Nemico pubblico n° 1 - L'ora della fuga PDF 
Gianpiero Ariola   

Nella seconda pellicola dedicata a Jacque Mesrine, Richet mostra la crescita del famigerato criminale facendo ancora oscillare la sua attenzione tra dimensione privata e apparizione pubblica. Nella sua fase matura, il celebre ladro pare acquistare sempre più consapevolezza del suo ruolo di ribelle e rivoluzionario, così l’incertezza e l’istintività dei suoi esordi si trasformano gradatamente in risolutezza e costruzione tanto di sé quanto della propria immagine.

Per cogliere questa nuova fase biografica del leggendario gangster il regista utilizza tratti visivi più netti, abbandonando quella configurazione frammentaria e versatile del primo episodio, in cui l’immagine si deformava e si attivavano richiami extradiegetici. Ora il fuggire del protagonista è quasi discreto, e ad ogni modo fa parte di quella caccia al ladro a cui egli aderisce in piena coscienza. Il suo farsi trovare e ritrovare non è più una prova iniziatica, intrapresa come se l’inquadratura fosse il mirino di un tiratore scelto. La sua arte della fuga si è ormai perfezionata evolvendo parallelamente al controllo della propria visibilità. Una visibilità che certo passa per continui travestimenti, quale necessità strategica, ma è soprattutto una sorta di sfida disinibita con l’immagine stessa, in cui l’atto trasformistico non è enfatizzato in quanto tale ma fa parte del suo gioco maturo di istrioniche apparizioni e sparizioni. Si pensi, ad esempio, alla scena dell’evasione dal carcere, annunciata da quella esibizionistica promessa durante il processo. Se si confronta con quella analoga mostrata in Nemico pubblico n° 1 - L’istinto di morte, essa è descritta in maniera molto più fluida, meno rocambolesca. Non si verificano, infatti, conflitti a fuoco, perché viene architettata secondo un schema meno rischioso, trovando anche la connivenza dell’avvocato difensore. Mesrine compare sempre al centro della scena, la macchina da presa lo cerca spesso in primo piano, con uno sguardo sicuro che vigila le operazioni di fuga. È lui il regista del piano d’evasione, e non solo perché impartisce ordini ai suoi compagni, ma soprattutto per il modo in cui riempie l’inquadratura.

Lungo questa esigenza di costruzione dell’identità, si scopre allora un criminale attento alla comunicazione massmediale, ma soprattutto al verbocentrismo della TV. Le notizie televisive e radiofoniche, pertanto, diventano quasi un elemento della colonna sonora, un sottofondo che ribadisce quell’ambientazione storica e contribuisce alla definizione di un personaggio pubblico che dimostra di avere idee sempre più chiare e che si confronta spregiudicatamente con eventi internazionali quali il rapimento di Aldo Moro e l’insediamento di Pinochet, rivendicando la rilevanza divulgativa delle proprie imprese. Insomma, Mesrine sembra intraprendere una lotta non solo contro il potere politico, ma anche contro quel sistema giornalistico che male narra le proprie “gesta”. È interessato non soltanto al fatto che si parli delle proprie imprese criminali, ma vuole a tutti i costi far passare il suo messaggio, la sua precisa condotta morale. Essere definito gangster tout court, come lo taccia il pubblico ministero, diventa allora un atto offensivo, perché travisa i suoi obiettivi e ignora le sue regole di lealtà verso gli amici. Così come risulta intollerabile che si commetta un errore nel citare il proprio nome o le parole che ha pronunciato in pubblico (lo vediamo irritarsi vistosamente mentre ascolta la cronaca della sua evasione dal tribunale).

