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di Lorenzo De Nicola   

È una lunga, dettagliata e veloce carrellata di situazioni familiari della provincia profonda quella che apre il lungometraggio d'esordio di Fausto Paravidino. Un prologo incalzante, manifesto di un cinema che vuole da subito sovvertire le regole ma che, più o meno consapevolmente, affonda le sue radici proprio nella tradizione più classica del cinema nostrano. La commedia agrodolce basata su un gruppo di amici in una piccola città di provincia è il leitmotiv della nostra produzione da più di cinquant'anni, e che negli ultimi anni sta tornando con grande veemenza: basti citare a questo riguardo pellicole come Ovosodo (Paolo Virzì, 1997), qui espressamente citato nel personaggio di Wyoming, Radiofreccia (Luciano Ligabue, 1998), Tutto l'amore che c'è (Sergio Rubini, 2000), La febbre (Alessandro D'Alatri, 2004).

Ma Paravidino compie un giro di vite rispetto ai suoi predecessori andando ad insistere maggiormente sui lati più oscuri e ingenuamente perversi di questi "vitellini" dei nostri tempi. La provincia stilizzata dal regista genovese è realmente una "provincia meccanica" (prendendo a prestito il titolo del collega Stefano Mordini), un mondo a metà tra la vita rurale e l'industrializzazione globalizzante. Il microcosmo in cui si muovono i suoi "messicani", da una parte, è schiacciato dalla pressione di un capitalismo in crescita e dalla necessità di desideri indotti (tutti i protagonisti possiedono o anelano macchine sportive e di lusso, alcuni di loro perdono la propria identità nell'omologante divisa di cassiera di quel supermercato che ha rovinato con la sua spietata concorrenza più di una famiglia), dall'altra, dalle tradizioni, dalle false credenze e dalle ottusità di una cultura volgare e spicciola. Non ci sono né buoni né cattivi in questa cittadina in provincia d'Alessandria. Solo indecise figure che si muovono in un gelido limbo di freddo e neve, che si dimenano per scrollarsi di dosso una realtà che va loro stretta ma che, alla fine dei conti, non negheranno mai fino in fondo e mai fuggiranno.

Paravidino si muove agilmente in questa dimensione, che dimostra di conoscere molto bene. Appoggiandosi ad una sceneggiatura che - malgrado sfrutti l'abusato gioco ad incastro della scomposizione spazio-temporale della linearità dello sviluppo narrativo - risulta ben calibrata, tratteggia in modo acuto e preciso realtà ed eventi di tutti i giorni, vere e proprie storie di ordinaria follia. Stranamente però, malgrado stia parlando dei suoi coetanei (il regista genovese è della classe 1976), è proprio nella loro descrizione che il film denuncia la sua maggiore debolezza. Gli amici che circondano i protagonisti sono spesso grotteschi e macchiettistici e la loro consistenza narrativa è spesso affidata a tormentoni sempliciotti. Al contrario i personaggi che vanno ad identificare le generazioni precedenti risultano figure ben definite e a tutto tondo, che trovano la loro massima espressione nel drammatico personaggio di Maria, ben interpretato da una inusuale Valeria Golino.

Al tempo stesso la messa in scena di Paravidino è lineare e ben definita. Abbandonandosi spesso a suggestioni linguistiche e tecniche che accarezzano la citazione senza citare veramente, conduce lo spettatore nel suo mondo aderendovi completamente. Paravidino infatti non riesce a mantenere un reale distacco dalla sua storia; il languore e la freddezza della messa in scena sono quasi del tutto da attribuire alle scelte di location o narrative e, abilmente, si concede espliciti commenti attraverso sottili tocchi registici (due per tutti il dolly dal sapore vidoriano che svela Cinzia ingabbiata nel ruolo di cassiera al Bennet e la "moralistica" soggettiva di Maria sulla squallida situazione post-stupro in casa di Elisa).

 


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