Energia suicida della tecnonologia PDF 
Marina Pazzona   

E’ nel corridoio di un ospedale che James Ballard avrà l’occasione di trovare il centro gravitazionale che forse aveva sempre cercato, incontrando Vaughan. Sembra quasi avvolto dall’apatia tutto ciò che resta fuori da quell’incontro, stravaccato su una sedia al centro del set degli spot che dirige, accompagnato dalla ricerca di sesso, raggiunto però quasi per inerzia, con la complicità della moglie in un reciproco ma piatto gioco di provocazione. I loro corpi sembrano quasi anestetizzati, il rumore del traffico che li ipnotizza oltre il balcone diventa sempre più presente nel film di Cronenberg, che ci presenta una realtà quasi priva di direzione, in un film che non racconta ma fa sentire. Forse è proprio la realtà che i coniugi Ballard cercano, ma anche la carnalità sembra perdere il suo effetto vitale, diventando una lascivia stanca e spenta, quasi fine a se stessa, non trovando uno stimolo di rinnovamento. Ma poi arriva Vaughan.

“Dopo essere stato perseguitato da tutta quella propaganda sulla sicurezza, è quasi un sollievo che mi sia ritrovato in un incidente vero” (James Ballard dal film Crash – David Cronenberg). Lui è l’elemento mancante in questa situazione di staticità, l’incidente che porterà Ballard all’ospedale è la giusta chiave di presentazione di un personaggio che si scopre piano, l’essenza e la ragion d’essere di quest’opera cronenbergiana e di tutti coloro che gli ruotano intorno. Sotto una luce omogenea e livida come i segni che Ballard porta addosso, Vaughan si avvicina creando fra loro, con i suoi gesti, una sottile tensione che diventa presto erotica. Osserva e sfiora le ferite e l’apparecchiatura metallica che sostiene la gamba dell’altro con attenzione quasi morbosa, una sfumatura perversa nei suoi semplici movimenti, che la cinepresa accompagna con primi piani sempre impercettibilmente ribassati rispetto allo sguardo inquieto degli attori, un desiderio che pregusta qualcosa di molto più profondo, che lo porterà a voltarsi nel proseguire lungo il corridoio. La sua presenza magnetica sarà costante, ancora più forte nei momenti di assenza, l’idea di lui invade James e sua moglie Kathrin come anche lo spettatore, la ricerca di contatto fisico con lui è spasmodica e allo stesso tempo cauta per la medesima consapevolezza del pericolo. Impossibile per questi restargli distanti, elemento vitale per la sua carica distruttiva, in un attimo condiziona e invade ogni momento della loro vita, presentata già come sfondo di se stessa. La sua forza attrattiva li rapisce, li coinvolge in un sogno romantico, che darà il via ad un violento gioco di seduzione.

“Esiste una psicopatologia benigna che ci chiama a sé… per esempio un incidente stradale è un evento legato alla fertilità anziché alla distruzione, è una liberazione di energia sessuale che trasmette la sessualità di quelli che sono già morti” (Vaughan dal film Crash – David Cronenberg). “Cinema del corpo”, come lo definisce Enrico Ghezzi, in cui la materialità della carne crea e definisce l’identità individuale, il corpo come un libro che racconta una storia tramite i suoi segni, il suo piacere e il suo dolore, concetti separati da un confine labilissimo. Cicatrici, ferite, tatuaggi e protesi sono così una dichiarazione di vitalità, il punto di partenza e di arrivo di un processo che produce energia, un progetto artistico. Vaughan è il profeta di questa romantica “sensibilità cyberpunk”, dominata dalla psichedelia tecnologica di un mondo super accessoriato e decadente, l’era high tech, in cui l’ibridazione consiste nelle nuove percezioni sintetiche offerte dalla chimica e dalla tecnologia. Manifesta la sua arte orchestrando le riproduzioni degli incidenti dei grandi personaggi del cinema, della musica, della politica, miti legati saldamente all’immaginario comune, divenuti immortali grazie alla loro morte spettacolare, nel film paragonata, e non solo metaforicamente, ad un altrettanto spettacolare impresa erotica.

