La rabbia PDF 
Matteo Marelli   

ImageQuello che più mi colpisce di Pasolini, oltre la lucidità del pensiero, è intuire il prezzo della disperata offerta di sé stesso, che fece redenzione della catastrofe di cui è stato testimone. Sento che quell'offerta è la misura dell'onestà di un artista. (Davide Ferrario)

Estraneo ad ogni forma di ortodossia politica e culturale, eretico, per scelta, di ogni ideologia ufficiale, poliedrico, incontenibile, Pier Paolo Pasolini si è confrontato con molteplici universi espressivi, riuscendo ogni volta a piegarli alle proprie esigenze, a fare di questi, i mezzi attraverso cui comunicare la propria personale concezione etica ed estetica. Attraverso una pluralità di campi d’intervento, anche in ambiti al di fuori delle proprie competenze, Pasolini è sempre stato in grado di porre dubbi, seminare interrogativi, frantumare facili verità, facendo luce sulle incoerenze passivamente accettate. Con le sue parole, scritte e dette, e le sue immagini, ha cercato di scuotere dal torpore, dal conformismo, dall’indolente pigrizia, spingendo a prendere consapevolezza del reale stato delle cose, per non subire il verificarsi degli avvenimenti storici. È stato un uomo d’azione, “carico di rabbia politica e sociale, di una consapevole tristezza e di una tragica solitudine”, pronto a gettare il proprio corpo nella lotta. Pasolini era un lottatore per vocazione, cercava l'attacco, lo stimolava. Appassionato osservatore della realtà che lo circondava, fu un critico rovente e acuto che non temette niente e nessuno. Il grande coraggio delle sue idee originali lo faceva generalmente percepire come una voce nemica del potere costituito. Sprezzante, tagliente, amara, la sua posizione politica non si è mai avvalsa di mezze misure. La sua opera porta in sé i segni della lotta orgogliosa, che egli ha condotto per smascherare le imposture dell’esistenza, per raggiungere la verità finale, pur presentendo che questa avrebbe anche potuto coincidere con la sua stessa morte. Pasolini sente che il primo dovere a cui deve rispondere, in quanto artista e intellettuale impegnato, disinteressato e appassionato, è quello di essere una contestazione vivente, di ferire, attraverso la propria opera, la coscienza borghese, rendendole evidente e doloroso ciò che contrariamente preferisce non vedere, ignorando la disperazione del presente, i contrasti di una condizione in atto: “La via d’uscita verso l’eterno non è in questo amore voluto e prematuro. Nel restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo, è da cercare la salvezza” (1).

ImageIl suo percorso intellettuale è segnato da un’insonne produttività, ha proceduto attraverso una serie di cambiamenti di direzione secchi e decisi che lo hanno portato a confrontarsi con differenti linguaggi, da lui usati in maniera creativa, costantemente spiazzante, provocatoria. Pasolini s'è dimostrato sempre capace di mantenere un punto di vista mai scontato, come ha dimostrato anche nella realizzazione de La rabbia, sua personale rivisitazione del cinegiornale, genere solitamente caratterizzato da toni demagogici e da posizioni qualunquiste, che nelle sue mani diventa reportage, un saggio in forma di film. Nei primi mesi del 1963, durante le fasi finali della lavorazione de La ricotta, Pasolini accetta la proposta del produttore Gastone Ferranti di sperimentare una forma filmica diversa dalla narrazione cinematografica tradizionale. Ferranti affida a Pasolini il materiale di repertorio appartenente al cinegiornale, Mondo libero, da lui diretto e prodotto, per farne un poema sull'attualità. Da novantamila metri di pellicola Pasolini estrae una serie di immagini della storia e della cronaca recenti e le monta con altro materiale proveniente dagli archivi di Italia-URSS, libri d'arte (le riproduzioni di opere di Ben Shahn, Renato Guttuso, George Grosz, Jean Fautrier, Georges Braque, Pontormo, Jackson Pollock) e rotocalchi (le fotografie di Marilyn Monroe). A dare respiro al componimento visivo è un intenso poema elegiaco dove si alternano versi (letti da Giorgio Bassani) e commento in prosa (letto da Renato Guttuso) che cambiando tono e timbro, variando ritmo e cadenza, s'intrecciano in un'amara sentenza, in “un atto di indignazione contro l'irrealtà del mondo borghese e la sua conseguente irresponsabilità storica”. Pasolini concentra il proprio sguardo su un decennio cruciale per la storia mondiale, ma in particolar modo per quella italiana, quello del boom economico, che innesca una violenta, irreversibile trasformazione sociale e culturale. Come un moderno aurispice sa leggere con sofferta perspicacia i segni dell’avanzare di un nuovo potere, di un fascismo più sofisticato, che sta mettendo in atto una disastrosa opera di omologazione culturale, distruttrice di ogni autenticità e concretezza, una rivoluzione delle coscienze in direzione di un’omologazione del proletariato entro l’etica borghese perbenisticamente conservativa, di un annullamento dell'identità personale a favore dell'identificazione con la maggiorana. Pasolini invita a tenere gli occhi ben aperti, a non ignorare la realtà, a sforzarsi di comprendere il mondo per non lasciarsi sottomettere da un sistema dittatoriale che attraverso l’illusione edonistica costringe al conformismo, all’annullamento dell’identità, ad un unico modello di vita possibile, ad un’unica realtà culturale ed ideologica… “Qui è terribile: più si fugge e meno si è diversi, la fuga è essere sempre più uguali agli altri, sempre più uguali agli altri…”. “Il razzismo come cancro morale dell'uomo moderno, e che, appunto come il cancro, ha infinite forme. È l'odio che nasce dal conformismo, dal culto della istituzione, della prepotenza della maggioranza. È l'odio per tutto ciò che è diverso, per tutto ciò che non rientra nella norma, e che quindi turba l'ordine borghese. Guai a chi è diverso! Questo il grido, la formula, lo slogan del mondo moderno. Quindi odio contro i negri, i gialli, gli uomini di colore: odio contro gli ebrei, odio contro i figli ribelli, odio contro i poeti” (2).