Per reagire all’insofferenza del fraintendimento, egli decide di scrivere la propria autobiografia, e successivamente rilascia anche un’intervista alla stampa. In particolare, in quest’ultima scena il regista ricorre ad un montaggio ellittico e sincopato del suo corpo inquieto, esprimendo così tutto il suo spirito intransigente e indomito. I momenti rubati tra gli stacchi riflettono esattamente gli scarti di mistero che egli stesso lascia, o vuole lasciare di proposito trapelare nelle pieghe della propria personalità pubblica. Sì, perché Mesrine, confermando quella tendenza sempre più maniacale di apparire e mostrarsi ai media, sfida il suo pubblico (sia gli spettatori, sia i cittadini che seguivano, in quegli anni, le sue vicende) perché vuole farsi conoscere, ma entro limiti prestabiliti. Il suo fascino sta proprio nell’ambiguità di questo gioco che tende a svelarlo solo parzialmente. Ciò che vuole chiarire di sé sono le linee del proprio pensiero, questo è ormai chiaro, ma oltre c’è quell’incertezza, una sorta di lato oscuro. Ecco, allora, che intorno a quei versanti umbratili della personalità sorge il dubbio della sua pericolosità e si insinua quello della paura come alter ego del fascino. Se, da un lato, egli spaventa ma insieme ammalia le donne che incontra (si veda la scena in cui porta in camera le due prostitute, le quali, scoprendo la sua identità da un annuncio televisivo, prima sembrano atterrite poi si abbandonano alle sue avances), dall’altro lato sa anche essere spietato con chi lo denigra (come nella scena della falsa intervista che si trasforma in pestaggio spietato, ai danni di un giornalista che lo aveva accusato di non avere onore e di non rispettare gli amici).

Di particolare interesse è poi la lunga sequenza finale, tutta costruita su un meccanismo di suspense. Il pubblico è già al corrente di particolari che sfuggono al protagonista e, nonostante questa scena, sotto varie angolazioni, si sia già vista, lo stato di palpitazione dello spettatore resta comunque altissimo. Il regista, che prima aveva mostrato minuziosamente le ultime mosse di Mesrine (si ricordi la scena iniziale de L’istinto di morte), e che aveva aperto L’ora della fuga con le immagini del suo cadavere, riesce a tenere alta la tensione con buona maestria, cambiando radicalmente punto di vista (che rimbalza in soggettiva da un agente all’altro, passando dai finestrini dei piccoli furgoni in cui questi si sono appostati). Ciò che muta non è solo l’angolazione visuale, ma anche quella emotiva, dato che la paura provata dai poliziotti è tale da disorientare la vista anche dello spettatore. Così non è più il nostro nemico pubblico a doversi nascondere, come ci aveva palesato già l’intera pellicola, ora sono gli altri a non vederlo più, perdendolo di vista nonostante la brevissima distanza che lo separa da loro. Quasi per l’effetto oscurante dell’esasperata ansia provata dai poliziotti, il famigerato ladro sembra quindi eclissarsi, per poi ricomparire ogni volta, placido e incurante, mentre si avventura verso quella tragica fine di cui era ignaro, ma che in qualche modo aveva previsto.

Richet, in conclusione, con i due capitoli di Nemico pubblico n° 1 ha tracciato, grazie anche allo zampino di un impeccabile Cassel, il profilo biografico di un personaggio non facile da catturare, sfruttando abilmente l’immagine filmica per riflettere l’ambiguo apparire del protagonista. Ed è soprattutto per questo che la sua coraggiosa impresa della doppia pellicola regge bene, lasciando lo spettatore sospeso sulle sorti di un criminale indomito, fermato dalla polizia solo con un agguato pseudo-terroristico. Un finale che forse sarebbe piaciuto allo stesso Mesrine, il quale certamente avrebbe visto rispecchiata nel film la sua inquieta richiesta di libertà e quell’insofferenza verso l’angustia di un società diseguale, troppo invaghita dell’apparenza.

TITOLO ORIGINALE: L'ennemi public n°1; REGIA: Jean-François Richet; SCENEGGIATURA: Abdel Raouf Dafri, Jean-François Richet; FOTOGRAFIA: Robert Gantz; MONTAGGIO: Bill Pankow, Hervé Schneid; MUSICA: Marco Beltrami, Marcus Trumpp; PRODUZIONE: Canada/Francia; ANNO: 2008; DURATA: 130 min.

 


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