“Una delle principali premesse del film è che la gente a volte ha bisogno di esporsi a pericoli di diverso tipo, non solo fisico, che consentirà loro di esprimersi, in un modo o nell’altro” (David Cronenberg in un’intervista nel sito ufficiale di Crash). Morte ed erotismo compaiono legati indissolubilmente, la forza e l’energia si sprigionano con la violenza e la carnalità, cercando di mettere a disagio lo spettatore, con forzature che possano infastidirlo, turbarlo, smuoverlo dalla tranquillità e della prevedibilità del cinema comfort, trascinandolo nella ripetitività di una struttura paranoica che si avvita su se stessa, la ricerca da parte dei personaggi di una ripetizione, una stabilità seppure nella “stravaganza” più assoluta, andando sempre più a fondo. Vaughan accompagna James in questo percorso, ponendosi lui stesso come oggetto del desiderio che il suo nuovo “seguace” appagherà soltanto una volta raggiunta una certa maturazione e un certo coinvolgimento nell’ideale di fondo. In questo senso è emblematico il rapporto consumato fra Ballard e Gabrielle, l’ultimo precedente all’incontro con Vaughan, che sarà invece l’apice dell’apparente appartenenza totale a questo microcosmo collettivo. Gabrielle è infatti la perfetta rappresentazione grafica della riuscita fusione fra corpo e macchina, l’opera compiuta, il simbolo della continua trasformazione e mutazione. Non c’è spazio per i dialoghi nella scena del loro incontro/scontro, costretta a fatica nell’abitacolo di un’auto, è la cinepresa a guidare il nostro sguardo per farci provare quello che il protagonista ha ora capito e imparato a sentire. Primi piani e dettagli diventano carezze virtuali alle rumorose protesi che sostengono il corpo di Gabrielle e le cicatrici, manifestazione di uno stato di necessità, che sembrano la transizione dalla naturalità del corpo all’artificiosità dei suoi supporti tecnologici. Ogni rapporto è devastante e rapido come un incidente d’auto, che ne è sempre il teatro, e degno per questo di essere soggetto delle foto celebrative di Vaughan. L’auto stessa diventa un prolungamento del corpo, un palcoscenico, il tamponamento fra due vetture è spesso sostitutivo del corteggiamento o il raggiungimento dell’apice del piacere, le cinture di sicurezza, slacciate e scostate dal corpo prima o dopo di un incidente, sono come un vestito da togliere, ogni personaggio ha la sfrenata esigenza di spogliarsi e rendere recettiva la propria pelle alle lamiere. La morte, vista da Vaughan come uno spettacolo da pianificare nell’inseguimento del suo progetto, è come un’ombra che pesa su tutto film. Il suo concretizzarsi, con la fatale uscita di strada di Vaughan, non meraviglia Kathrin, che piange in un misto di sensualità e commozione prima ancora di accertarsene, e nemmeno lo spettatore, non attenuando così lo stato di angoscia, accresciuto dalla consapevolezza che quella morte è il concludersi naturale e ovvio di un ciclo energico, vitale e distruttivo nel quale i due coniugi proseguono sulle tracce di Vaughan.

