo, il processo di maturazione di una giovane donna che nel pericolo scatena gli artigli per salvare la propria vita, ed ergersi (grazie ad un rovesciamento strutturale non nuovo ma interessante) a nuova Entità del Male. Tra atmosfere plumbee alla Jeepers Creepers, ed efferatezze sfocate di hooperiana memoria, Coscarelli costruisce un'ora di orrore vero, esemplificando nell'immagine di un trapano che entra in un occhio e ne fuoriesce gocciolante sangue la cecità universale di una realtà senza speranza, in cui gli occhi, proprio loro, servono a vedere "tutto il Male del mondo".

E infine lui, sopra a tutti, il supremo incantatore, John Carpenter, che con Cigarette Burns inventa un'altra sintesi di straordinaria riflessione metafisica sui confini dell'orrore. Nella ricerca ossessiva di Jimmy Sweetman, incaricato da un ricco collezionista di scovare una copia dell'introvabile film maledetto "La fin absolue du monde", si espande una riflessione acuta, geniale e realmente inquietante sul potere ammaliatore del cinema e sugli effetti collaterali che ne derivano, recanti il seme rappreso della follia. La metafora del film come strumento con cui ogni regista vende l'anima al Diavolo, nelle pieghe di un'opera strutturata alla stregua di un mistery-thriller, ma con esaltanti momenti splatter, corre parallelamente alla significazione delle "cigarette burns", le bruciature di sigaretta entro cui resta in gestazione il senso nascosto all'interno di ogni tratto di pellicola. È l'orrore di ciò che non è immediatamente percepibile, ed è l'invito di Carpenter a scavare con le unghie nei sottotesti che disvelano l'esatta anima e la vera essenza di ogni film, come opera d'arte e al contempo come opera di morte. Rigoroso, filosofico, impeccabile capolavoro.

 


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