Cannes 65 - E la vita continua … PDF 
Aldo Spiniello   

Se l’ultima Mostra di Venezia, con una coerenza disarmante, ci aveva restituito la visione di un cinema alla fine del mondo, Cannes prova a dare la speranza di un porto sicuro, di un cinema oltre la notte dei tempi. Come se fosse ora di rinchiudersi tra l’impenetrabile barriera delle proprie certezze e visioni. Se Venezia rischia l’apocalisse, il disastro, ora tocca far appello agli Autori laureati. Garanzia di un passato glorioso che promette ancora la possibilità di un futuro. Ma tra passato e futuro, sembra sfuggire il presente, l’appuntamento certo con il qui e adesso del mondo: 4:44 Last Day on Earth.

Cannes, il Festival per eccellenza, quello dei grandi nomi, sceglie di restare distante, rifuggendo qualsiasi rischio di Contagion, richiudendosi negli spazi chiusi e asettici di un cinema ipercontrollato. Si rinuncia alla realtà, probabilmente, per far spazio al Reality, la finzione elevata a sistema, apparato spettacolare innalzato sui suoi inossidabili meccanismi di controllo. In un modo o nell’altro, nel bene e nel male, lo specchio di questo festival sono i due film della Cronenberg Factory. David e Brandon, padre e figlio, pur se con apparenze diverse, scelgono la stessa strada. Raccontare l’ansia e la paura della modernità, accettando le strettoie e l’asfissia dell’apologo. La limousine di Cosmopolis e i laboratori bianchi di Antiviral sono la stessa cosa: luoghi stretti e chiusi, impermeabili, recinti di salvezza e di morte. Tutto è sotto controllo, analizzato costantemente, tra check up, valutazioni, prelievi, previsioni di borsa, speculazioni. Questo modo d’intendere il cinema è fatale. Ma restituisce il segno dei tempi. Perché il mondo, nonostante tutto, è là fuori e minaccia di corrodere le pareti del rifugio con la sua malsana follia.

È evidente che il palmarès di questa Cannes 65 sia il frutto della crisi. Perché restituisce la misura di una reazione spropositata alla paura. La paura dell’imprevisto, la paura di lasciarsi andare alla furia incontrollata degli eventi, dei sentimenti e delle passioni. Quelli di Haneke e Garrone sono, in fondo, due (odiosi) film innocui, proprio perché già morti, sterili esercizi di un’intelligenza presupposta, di una perfezione inseguita a discapito di ogni slancio. Se il mondo va alla deriva, il cinema deve funzionare, deve essere ammansito, a dispetto delle sue intenzioni ‘disturbanti’. Amour e Reality sono due negazioni che si elidono, finendo per affermare l’inviolabilità di un cinema sistema, una sacralità autoriale distante anni luce da ciò che vorrebbe raccontare, la verità di una condizione, particolare, individuale. Ma, aldilà dei premi, aldilà delle intenzioni, il quadro è ben più complesso. Perché è chiaro come tutti i film di questa Cannes 65 esprimano la contrapposizione tra due idee di cinema, interamente giocata sul rapporto tra lo sguardo e il mondo, ovvero sul set. Mai si è visto un festival tanto claustrofobico: film chiusi in limiti ben definiti, isole, conventi, appartamenti, castelli/teatro, autobus, automobili, cantine. Persino quando la natura sembra prendere il sopravvento, è solo la metafora di una chiusura invincibile, di solitudine soffocante. Le case nella foresta di Reygadas (case del diavolo), le paludi soffocanti di Paperboy di Lee Daniels, l’isola esilio di Mud di Jeff Nichols, le terre sommerse e malsane della Louisiana del sorprendente Beasts of the Southern Wild di Behn Zeitlin.

Eppure, nelle cose migliori, questa chiusura non tiene. C’è qualcosa che non quadra. È la tempesta del finale di Moonrise Kingdom, che, come l’inondazione di Zeitlin, manda all’aria ogni cosa per riformulare i percorsi degli affetti, immaginare liberazioni, speranze possibili, rigenerazioni. Wes Anderson costruisce il suo ennesimo mondo di vetro, coerente nei suoi meccanismi di funzionamento, nel disegno dei personaggi, nella caratterizzazione degli ambienti. Una casa di bambole, una narrazione perfettamente modulata come nella Guida del giovane all'orchestra di Britten. Eppure basta una nota stonata per sconvolgere il mondo, un bolla d’aria per incrinarne la tenuta. Il vetro s’infrange, come nell’ultima scena di Like Someone in Love, dove il sasso scagliato da Ryo Kase frantuma definitivamente lo spazio sotto vuoto dell’ipocrisia e fa saltare in un istante il rigido controllo formale del film. Sì, Kiarostami esercita la propria classe d’autore, con quegli estenuanti riflessi e quei ritorni in campo. Ma solo per riformulare continuamente i rapporti tra il dentro e il fuori, tra la finzione e il reale. Come Resnais, che a novant’anni suonati, finge il proprio testamento, mette in scena la morte dell’autore, ma avverte: non avete visto ancora niente.