ImagePasolini vede profilarsi i lineamenti della Nuova Preistoria: “Quando il mondo classico sarà esaurito quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani quando l'industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo allora la nostra storia sarà finita”. La nascente Società dei Consumi per mettere in atto il proprio piano di mutazione antropologica e genocidio culturale dispone di un mezzo efficacissimo, il dispositivo televisivo, “una nuova arma”, “inventata per la (...) diffusione dell'insincerità, della menzogna”, ossia “la voce che contrappone un'ironia umiliante a ogni ideale, la voce che contrappone gli scherzi alla Tragedia, la voce che contrappone il buon senso degli assassini agli eccessi degli uomini miti”. Il commento del cinegiornale parla di decine di migliaia di futuri spettatori della Tv. Ma Pasolini lo smentisce: no, saranno milioni, “milioni di candidati alla morte dell'anima”. “La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere” (3). Pasolini, con ampio anticipo, capisce come il linguaggio televisivo, spietatamente ed efficacemente, riuscirà a sopprimere ogni differenza imponendo lo stile di vita di una borghesia che si rispecchia nel tubo catodico per celebrarsi senza soluzione di continuità, un modello voluto “dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo», un modello esistenziale che proprio perché non descritto o decantato, ma direttamente rappresentato si impone in modo immediato e dunque facilmente comprensibile, assimilabile ed imitabile. “…la massa, non il popolo, la massa decisa a farsi corrompere al mondo ora s’affaccia e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video si abbevera, orda pura che irrompe con pura avidità, informe desiderio di partecipare alla festa. E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole” (4).

ImageIl messaggio che passa attraverso lo spettacolo televisivo è, per dirlo con le parole di Guy Debord, “ciò che appare è buono, ciò che è buono appare”. Debord è un punto di riferimento importante per capire come le idiosincrasie pasoliniane abbiano fondamento; anche l'autore de La società dello spettacolo afferma, con toni similmente apocalittici a quelli di Pasolini, che i paesi capitalisti si stanno evolvendo verso una società in cui gli individui sono meri spettatori passivi di un flusso di immagini scelte dal potere, giustificatrici dell’assetto istituito, che si sostituiscono completamente alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. L’individuo, quindi, deve rinunciare alla propria personalità se vuole essere accettato dalla società, poiché questa richiede “una fedeltà sempre mutevole, una serie di adesioni continuamente deludenti a prodotti fasulli”, e ciò gli impedirà di conoscere i suoi veri bisogni e desideri. Ma Pasolini con La rabbia vuole anche “documentare la presenza di un mondo che, al contrario del mondo borghese, possiede profondamente la realtà. La realtà, ossia un vero amore per la tradizione che solo la rivoluzione può dare”. Egli crede ancora in una rivoluzione degli umili, in quegli uomini nati nel fango, negli scarti, da sempre costretti a vivere ai margini, in un mondo fatto di miseria materiale, per la sola colpa di portare inscritta sui propri corpi la traccia della loro povertà, in quella “nuova estensione del mondo”, che si chiama “colore”. Un universo ancora vitale, gioioso che si pone come antitesi al mondo borghese: “Ma nei rifiuti del mondo, nasce un nuovo mondo: nascono leggi nuove dove non c’è più legge; nasce un nuovo onore dove onore è il disordine…Nascono potenze e nobiltà, feroci, nei mucchi di tuguri, nei luoghi sconfinati dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia, per migliaia di volte, con ponti e labirinti, cantieri e sterri, dietro mareggiate di grattacieli, che coprono interi orizzonti. (…) I figli si gettano all’avventura sicuri d’essere in un mondo che di loro ha paura, del loro sesso, ha paura. La loro pietà è nell’essere spietati, la loro forza nella leggerezza, la loro speranza nel non avere speranza” (5). Ed è questa realtà “altra” rispetto alla borghesia che Pasolini esalta, una realtà che egli sente vicina, nell’analogo rifiuto al modello di sviluppo sottostante alle leggi imposte dal potere neocapitalista, un rifiuto ovviamente dettato da opposte motivazioni che se per “l’intellettuale borghese anti-borghese Pasolini” è frutto di una precisa presa di coscienza, per il sottoproletariato è invece conseguenza di una totale estraneità alla realtà storica; in quella comune disperazione nel non potersi rassegnare al tragico destino della propria condizione. In quei personaggi emarginati Pasolini vede come se stesso ribaltato all’esterno: “La nostra speranza è ugualmente ossessa: estetizzante, in me, in essi anarchica. Al raffinato e al sottoproletario spetta la stessa ordinazione gerarchica dei sentimenti: entrambi al di fuori della storia, in un mondo che non ha altri varchi che verso il sesso e il cuore, altra profondità che nei sensi. In cui la gioia è gioia, il dolore dolore”. (6)