Il mondo che propone Cronenberg, onirico, ma anche concreto nella sua apparente perversione, potrebbe essere il riflesso torbido e volutamente celato del modello sociale rappresentato da Don DeLillo nei suoi romanzi, considerati quasi profetici, in quanto ritraenti una modernità inevitabilmente predisposta al destino della catastrofe e dell’incertezza post – 11 settembre 2001. “Penso che questa guerra abbia avuto una motivazione psicologica e che questa abbia a che fare con la tecnologia […]. Credo che la tecnologia abbia, se non proprio una sua volontà, un impulso a realizzare su tre dimensioni tutto ciò che è teoricamente fattibile. E su questo piano, a non volersi fermare mai.” (l’Unità 03/06/03, Don DeLillo intervistato da Maria Serena Palieri). E’ proprio la tecnologia, che DeLillo ritrae come forza subliminale che si impossessa delle menti attraverso il potere sugli aspetti pratici, funzionali e accessoriati della vita, che coccola e accompagna Jack Gladney, protagonista di Rumore Bianco, dandogli un forte senso di sicurezza. Come in un enorme bancomat, che gli conferma con automatismi la regolarità dei suoi conti, del suo ordine e del suo successo, Jack, vive una situazione di equilibrio perfetto, raggiunto dopo una vita di confusioni e matrimoni falliti. Ma il quadro dipinto dallo scrittore diventa immediatamente eccessivo, soffocante fra tutti gli elettrodomestici rumorosi della cucina, fra tutti i dettagli di ogni singolo gesto di Babette che prepara la colazione, perennemente soppesati e analizzati da bambini iper attivi, iper stimolati, iper attenti, che mettendo in discussione ogni aspetto del reale non riescono comunque a emanciparsi dall’indottrinamento televisivo. Al traffico che James Ballard si ferma ad ascoltare, Jack sostituisce il rumore del progresso che invade, dopo la sua casa, anche il suo animo. Con lo scorrere delle pagine il chiacchiericcio televisivo guadagna sempre più spazio, intorpidendo i personaggi ormai saturi di informazioni, un’ombra sempre più opprimente e ossessionante insieme all’idea di morte che segue lo stesso percorso solo in crescendo. E Jack Gladney sa che, proprio come è stata la sua vita, anche la sua morte sarà spersonalizzata e massificata, annunciatagli da uno dei tanti terminali pieni di dati, gli stessi che gli avevano confermato la sua tanto ambita serenità. La linearità da supermercato di cui vive prigioniero Jack, lo costringe a reprimere la propria carica furiosa energetica, relegandolo ad un destino di perenne sottomissione alle aspettative altrui, alle sue paure, che crescono così con rinnovata virulenza. Fino al grottesco e irrisoluto sfogo finale, forse un tentativo di riscattare se stesso, cercando di uccidere con una pistola la persona fisica in cui si possono identificare i nascosti tormenti della moglie, fino a poco prima la roccia alla quale lui si era aggrappato disperatamente per credere alla realtà ovattata in cui viveva.

James Ballard ha latente in sé stesso la forza scatenante il cambiamento e la trasformazione, è un personaggio che una volta trovato il polo d’attrazione, si è abbandonato alla propria natura, senza arrivare all’atto estremo del pensiero omicida. Il contrario di quello che invece accade al suo sfocato alter ego Jack Gladney, che rifiuta fino all’ultimo di affrontare la realtà instabile delle cose, resta vittima del gusto del macabro davanti alle tragedie disegnate in tv, cercando di proteggersi. “Una riflessione sull’atteggiamento dell’uomo moderno nei confronti del mondo mediatico, che non viene più avvertito come rappresentazione (fedele o distorta) delle cose, ma come la Cosa stessa, che è la forma laica che assume oggi l’idolatria” (Umberto Eco a proposito dell’informazione riguardo l’11 settembre). La fisicità. E’ questo l’elemento che romanticamente salva l’integrità della coppia Ballard, seppure in un percorso autodistruttivo, la consapevolezza dell’esigenza di una somatizzazione dell’energia vitale, dell’energia erotica, della morte. “E’ un appagamento conservatore, un’aspirazione all’innocenza. Vogliamo tornare a essere semplici. Vogliamo ribaltare il flusso dell’esperienza […]. L’incidente è una celebrazione. Una riaffermazione di valori e credenze tradizionali.” (Murray da Rumore Bianco – Don DeLillo). E’ della concretezza che si soffre l’assenza nell’opera di DeLillo, il quale mette appositamente a confronto il suo Jack, non con il crollo di due torri, con la catastrofe che nei discorsi con il suo amico e guida spirituale Murray sarebbe l’unico motore di rinnovamento, ma con una contaminazione tossica. Sfuma per la creatura di DeLillo la possibilità di quell’espressione quasi artistica di cui parla Cronenberg, divorata da un male impalpabile, una morte estranea perché virtuale, basata sul logorio dell’attesa, della paura, dell’incertezza sociale che riguarda ora pure la morte. Nascerà da qui l’esigenza di versare realmente sangue, altrui o proprio fa poca differenza, e sarà valido qualsiasi pretesto per esternare il rancore contro una condizione. “Scrittore e terrorista si somigliano. Il vero terrore è un linguaggio, una visione” (La Stampa.it intervista a Don DeLillo).

 


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