È tutto un effetto destinato a scomparire nello spazio di un frame. La verità si nasconde oltre le mura, Beyond the Hills, è un’invenzione che riposa in una dimensione ulteriore, quella che sta tra chi guarda e chi è guardato, tra l’obbiettivo e il corpo, tra il mondo e lo schermo, tra l’occhio e il fantasma. Orfeo si volta e il suo sogno, Euridice, scompare nell’irrimediabilità della morte. Nel suo gioco meta tra teatro e cinema, interpretazione e verità, Resnais frantuma in un istante tutte le barriere, mostra i punti di sutura che fratturano e congiungono le immagini. Magicamente iconoclasta come la folle Alina, che mette in subbuglio il tranquillo convento di Mungiu solo per affermare la necessità dell’urgenza contro il rigore vuoto dell’ortodossia. L’amore è intransigente, al pari della fede, ed entrambe scuotono lo sguardo e il cuore fino a crocifiggerli. Il cinema riposa su una frattura del tempo e dello spazio. È fatto di cosas (que no) se tocan, come cantano gli Intoxicados nella travolgente imperfezione di Elefante Blanco di Trapero. E proprio per questo ci appare imprescindibile Audiard, che riporta tutto, il vissuto e il da vivere, il desiderio e la solitudine, a uno scontro dolente di ossa che stridono e s’infrangono, di ruggini corrosive che si attaccano ai corpi e li rodono, li scuotono, li portano ancora avanti, verso la possibilità di un’altra vita. I suoi personaggi possono non farsi amare, non farsi comprendere, ma sono fatti finalmente di carne e non possiamo far altro che riconoscerne la pienezza. Oltre le mancanze.

Sì, Il cinema è ben aldilà dei difetti. Per questo Gondry (Quinzaine des réalisateurs) non ha paura di lasciarsi andare ai passi falsi, ai momenti di stanca. Si arrischia in un tour de force, ma riesce a trovare un mondo intero, attraversando in lungo e in largo lo spazio stretto e infinito di un autobus, un luogo che vive e si muove solo attraverso le storie, infinite, mutevoli, pulsanti, di coloro che lo abitano. Cinema splendidamente vitale che racconta The We and I, cioè la nostra vita, e che ci scopre soli, disarmati proprio nell’istante in cui ci fa sentire più al sicuro, protetti nella chiusura ermetica del set, nei toni di una commedia adolescenziale scanzonata. A poco a poco, rintracciamo la spina nel cuore, la solitudine, il dolore, la morte, fuoricampo eppur fin troppo presente. Quella stessa spina che allontana inesorabilmente Hemingway e Gellhorn di Philip Kaufman, due personaggi talmente chiusi nel loro carisma granitico, da essere essi stessi mondi impenetrabili.

Ecco, se volessimo trovare un film per tutti dovremmo fare appello a Hong Sang-soo, che coglie un principio di differenza nell’eterna circolarità del tempo e delle storie. Le cose tornano (un ombrello, una bottiglia di vetro), eppure i frammenti non combaciano mai del tutto. Uno scarto minimo che “individua” ogni cuore e ogni situazione, che rende possibile, ancora, giocare all’amore, nonostante l’impasse dei sentimenti, dei tentennamenti, il loop asfissiante degli incontri mancati, delle fortune sfuggite. Perché, ci deve essere per forza un senso?, chiede a un certo punto il monaco ad Anne/Isabelle Huppert (completamente risucchiata nella bolla di Hong). Ed è quello che ci ripetiamo dinanzi ai fantasmi che abitano il Mekong Hotel di Apichatpong. Cerchiamo di riconoscere il tempo, ma ne ritroviamo un altro. Siamo spiazzati da questo fluire ininterrotto, come in Holy Motors, teoria di trasformazioni e perdite, ovvero il tempo. Sentiero di destini incrociati dove si ricongiunge, in un solo attimo, il cinema che odiamo e quello che amiamo, l’estrema consapevolezza autoriale e  la libertà della visione. Carax attraversa gli spazi, perciò non se ne lascia rinchiudere e incontra tutte le vite possibili, quelle vissute e quelle mancate. È la sfida dell’utopia: due mani aperte a raccogliere ancora il testimone dell’ideale, come nel finale, immenso, di 11/25 The Day Mishima Chose His Own Fate di Wakamatsu.

Il cinema che odiamo è quello che si chiude nella propria sterile autocontemplazione. Quello che amiamo si apre a svelare la sua sostanza e quella della vita. È Lee Kang-sheng, il walker di Tsai Ming-liang, che attraversa il mondo a un’altra velocità (venticinque minuti?) e ne rimette in asse il tempo e il senso. È una rivolta celata o, forse, un inganno manifesto. Rebellion (Lies), quella canzone che apre la cantina di Bertolucci e fa muovere fratello e sorella a un ritmo solo, stupefacente. Io e te è un rinascita dalle viscere dell’oscurità, atto sacro di libertà che culmina nella splendida illusione di un freeze frame che ancor si muove, un sorriso che riscrive i Quattrocento colpi e lascia la speranza di un’altra Storia. E la vita continua …

 


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