ImageQuesta realtà altra è contrapposta da una parte alla società Neocapitalista e Neocolonialista, dall'altra al grigiore della nomenclatura sovietica responsabile di una tremenda istituzionalizzazione dello spirito rivoluzionario. Come ultime tracce di un mondo antico che sta sparendo lasciando spazio ai primi atti della Dopostoria, Pasolini coglie due sorrisi, quello di Giovanni XXIII, “dolce, misterioso sorriso di tartaruga”, e il “sorriso obbediente” di Marilyn Monroe, la “povera sorellina minore […] figlia di piccola gente”. Come s'è detto Pasolini, per realizzare questo saggio ideologico e politico, lavora con materiale di repertorio a cui riesce sorprendentemente a dare nuova vita. Riducendo o eliminando il sonoro di un frammento, estrapolando gli occhi della povera gente, gli anonimi volti sorridenti degli operai russi, la sofferenza e il panico dei bambini martoriati dalla guerra nel Terzo Mondo, Pasolini è come se creasse ex novo, appropriandosi intimamente di quelle immagini realizzate da altri. Dietro questa operazione si può ritrovare la pratica del détournement teorizzata da Debord, metodo di straniamento che modifica il modo di vedere le immagini comunemente conosciute, strappandole dal loro contesto abituale e inserendole in una nuova, inconsueta relazione, fino ad alterarne il significato originario. Terminato un primo montaggio, Ferranti intimorito dal taglio troppo ideologico e dalla poca commerciabilità del lavoro decide di correre ai ripari e far realizzare una controparte che affida a Giovannino Guareschi. Quando Pasolini visiona il materiale realizzato dall'autore di Don Camillo vorrebbe ritirare la firma, cosa che gli viene impedita per contratto. Il lavoro di Guareschi, come ebbe modo di dire Pasolini, è “non solo […] qualunquista, o conservatore, o reazionario. È peggio […] C'è tutto: il razzismo, il pericolo giallo, e il tipico procedimento degli oratori fascisti, l'accumulo di dati di fatto indimostrabili”. Il produttore cerca di sfruttare come strategia di lancio la formula già sperimentata del "visto da destra, visto da sinistra". La rabbia esce in poche sale italiane nell'aprile del 1963, distribuito dalla Warner Bros, che di fronte al generale disinteresse decide di ritirare velocemente la pellicola dalla circolazione. Pasolini, nonostante i tentativi di Ferrante per convincerlo a riprendere in mano il film per realizzarne una nuova versione, preferisce accantonare il lavoro per dedicarsi ad altri progetti.

Note:

(1) Pier Paolo Pasolini, Picasso in  Le ceneri di Gramsci, in Bestemmia. Tutte le poesie I,Garzanti, Milano 1995, p. 196.

(2) Pier Paolo Pasolini, Appendice a La rabbia in Pier Paolo Pasolini per il cinema I, I Meridiani Mondadori, Milano 2001, pp. 408-409.

(3) Pier Paolo Pasolini, 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in Scritti Corsari, p. 24.

(4) Pier Paolo Pasolini, Il glicine in La Religione del mio tempo, in Bestemmia. Tutte le poesie I, p.591.

(5) Pier Paolo Pasolini, La ricchezza (1955-59), in La religione del mio tempo, in Bestemmia. Tutte le poesie I, pp. 453-454.

(6) Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, in Bestemmia. Tutte le poesie I, p. 464.


TITOLO ORIGINALE: La rabbia; REGIA: Pier Paolo Pasolini, Giovanni Guareschi; SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini, Giovanni Guareschi; MONTAGGIO: Nino Baragli, Mario Serandrei, Pier Paolo Pasolini, Sergio Montanari, Giacinto Solito; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 1963; DURATA: 100 min.

 


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